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6. LA RESPONSABILITA’ DA FATTO ILLECITO

6.1 Manutenzione stradale

Il tema dei danni causati dalle imperfette condizioni di una strada, o comunque di un luogo aperto al pubblico transito, aveva dato luogo negli anni appena trascorsi a vari contrasti. Tre in particolare, le questioni controverse:

(a) se la presunzione di cui all’art. 2051 c.c. fosse invocabile nei confronti della pubblica amministrazione per i danni causati da beni demaniali;

(b) se, a prescindere dalla natura (demaniale o meno) della cosa che ha causato il danno, la suddetta presunzione fosse invocabile nei confronti dei proprietari di beni di ampie dimensioni (boschi, ponti, strade od autostrade, ecc.);

(c) se la condotta della vittima che, per imprudenza, non si avvede dell’esistenza d’una insidia oggettivamente avvistabile, valga di per sé ad escludere la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c..

In merito a ciascuno di questi tre profili la Corte nel 2007 ha confermato i propri orientamenti più recenti, senza alimentare nuovi contrasti: sicché questi ultimi sembrerebbero in via di superamento.

Per quanto concerne l’invocabilità della presunzione di cui all’art. 2051 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione per i danni arrecati da beni demaniali, ovvero nei confronti di beni di ampie dimensioni, la Corte ha ribadito che per l’affermazione della responsabilità prevista da tale norma non rileva natura giuridica del bene che ha causato il danno, né la qualifica soggettiva del proprietario, e nemmeno le modalità di uso da parte del pubblico. Sicché, in teoria, la responsabilità presunta del custode ex art. 2051 c.c. ben può essere invocata anche nei confronti della pubblica amministrazione, ovvero con riferimento ai danni causati da beni demaniali, od ancora con riferimento a danni causati da beni destinati ad uso pubblico. Quel che unicamente rileva, per invocare la responsabilità in questione. è soltanto una questione di fatto, e cioè se la cosa fonte di danno al momento dell’evento poteva o meno costituire oggetto di custodia. A sua volta, un bene materiale può costituire oggetto di custodia soltanto quando sussista l'oggettiva possibilità per l'ente pubblico proprietario o gestore di esercitare sul bene un effettivo potere di governo (sentenza n. 17377).

Confermato altresì l’orientamento più recente - che ormai, per la sua compattezza, può ritenersi ius receptum - in materia di responsabilità del gestore autostradale. Con riferimento a quest’ultimo la Corte, ribadito il tradizionale principio secondo cui la presunzione di cui all'articolo 2051 c.c. non può trovare applicazione con riferimento a beni di estensione tale da non consentire un'efficace e capillare controllo, ha tuttavia aggiunto che la possibilità o l'impossibilità di tale controllo non si atteggia univocamente in relazione ad ogni tipo di strada, e dipende non solo dalla estensione della strada, ma anche dalle sue caratteristiche, dalle sue dotazioni, dai sistemi di assistenza che le connotano, dagli strumenti che il progresso tecnologico volta a volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti. Per le autostrade, la Corte ritiene che sia possibile al gestore svolgere un'adeguata attività di vigilanza, che sia in grado di impedire l'insorgere di cause di pericolo per gli utenti, con la conseguenze che è al gestore stesso applicabile l'art.

2051 cod.civ..

Nello stesso tempo, però, la Corte ha operato un importante distinguo tra due diversi tipi di insidia o trabocchetto dei quali il gestore autostradale può essere chiamato a rispondere, ed in particolare tra:

(a) le situazioni di pericolo immanentemente connesso alla struttura o alle pertinenze dell'autostrada (ad es., irregolarità del manto stradale, insufficienza delle protezioni laterali, segnaletica insidiosa o contraddittoria);

(b) le situazioni di pericolo “provocato dagli stessi utenti ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa, che pongano a repentaglio l'incolumità degli utenti e l'integrità del loro patrimonio” (ad esempio, perdita di oggetti da parte di veicoli in transito, formazione di ghiaccio sul manto stradale, perdita di sostanze oleose da parte di veicoli in transito).

Mentre, ricorrendo la prima ipotesi, l’art. 2051 c.c. sarà sempre applicabile, nella seconda ipotesi la responsabilità del gestore autostradale sarà disciplinata dall’art.

2043 c.c., con la conseguenza che la vittima dell’insidia avrà l’onere di provare - secondo i criteri generali già esposti - la imprevedibilità e la inevitabilità del pericolo (sentenze nn. 7763 e 2308).

Per quanto attiene l’invocabilità, da parte del custode responsabile ex art. 2051 c.c., del concorso di colpa della vittima ex art. 1227 c.c., è noto che in passato tale possibilità

veniva esclusa, sul presupposto che delle due l’una: o l’insidia era avvistabile, ed allora l’avverarsi del sinistro va ascritto a colpa esclusiva della vittima, per non avere rilevato un pericolo oggettivamente percepibile; ovvero l’insidia non era percepibile dall’utente della strada, ed allora del danno dovrà rispondere unicamente il custode non essendo ravvisabile alcuna condotta colposa a carico della vittima.

Questo orientamento è stato già da qualche anno abbandonato, in favore della diversa opinione secondo cui con la condotta omissiva o negligente del custode (in particolare, consistente nell’omessa adozione di cautele, barriere o dispositivi di sicurezza prescritti dal codice della strada) può concorrere la colpa per imprudenza o negligenza della vittima, ad esempio consistita nell’eccesso di velocità, ovvero nell’avere prestato superficiale attenzione alle caratteristiche della strada percorsa (sentenze nn. 17377 e 8847). In questi casi tuttavia spetterà al giudice di merito stabilire quale sia la misura percentuale dell’apporto causale fornito dalla vittima all’avverarsi del sinistro (sentenza n. 8847).

6.2 Responsabilità professionale.

In tema di responsabilità professionale del notaio, la S. C., con sentenza n. 7707, ha affermato che poiché detto professionista non è un destinatario passivo delle dichiarazioni delle parti, contenuto essenziale della sua prestazione professionale è il c.d. dovere di consiglio, che peraltro ha ad oggetto questioni tecniche, cioè problematiche, che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, collegate al possibile rischio, ad esempio, che una vendita immobiliare possa risultare inefficace a causa della condizione giuridica dell'immobile trasferito; tale contenuto non può essere peraltro dilatato fino al controllo di circostanze di fatto il cui accertamento rientra nella normale prudenza, come la solvibilità del compratore nella vendita con pagamento dilazionato del prezzo, o l'inesistenza di vizi della cosa. Pertanto, qualora in sede di stipula di un atto di compravendita immobiliare, l'alienante abbia dichiarato estinto il debito a garanzia del quale sia stata iscritta un’ipoteca sul bene, deve ritenersi che l'acquirente abbia controllato, secondo la diligenza normale del padre di famiglia, la veridicità di tale circostanza attraverso la richiesta di esibizione della relativa quietanza, senza che sia

configurabile a carico del notaio l'obbligo professionale avente ad oggetto il consiglio di effettuare la relativa verifica.

Parimenti con la sentenza n. 2485 è stato ritenuto che non incorre in responsabilità per negligenza professionale il notaio il quale, nell'ipotesi di vendita di terreni dei quali l'alienante assumeva di avere acquistato la proprietà per usucapione senza il relativo accertamento giudiziale, non abbia avvertito l'acquirente che l'acquisto poteva essere a rischio, ove nell'atto venga espressamente inserita una clausola dalla quale possa desumersi che l'acquirente era comunque consapevole di tale rischio.

In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, con la sentenza n. 1057, è stato affermato che il termine di prescrizione dell'azione di risarcimento del danno da responsabilità professionale decorre dal momento in cui si verifica il fatto dannoso.

Con sentenza n. 10578 è stato affermato che il termine di prescrizione dell'azione di risarcimento del danno da responsabilità professionale decorre dal momento in cui si verifica il fatto dannoso; pertanto, con riferimento all'azione proposta contro un avvocato, il quale non abbia proposto opposizione a decreto ingiuntivo, ma, in difformità dall'incarico ricevuto, opposizione all'esecuzione immobiliare già iniziata, la decorrenza coincide con la scadenza del termine per la proposizione dell'opposizione all'ingiunzione e, quindi, con la data in cui il decreto sia divenuto irrevocabile.

È stato poi precisato con la sentenza n. 9238 che l'affermazione della responsabilità professionale dell'avvocato non implica l'indagine sul sicuro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente coltivata e, perciò, la “certezza morale” che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente, con la conseguenza che al criterio della certezza della condotta può sostituirsi quello della probabilità di tali effetti e della idoneità della condotta a produrli. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che non vi era certezza, ma neppure possibilità di accertare che la domanda potesse essere accolta, posto che non era dato conoscere quali fossero esattamente le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto deporre).

In tema di responsabilità professionale del medico, numerose sono le sentenze emesse dalla S.C. in tema di responsabilità civile del medico nel corso dell’anno 2007.

Con la sentenza n. 14759 è stato riaffermato il principio secondo cui il giudice di merito deve accertare separatamente dapprima la sussistenza del nesso causale tra la condotta illecita e l'evento di danno e, quindi, valutare se quella condotta abbia avuto o meno natura colposa o dolosa, sicché, nell'ipotesi di responsabilità del medico, è viziata la decisione la quale escluda il nesso causale per il solo fatto che il danno non potesse essere con certezza ascritto ad un errore del sanitario, posto che il suddetto nesso deve sussistere non già tra l'errore ed il danno, ma tra la condotta ed il danno, mentre la sussistenza dell'eventuale errore rileverà sul diverso piano della imputabilità del danno a titolo di colpa. Peraltro con la medesima pronuncia la S.C. ha ritenuto priva di motivazione sufficiente la decisione con la quale il giudice del merito, chiamato ad accertare la natura iatrogena di una frattura pluriframmentaria della testa del femore con conseguente accorciamento dell'arto, ha rigettato la domanda di risarcimento sul presupposto che il paziente già prima dell'intervento presentava una frattura scomposta, in quanto in tal modo il giudice, per un verso, ha confuso due patologie diverse (la frattura scomposta e quella pluriframmentaria), non equivalenti sul piano della idoneità causale a produrre l'evento di danno e, per altro verso, ha trascurato di considerare che non la preesistenza all'intervento della frattura scomposta avrebbe escluso il nesso causale e, quindi, la responsabilità, ma solo la preesistenza della frattura pluriframmentaria.

Il risultato “anomalo” o anormale - in ragione dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza - dell'intervento medico-chirurgico, fonte di responsabilità, è da ravvisarsi non solo in presenza di aggravamento dello stato morboso, o in caso di insorgenza di una nuova patologia, ma anche quando l'esito non abbia prodotto il miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista è tenuto, producendo invece, conseguenze di carattere fisico e psicologico.

Tale principio è stato affermato - con riferimento ad intervento routinario di settorinoplastica effettuato in struttura sanitaria pubblica - dalla Cassazione con la sentenza n. 8826, già prima citata, che ha cassato la sentenza d'appello la quale, pur dando atto che dall’intervento era conseguito un esito di “inalterazione” e, quindi, di sostanziale “insuccesso”, sotto il profilo del pieno recupero della funzionalità respiratoria, aveva ciononostante ritenuto la condotta del medico come non integrante ipotesi di responsabilità.

Sempre in tema di danno alla persona conseguente a responsabilità contrattuale medica, con riferimento ad una fattispecie relativa a diagnosi errata con la quale era stato dichiarato un carcinoma schneideriano in luogo di un papilloma transazionale, la sentenza n. 1511 ha affermato il principio secondo cui va risarcito, quale danno non patrimoniale, distinto dal danno morale soggettivo o pecunia doloris, quello derivante da errori diagnostici che compromettano, oltre alla salute fisica, l'equilibrio psichico della persona.

La Cassazione, con sentenza n. 4211, ha ritenuto che, in materia di rifiuto di determinate terapie, alla stregua di un diritto fondato sul combinato disposto degli artt.

32 Cost., 9 della legge 28 marzo 2001 n. 145 (recante “ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano riguardo all'applicazione della biologia e della medicina”), e 40 del codice di deontologia medica, pur in presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente.

Nella specie, un testimone di Geova traumatizzato aveva rifiutato all'atto del ricovero in ospedale, eventuali trasfusioni di sangue, ma i medici, stante l'aggravamento delle sue condizioni, rivelatosi nel corso dell'intervento chirurgico, essendo il paziente anestetizzato e mancando la possibilità di interpellare altri soggetti legittimati in sua vece, hanno ugualmente praticato una trasfusione indispensabile per salvargli la vita, ritenendo altamente probabile che l'originario rifiuto non fosse più valido; i giudici di merito hanno ritenuto legittimo tale comportamento ed hanno conseguentemente rigettato la domanda del testimone di Geova volta ad ottenere il risarcimento del danno morale, e la S.C. ha confermato la sentenza impugnata.

Con la sentenza n. 8826 è stato riaffermato il principio secondo cui, in presenza di contratto di spedalità, la responsabilità della struttura ha natura contrattuale, sia in relazione a propri fatti d'inadempimento sia per quanto concerne il comportamento dei medici dipendenti, a norma dell'art. 1228 c.c., ai sensi del quale il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi, ancorché non alle sue

dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi. A questi fini è sufficiente che la struttura sanitaria comunque si avvalga dell'opera di un medico. Né ad escludere tale responsabilità è idonea la circostanza che ad eseguire l'intervento sia un medico di fiducia del paziente, sempre che la scelta cada (anche tacitamente) su professionista inserito nella struttura sanitaria, giacché la scelta del paziente risulta in tale ipotesi operata pur sempre nell'ambito di quella più generale ed a monte effettuata dalla struttura sanitaria, come del pari irrilevante è che la scelta venga fatta dalla struttura sanitaria con (anche tacito) consenso del paziente.

In linea con l’orientamento espresso con la pronuncia appena ricordata è anche la sentenza n. 13953 la quale ha ribadito il principio generale emergente dall'art. 1228 cod. civ. precisando che tale principio è applicabile anche al rapporto tra medico operatore e personale di supporto messogli a disposizione da una struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende, dovendosi esigere dal chirurgo operatore un dovere di controllo specifico sull'attività e sulle iniziative espletate dal personale sanitario con riguardo a possibili e non del tutto prevedibili eventi che possono intervenire non solo durante, ma anche prima dell'intervento e in preparazione di esso.

Con la medesima sentenza è stato pure riaffermato il principio (v. in senso conforme anche la sentenza n. 6945) secondo cui il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale,

non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche

“di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto. Si evidenzia che la sentenza n. 8826 la S.C., alla stregua dei ricordati principi, ha confermato la sentenza impugnata con la quale era stata affermata la responsabilità solidale con il chirurgo della società titolare della casa di cura, nella cui struttura era stato praticato ad una paziente l'intervento operatorio - ritenuto di routine – di liposuzione agli arti inferiori, al quale aveva fatto seguito un'infezione batterica dannosa per la degente, così respingendo - siccome attinente a circostanze irrilevanti in diritto al fine di escluderne l'asserita responsabilità contrattuale – il motivo di impugnazione della stessa casa di cura con il quale era stato evidenziato che il chirurgo non svolgeva attività professionale alle sue dipendenze, che la clinica aveva fornito soltanto le attrezzature ed i servizi occorrenti per l'intervento chirurgico, ma non la sonda utilizzata dalla quale si era propagata l'infezione e che i suoi dipendenti avevano agito sotto l'esclusiva sorveglianza del medico operatore, attuandone le disposizioni loro impartite e respingendo, altresì, il motivo del medico ricorrente ad avviso del quale non avrebbe potuto essergli addebitata alcuna responsabilità in relazione all'attività disimpegnata dal personale della clinica per il fatto che in ordine alla stessa egli non avrebbe avuto la possibilità, giuridica e di fatto, di esercitare qualsivoglia potere di direzione, vigilanza e controllo, ivi compreso quello sulla perfetta sterilizzazione della sonda suttrice e concretamente utilizzata, dalla quale si era propagata l'infezione conseguita in danno della paziente.

Con sentenza n. 17397 la S.C. ha affermato che, a differenza di quanto previsto all'art.

2043 cod. civ., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un

“fatto” doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso” e ha ritenuto che da tanto consegue che mentre la prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno ed in cui favore è stabilita la solidarietà. L'unicità del fatto dannoso richiesta dal citato art. 2055 per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere intesa dunque - secondo la Cassazione - in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, perciò, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche

diversi, sempreché le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. Detto principio è stato affermato in tema di responsabilità solidale tra l'autore dell'incidente, che aveva causato lesioni personali al danneggiato ed i medici, che avevano provveduto alle conseguenti relative cure sanitarie violando in concreto il criterio di diligenza di cui all'art.1176 cod. civ., applicabile anche all'ipotesi di responsabilità extracontrattuale, non implicando la rispettiva prestazione problemi tecnici di particolare difficoltà.

6.3 Altre ipotesi di responsabilità.

In tema di responsabilità degli insegnanti per i danni patiti dagli allievi durante le ore di lezione, la Corte ha ribadito il proprio orientamento ormai consolidato, secondo cui la colpa dell’insegnante è presunta tanto nel caso in cui il danno sia stato causato da altro allievo o da un terzo, quanto nell’ipotesi in cui sia stato proprie l’allievo a causare il danno a se medesimo. Nel primo caso, infatti, la vittima (ovvero i suoi genitori) potrà invocare nei confronti dell’insegnante la presunzione di colpa di cui all’art. 2048, comma 2, c.c.; nel secondo caso potrà invece invocare la presunzione di colpa di cui all’art. 1218 c.c., sul presupposto che la responsabilità dell’insegnante è - come quella del medico - disciplinata dalle norme sui contratti in virtù del “contatto sociale” con l’allievo (sentenza n. 8067).

In tema di responsabilità dei padroni e dei committenti, di cui all’art. 2049 c.c., ha

In tema di responsabilità dei padroni e dei committenti, di cui all’art. 2049 c.c., ha