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7. DIRITTO COMMERCIALE

7.6 Società a responsabilità limitata

Con riguardo al diritto di voto nelle assemblee, secondo la sentenza n. 19161 la legittimazione al relativo esercizio si connette, ai sensi dell'art. 2479 cod. civ. nel testo previgente al d.lgs. n. 6 del 2003, al fatto in sé dell'iscrizione dell'avente diritto al libro soci, mentre il trasferimento di quota è valido ed efficace inter partes indipendentemente dalla predetta formalità, necessaria unicamente ai fini dell'efficacia verso la società ed i terzi: si è affermato il principio per cui la società non può distinguere la legittimazione, quale discendente dall'iscrizione nel libro soci, dalla reale titolarità della partecipazione, escludendosi l’applicabilità in materia, al fine di disconoscere i diritti sociali, della disciplina del pagamento al creditore apparente (art.1189 cod. civ.) o al possessore di un titolo di credito (art.1992 cod. civ.), poiché essendo la partecipazione nella s.r.l. diversa dall'azione non ricorre la regola sull'adempimento della prestazione nei confronti del possessore di un titolo di credito.

L'annullamento della delibera assembleare di s.r.l. che sia stata adottata in presenza di un conflitto d'interessi di un socio ex art. 2373 cod. civ. (secondo la disciplina anteriore al d.lgs. n. 6 del 2003) esige la concorrente sussistenza della causazione del danno alla società e, in via preliminare, del carattere determinante del voto espresso, secondo la prova di resistenza: dal calcolo della maggioranza, secondo la sentenza n.

15613, la nozione di capitale sociale di riferimento rimanda alla sola parte di esso coincidente con quella dei soci aventi diritto di votare, con esclusione della quota

facente capo al socio che versi in conflitto d'interessi, rilevante invece ai soli fini del quorum costitutivo.

Quanto al luogo ove è convocata l’assemblea, la sentenza n. 1034 ha precisato che il riferimento alla sede della società – ex art. 2363 cod. civ., applicabile in forza del rinvio di cui all'art. 2486 cod. civ. (nel testo previgente al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) - può essere interpretato nel senso che, salva diversa disposizione dell'atto costitutivo, l'assemblea possa essere convocata entro l'ambito del territorio del comune in cui si trova la sede stessa, divenendo invece illegittima la convocazione in un comune diverso, benché distante pochi chilometri e facilmente raggiungibile senza aggravi di costi; in caso di inerzia dell'organo amministrativo, il potere di convocazione dell'assemblea di una s.r.l., ai sensi dell'art. 2406 cod. civ. applicabile in forza del rinvio di cui all'art. 2448 cod. civ., spetta inoltre - per la stessa sentenza - al collegio sindacale e non al suo presidente.

La clausola di prelazione prevista dallo statuto di una s.r.l. è dettata nell'interesse dei soci che intendono garantirsi contro il rischio di mutamento della compagine sociale ma, secondo la sentenza n. 10121, in caso di retrocessione di quote oggetto di intestazione fiduciaria non vi è, dal punto di vista sostanziale, mutamento nelle persone dei soci, operando il fiduciante nell'interesse e secondo le istruzioni del mandante: il fiduciante, dunque, che sia titolare di proprie quote, non può invocare il diritto di prelazione, in quanto il trasferimento delle quote al mandante fa parte del pactum fiduciae.

La nuova disposizione dell'art. 2467 cod. civ. - secondo cui il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito - è applicabile, per la sentenza n. 16393, non ad ogni forma di finanziamento da parte dei soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti anomali o sostitutivi del capitale al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione nominale: compete dunque alla parte impugnante provare che la deliberazione medesima sia stata adottata in presenza di un eccesso di indebitamento rispetto al patrimonio netto della società o di una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento ovvero in una fase in cui la società aveva necessità di acquisire provvista ma non sarebbe stata in grado di operare i rimborsi.

L' esistenza di un gruppo di società o di imprese, pur se privo di soggettività giuridica e non coincidente con un centro d'interessi autonomo rispetto alle società collegate, esige la prova di un accordo fra le varie entità, diretto a creare un'impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore: la sentenza n. 15879 ha stabilito che la regola del collegamento societario, anche a norma dell'art. 2359 comma terzo cod. civ., attiene a tutte le società di capitali e richiede in più l'esistenza di un rapporto fra società o imprese, per cui l'influenza notevole deve essere il riflesso di intese dirette al realizzo di finalità comuni, mediante una politica societaria convergente e l'utilizzo di risorse patrimoniali attinte da ciascuna delle società partecipanti al gruppo, senza che sia risolutiva la posizione dominante pur accertata con riguardo ad un socio.

7.7 Società cooperative.

La doppia valenza delle posizioni del socio di una cooperativa, beneficiario del servizio reso da quest'ultima oltre che parte del rapporto associativo, implica – secondo la sentenza n. 18724 pronunciata con riguardo a cooperative esercenti il credito – che ogni operazione (tra cui il versamento su libretto di risparmio) instaurativa di obblighi negoziali diversi da quelli nascenti dal vincolo sociale, può essere considerata fonte di responsabilità a carico degli amministratori se compiuta in spregio al divieto di compiere nuove operazioni sociali in presenza di una causa di scioglimento dell’ente. Facendo applicazione di tale principio alle cooperative edilizie, in particolare la sentenza n. 7646 ha precisato che l'acquisto, da parte dei soci, della proprietà dell'alloggio per la cui realizzazione l'ente sia stato costituito, passa attraverso la stipulazione di un contratto di scambio, la cui causa è del tutto omogenea a quella della compravendita, per cui, con riferimento al corrispettivo dovuto, la misura e le modalità di pagamento non possono essere modificate dagli organi sociali, in assenza di un'esplicita previsione contrattuale.

Il principio dell'intrasmissibilità mortis causa della posizione del socio e del conseguente scioglimento del rapporto sociale, nelle società cooperative discende dall’art. 2528 cod. civ. - nel testo anteriore alla riforma del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 - il quale consente - secondo la sentenza n. 11311 - che la continuazione del rapporto

con gli eredi possa essere deferita, per previsione dell’atto costitutivo, al discrezionale e insindacabile giudizio degli organi sociali, anche se l'erede possieda i requisiti previsti dallo statuto per l'ammissione alla società.

La categoria dell’inesistenza della delibera assembleare è stata ribadita, dalla sentenza n. 16390, anche per le cooperative, potendo essere impugnata e conseguentemente dichiarata invalida la delibera societaria inesistente quando vi sia un atto scrutinabile o comunque possa valutarsi la palese difformità dal modello legale o l'assenza di requisiti essenziali; al contrario, non può configurarsi alcun atto impugnabile se una richiesta del socio non sia stata presa in considerazione dal presidente dell'assemblea e conseguentemente né discussa né approvata.

Lo statuto delle società contiene le norme relative al loro funzionamento e forma parte integrante dell'atto costitutivo (art. 2518 cod. civ. nel testo anteriore alla riforma introdotta con il d.lgs. n. 6 del 2003), ma non per questo può ritenersi in contrasto con la disciplina statutaria qualunque disposizione organizzativa interna che la società si sia data: così, la sentenza n. 14791 ha statuito la compatibilità con tale principio della previsione attributiva agli organi sociali di specifiche competenze non previste dallo statuto o dalla legge, ove non sia derogata la ripartizione delle attribuzioni dei vari organi ivi stabilita.

In forza del rinvio operato (nel sistema previgente al d.lgs. n. 5 del 2003) dall'art. 2516 cod. civ. alle norme dettate per la liquidazione delle società per azioni, trova applicazione anche per le società cooperative l'art. 2449 cod. civ., che sancisce il divieto di nuove operazioni quando si sia verificata una causa di scioglimento e afferma la responsabilità illimitata e solidale degli amministratori per gli affari intrapresi in violazione di tale divieto; tale norma, per la sentenza n. 3694, si applica altresì alla gestione del commissario governativo.

7.8 Diritto processuale societario.

Secondo quanto stabilito nella sentenza n. 19039, l’immediata esecutività delle delibere assembleari spiega perché ex art. 2378, primo comma, cod. civ. (richiamato espressamente dall'art. 2486 cod. civ. nel testo anteriore al d.lgs. n. 6 del 2003), il tribunale territorialmente competente per l’impugnazione di delibera di una s.r.l.

sia, in via esclusiva e inderogabile, quello del luogo in cui la società aveva la propria sede legale, determinata al momento dell'introduzione del giudizio.

In tema di poteri di rappresentanza, la procura alle liti stesa a margine o in calce all'atto di impugnazione e rilasciata, in nome e per conto della società di capitali, da soggetto che si qualifichi come “procuratore speciale” senza la produzione dell'atto di investitura e nonostante la mancata eccezione della parte avversaria ha fondato, per la sentenza n. 19922, l’inammissibilità dell’appello proposto. Con la sentenza n. 19162 è stato specificato il principio per cui la persona fisica che riveste la qualità di organo della persona giuridica non ha l'onere di dimostrare tale veste, spettando invece alla parte che ne contesta la sussistenza l'onere di formulare tempestiva eccezione e fornire la relativa prova negativa, regola applicata anche al caso in cui la persona giuridica si sia costituita in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante, se tale potestà deriva dall'atto costitutivo o dallo statuto.

In tema di opponibilità delle limitazioni del potere rappresentativo degli amministratori di una s.p.a. nei confronti dei terzi che non versino in situazione di dolo, per aver intenzionalmente stipulato un atto con il rappresentante sfornito di poteri in danno della società, trova applicazione l’art.2384 cod. civ. per cui tale potere - secondo la sentenza n. 18574 - sussiste perché previsto dall'atto costitutivo o dalla delibera di nomina o derivante dalla stessa carica di amministratore: eventuali limitazioni del potere rappresentativo, anche se pubblicate, non possono essere opposte al terzo contraente, per cui non vi sarebbe ragione di distinguere le limitazioni contenute nell'atto costitutivo e nello statuto, da quelle risultanti in atti sociali, per i quali è prevista, dall'art. 29 della legge n. 266 del 1997, la pubblicazione mediante iscrizione o deposito nel registro delle imprese.

Anche nella società cooperativa a responsabilità limitata l'autorizzazione dell'assemblea al promovimento dell'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, richiesta dall'art. 2393 c.c., costituisce una condizione dell'azione, la cui esistenza va verificata d'ufficio dal giudice: per la sentenza n. 18939 è sufficiente, peraltro, che tale autorizzazione sussista nel momento della pronuncia della sentenza che definisce il giudizio.

I creditori sociali perdono, per effetto della dichiarazione di fallimento della società di capitali debitrice, la legittimazione - spettante in via esclusiva al curatore durante il

corso della procedura concorsuale - ad esercitare l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società, ai sensi dell'art. 2394 cod. civ., e la riacquistano a seguito della chiusura del fallimento; tuttavia, chiarisce la sentenza n.

14961, essi sono soggetti agli effetti della prescrizione maturata medio tempore, atteso che la perdita della legittimazione attiva non è causa di sospensione della prescrizione.

La trasformazione di un’impresa individuale in società di capitali, nel corso del processo, integra un'ipotesi di successione a titolo particolare, secondo la previsione dell'art. 111 cod. proc. civ., con la conseguenza – per la sentenza n. 6945 - che il titolare resta legittimato alla continuazione del processo ed all'esercizio del diritto d'impugnazione.

In materia di irregolarità nella gestione di una società, i provvedimenti dati ai sensi dell'art. 2409 cod. civ., anche se comportino la nomina di un ispettore o di un amministratore previa revoca di quello prescelto dall'assemblea ovvero decidano questioni inerenti alla regolarità del relativo procedimento, sono privi di decisorietà, si risolvono in misure cautelari e provvisorie, e, pur coinvolgendo diritti soggettivi, non statuiscono su di essi a definizione di un conflitto tra parti contrapposte, nè hanno attitudine ad acquistare autorità di giudicato sostanziale: ciò motiva, per la sentenza n.

6805, la loro non impugnabilità con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., salvo la condanna alle spese, negandosi poi tale natura al provvedimento di fissazione di una cauzione.

La Corte inizia a svolgere la propria funzione nomofilattica nel campo della struttura e degli effetti, del novellato procedimento cautelare, partendo dal processo societario, essendo stata questa la prima riforma processuale ad aver introdotto per i provvedimenti cautelari non conservativi la cd. strumentalità attenuata, mediante l’adozione di un modello successivamente introdotto con la l.n. 80 del 2005, per tutti i provvedimenti cautelari. Lo fa con le prime pronunce riguardanti provvedimenti emessi in materia societaria, sollecitata, come è accaduto all’esito dell’introduzione del procedimento cautelare uniforme, con la L. n. 353 del 1990, dai ricorsi ex art. 111 Cost. A tale riguardo si segnala in primo luogo la sentenza n. 13360 con la quale è stata dichiarata l’inammissibilità dell’art. 111 Cost. avverso un provvedimento di reclamo con il quale era stato negato un provvedimento cautelare di sospensione dell’esecutività di una delibera assembleare in corso di giudizio, sul rilievo che anche i

provvedimenti cautelari a strumentalità non necessaria possono determinare l’instaurazione di un giudizio a cognizione piena, non potendo mai passare n giudicato.

Così decidendo la Corte introduce due significativi punti fermi nel dibattito seguito all’introduzione dei due nuovi modelli di provvedimento cautelare: il primo riguarda la espressa indicazione relativa all’assenza di definitività e decisorietà del provvedimento ancorché emesso in sede di reclamo sulla base dell’astratta eventualità dell’instaurazione del giudizio di merito; la seconda cocerne il collegamento inscindibile tra tale caratteristica di limitata stabilità temporale e l’inidoneità al passaggio in giudicato. Ma nella stessa ordinanza la Corte stabilisce altri due principi di estrema rilevanza : il primo ha ad oggetto la espressa qualificazione del provvedimento di sospensione degli effetti esecutivi della delibera assembleare (art.

2378 cod. civ.) tra i provvedimenti a strumentalità attenuata e non necessaria e si segnala proprio è una delle prime prese di posizione della Corte sulla qualificazione giuridica dei provvedimenti cd. extravagantes rinvenibili nel codice civile e nelle leggi speciali, a causa dei quali ampio e diversificato è stato il dibattito in dottrina; la seconda riguarda la differenza tra estinzione del giudizio e estinzione dell’azione. La Corte precisa, infatti, che anche quando il giudizio si è estinto e il provvedimento cautelare è divenuto stabile, la mancata estinzione del diritto di azione abilita le parti a introdurre un nuovo giudizio sulla causa petendi e il petitum costituenti il fumus del provvedimento cautelare. Infine la Corte sottolinea la differenza tra provvedimento di accoglimento e provvedimento di rigetto, rilevando che in quest’ultimo caso non c’è la produzione di alcun effetto rispetto alla situazione giuridica soggettiva esercitabile nel giudizio a cognizione piena.

Da queste premesse la Corte fa derivare l’inammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost.

In un’altra ordinanza, la n. 5335, viene enunciato un principio nuovo in materia di competenza del giudice del merito. La Corte stabilisce che la competenza non contestata della fase cautelare radica definitivamente quella del merito. La conclusione, è tutt’altro che univoca. Se nel giudizio a cognizione piena può essere dichiarata l’incompetenza per materia o territorio del giudice adito sul diritto costituente il fumus della domanda cautelare, tale pronuncia, secondo una parte della dottrina travolge anche il provvedimento cautelare, a differenza delle pronunce impedienti estranee ai presupposti della cautela. Inoltre specie nelle cause aventi ad

oggetto rapporti obbligatori, è ammessa la possibilità d’instaurare il giudizio di merito presso un foro diverso da quello della misura cautelare ma pur sempre rientrante tra quelli alternativi.

7.9 Procedura fallimentare.

Ai fini della dichiarazione di fallimento, per la sentenza n. 14064 è da escludere che le disposizioni di cui agli artt. 214 e segg. cod. proc. civ., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, siano applicabili in sede di istruttoria prefallimentare, tenuto conto che tale procedimento ha carattere sommario e camerale, investe materia sottratta al potere dispositivo delle parti, tende al riscontro dei presupposti per l'instaurazione della procedura concorsuale senza un preciso accertamento delle obbligazioni facenti carico all'imprenditore. Sempre in mabito processuale, la sentenza n. 17388 si segnala perché individua tutte le azioni rientranti nella competenza funzionale del tribunale fallimentare chiarendo che per azioni derivanti dal fallimento ai sensi dell’art. 24 l.f., devono intendersi quelle che comunque incidono sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti che costituiscono la premessa di una pretesa nei confronti della massa, anche quando siano diretti a porre in essere il presupposto di una successiva sentenza di condanna. Ne consegue che rientrano nella competenza inderogabile del foro fallimentare la domanda di compensazione riguardante un maggior credito nei confronti del fallito da insinuare al passivo, le azioni revocatorie fallimentari, le azioni dirette a far valere diritti verso il fallito, le azioni di annullamento seguite da quelle di restituzione e quelle volte ad accertare la simulazione.

Viene ribadito dalla sentenza n. 19096 che il decreto con cui la Corte d'appello accoglie, ai sensi degli artt. 22 terzo comma e 147 l.f., il reclamo avverso il provvedimento di rigetto di estensione del fallimento alla società di fatto ed ai soci, non ha alcuna autonomia rispetto alla dichiarazione di fallimento, di cui costituisce un momento del relativo complesso procedimento. Ne consegue che esso non è impugnabile con ricorso per cassazione nemmeno a seguito della modifica dell'art. 360 cod. proc. civ., di cui all'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, difettando i requisiti, pur sempre necessari, della definitività e della decisorietà,

La cessazione dell'attività dell’impresa, per la sentenza n. 9897, postula che – ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore, ex art. 10 l.f. – essa non sia stata seguita da operazioni economiche o commerciali intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere nell'esercizio dell'impresa stessa.

Il fallimento della società può essere dichiarato entro un anno dalla fusione ai sensi degli artt. 10 e 11 l.f. applicabili in via analogica, essendo stato ritenuto dalla sentenza n. 2210 irrilevante - in una fattispecie relativa a fusione di società di persone ed anteriore all'entrata in vigore della riforma del diritto societario introdotta con d. lgs.

17 gennaio 2003, n. 6 - che i debiti siano stati, con la fusione, assunti dalla società incorporante; che la fusione non sia stata contrastata dai creditori; che sia mancato il fallimento della società incorporante; che sia mancata qualsiasi richiesta di pagamento rivolta dai creditori dell'incorporata alla società incorporante. Con riguardo al fallimento del socio receduto, la sentenza n. 9445 ha chiarito che tale pronuncia non deve avvenire necessariamente con la procedura di estensione ex art. 147, secondo comma, l.f., poiché se la sua esistenza è già nota prima della dichiarazione del fallimento societario, questo, ai sensi del primo comma, produce il fallimento di tutti i soci illimitatamente responsabili. Significativa la posizione assunta, in ordine alla legittimazione al reclamo avverso i decreti di rigetto, dalla sentenza n. 5220 che, sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 22 l.f., ha riconosciuto al P.M., nelle ipotesi disciplinate dall'art. 7 l.f., la legittimazione a proporre il predetto reclamo avanti alla corte d’appello. L'art. 91 cod. proc. civ. trova applicazione anche nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, per cui, in caso di rigetto dell'istanza di fallimento, la condanna alle spese può seguire anche in assenza di esplicite domande, essendo una conseguenza legale della decisione della lite, né rileva a tal fine – per la sentenza n. 4774 - che le ragioni dei creditori fossero fondate e gli stessi avessero di fatto conseguito il risultato di riscuotere i crediti vantati, non essendo il procedimento di fallimento diretto ad accertare inadempienze bensì lo stato di insolvenza. In parallelo la responsabilità del creditore istante per il fallimento del proprio debitore per i danni derivati dalla dichiarazione di fallimento di quest'ultimo configura –per la sentenza n. 4096 - una particolare applicazione, al processo fallimentare, dell'istituto della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 cod. proc. civ

In tema di pagamenti spettanti al fallito, la sentenza n. 19165 ha negato valore al principio di tutela del pagamento effettuato presso il creditore apparente ribadendone

In tema di pagamenti spettanti al fallito, la sentenza n. 19165 ha negato valore al principio di tutela del pagamento effettuato presso il creditore apparente ribadendone