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Marchi collettivi e valorizzazione del territorio

Giovanna Segre

Università di Torino

5.1 La cultura: un elemento tanto universale quanto specifico per lo sviluppo del territorio; 5.2 Il ruolo del marchio collettivo in un’economia basata sulla cultura; 5.3 Quando il «segnale» viene dato collet- tivamente; 5.4 La protezione dalla frode incorpora una garanzia di qualità minima; 5.5 La singolare necessità di riduzione dell’asimmetria informativa nel mercato turistico; 5.6 La reputazione collettiva spinge alla cooperazione per la qualità; 5.7 Il problema dell’exit quando la qualità diventa «troppo» alta; 5.8 Quale uso del marchio per valorizzare un territorio?

72 Capitolo 5 ~ Marchi collettivi e valorizzazione del territorio infatti tutti ispirazione da un qualche legame materiale o immateriale con la cultura espressa dalla comunità locale d’origine.

Negli attuali paradigmi di sviluppo post-industriale il senso economico della cultura si estrinseca nel riconoscimento di in un fondamentale ruolo di catalizzatore di nuove modalità di produzione e di consumo dei beni e dei servizi, sempre più legate a una dimensione immateriale del valore aggiunto. Come discusso da Sacco e Segre (2009) «l’economia post-industriale è essenzialmente un’economia culturalizzata» in cui la cultura si traduce in capacità innovativa per l’intero sistema economico. In particolare, è attraverso lo sviluppo di nuove competenze da parte delle persone (cittadini, lavoratori, consumatori) che si può sostenere effettivamente la crescita economica, e tali competenze maturano a partire dalla messa in funzione degli stimoli provenienti dal capitale culturale. Solo le società che saranno in grado di dotarsi di un livello di capitale culturale tale da sostenere la naturale propensione degli individui a vivere esperienze culturali di stimolo alla creatività, in qualunque settore essa venga applicata, potranno infatti partecipare con successo alla sfida della competizione globale. Per le econome industrializzate, in un mondo globalizzato quale è oggi il sistema economico internazionale, la ricerca del più basso costo del lavoro possi- bile non porta lontano, e le capacità di introdurre innovazioni di processo o di prodotto possono invece consentire di guadagnare competitività. L’obiettivo principale è dunque quello di progettare opportunità per la localizzazione di nuove imprese in un contesto di particolare attenzione alla qualità della vita in modo da attrarre i lavoratori più talentuosi, gli aspetti definiti strategici per lo sviluppo economico secondo l’ormai ben noto modello basato sulle «tre T» (Tecnologia, Talento, Tolleranza) proposto da Florida (2002, 2005).

La cultura non è più considerabile semplicemente, come avveniva fino a pochi anni fa, un bene meritorio, ovvero meritevole di sostegno pubblico per la sua importanza intrinseca pur nell’impossibilità di generare autonomamente redditi sufficienti a mantenere la sua produ- zione. Tantomeno essa può considerarsi un fattore di sviluppo economico che ha valore solo attraverso il turismo culturale, come spesso viene affermato. La cultura è invece anche, e forse soprattutto, una chiave di successo per ottenere un significativo aumento del benessere economico e uno sviluppo qualitativamente più elevato per un territorio.

A partire da tale complesso e articolato quadro concettuale si possono introdurre specifiche politiche di sviluppo del territorio che, prendendo l’avvio dalla cultura, si estendano ad altri settori economici. In questo processo, un ruolo importante di «facilitatore» viene svolto dalla protezione della proprietà intellettuale collettiva, sia nella forma dei marchi collettivi sia in quella delle indicazioni di provenienza geografica, come presentato nel paragrafo che segue e come ampiamente discusso nei diversi capitoli di questo Rapporto.

5.2 Il ruolo del marchio collettivo in un’economia basata sulla cultura

Lo studio delle possibilità di sviluppo del territorio derivanti in modo diretto e indiretto dalla cultura trova un elemento di distinto interesse nell’analisi del ruolo che può svolgere la prote- zione della proprietà intellettuale collettiva. Tale ruolo è stato studiato principalmente nella letteratura costruita a partire dai lavori fondativi di Santagata (2000, 2004, 2006) sui distretti culturali, nella quale sono stati approfonditi i casi della ceramica artistica di Caltagirone (Cuccia e Santagata, 2003), della produzione fortemente legata ai saperi, alle tradizioni e alla cultura dei vini di qualità nelle Langhe (Segre, 2003), del vetro artistico di Murano (Russo e Segre, 2005), del presepe napoletano di San Gregorio Armeno (Cuccia, Marrelli e Santagata, 2007), dell’evoluzione dinamica del distretto culturale (Cuccia e Segre, 2005), della promozione di un distretto culturale turistico (Santagata, Russo e Segre 2007; Russo e Segre, 2009).

Il contesto dell’analisi è, in tutti gli esempi sopra citati, quello dei distretti culturali in cui la protezione della proprietà intellettuale collettiva costituisce un elemento qualificante. L’analisi viene condotta a partire dal noto concetto di distretto industriale, dove la cultura è comunque considerata un fattore molto importante, in quanto costituisce il deposito della conoscenza tacita, delle convenzioni e dei modelli comportamentali che rappresentano il patrimonio imma- teriale del distretto, pur essendo il distretto dedicato alla produzione di beni non appartenenti alle industrie o all’ambito propriamente culturali. Nel caso specifico dei distretti culturali gli elementi chiave sono, similmente, il legame tra il prodotto e il territorio, la qualità dei beni e dei servizi prodotti, lo scambio anche informale di saperi e di competenze e una forte presenza pubblica a sostegno della produzione culturale.

Nella letteratura dedicata ai distretti culturali una particolare attenzione è posta sulle istituzioni che sovrintendono l’avvio e lo sviluppo della formula distrettuale di tipo culturale, mettendo in evidenza il ruolo di tutela e di promozione dello sviluppo economico esercitato dai diritti di proprietà collettiva e delle istituzioni che ne garantiscono l’applicazione. Il sistema della tu- tela della proprietà intellettuale collettiva fa principalmente riferimento a due istituti giuridici: il marchio collettivo e le indicazioni di provenienza geografica (cfr. Bottero, capitoli 4 e 5 in questo Rapporto). Entrambi questi istituti giuridici, dal punto di vista degli effetti economici, possono essere interpretati nella logica di rispondere primariamente all’esigenza di disegnare incentivi ottimali per i produttori che ne fanno uso, seppur con qualche differenza.

Pur partendo dal generale riconoscimento che la principale giustificazione economica sotto- stante la concessione di un diritto esclusivo di proprietà su un marchio, sia esso individuale o collettivo, risiede nella circostanza che ciò abbassa i costi di ricerca del consumatore (Cooter et al., 1999), si possono individuare quattro funzioni economiche specifiche legate all’introduzione dei marchi collettivi. Tali funzioni possono essere separate dal punto di vista concettuale per chiarezza espositiva, ancorché esse siano del tutto integrate negli effetti che possono produrre dal punto di vista economico. Esse sono:

1. la funzione di segnalare la presenza di determinate caratteristiche in un prodotto, indipen- dentemente da quale sia il produttore;

2. la funzione di proteggere dalla frode attraverso la garanzia di una qualità minima; 3. la funzione di ridurre l’asimmetria informativa che colpisce in particolare il turista; 4. la funzione di incentivare i produttori a cooperare per aumentare la qualità. 5.3 Quando il «segnale» viene dato collettivamente

La funzione di base di ogni segno distintivo di tipo collettivo è quella di segnalare la presenza di determinate caratteristiche in un prodotto in quanto appartenente a una certa categoria. Tale funzione è tanto più importante quanto più le caratteristiche che qualificano il prodotto siano di difficile identificazione a priori. È questo il caso tipico dei cosiddetti experience-goods, ovvero i prodotti per i quali le qualità specifiche si rendono evidenti solo dopo l’acquisto, che si differenziano dai «search-goods», le cui qualità sono note al consumatore anche prima che il bene venga acquistato. Il tipico esempio di experience-good è rappresentato dal vino, come da molti altri settori della produzione alimentare. Quando il consumatore si appresta all’atto di acquisto di una bottiglia di vino non ha alcuno strumento «tecnico» a disposizione per poter conoscere la qualità e le caratteristiche del vino che sta per acquistare. La bottiglia è necessariamente chiusa e potrebbe contenere qualunque liquido, la cui natura, solo una volta effettuato l’acquisto e aperta la bottiglia, potrebbe essere scoperta dal consumatore. Quando si volesse acquistare una sedia (search-good), invece, è chiaro che, dalla possibilità

74 Capitolo 5 ~ Marchi collettivi e valorizzazione del territorio di provare a sedervisi sopra e dalla possibilità di toccare la robustezza dei materiali, questo problema è fortemente limitato.

Tutte le volte in cui la qualità del bene da acquistare è particolarmente difficile da identificare a priori, può essere molto utile sfruttare la capacità di veicolare informazioni aggiuntive, rispetto a quanto un marchio privato possa fare, che nasce dall’uso di un marchio collettivo o di una indicazione di provenienza geografica. Il livello di conoscenza del mercato che è necessario possedere per ottenere beneficio dalla presenza di un segnale collettivo è infatti certamente di molto inferiore alla conoscenza necessaria per saper interpretare il segnale fornito dai molti e diversi marchi privati che generalmente caratterizzano i singoli produttori presenti sul mercato. 5.3.1 La scelta del tipo di marchio collettivo

Le possibilità di adottare un marchio collettivo si distinguono in tre tipi, distinti in funzione del «grado» di importanza che ha l’informazione relativa alla provenienza geografica del gruppo di beni da sottoporre al marchio (figura 1): un marchio collettivo senza alcun riferimento geo- grafico, un marchio collettivo qualificato in funzione delle caratteristiche geografiche, una vera e propria indicazione di provenienza geografica (DOC, DOCG, IGT, DOP, IGP).

Figura 1. Il ruolo dei fattori geografici nel marchio collettivo

Ruolo crescente dei fattori geografici

La qualità dei prodotti non dipende in alcun

modo dalle caratteristiche geografiche del luogo

di produzione

La qualità è influenzata dalle

caratteristiche geografiche del luogo

di produzione

La qualità dei prodotti discende direttamente dalle caratteristiche geografiche del luogo di produzione

La scelta relativa a quale di queste tre tipologie di marchio collettivo adottare discende però essenzialmente da due fattori, di cui solo il primo è legato a elementi territoriali, mentre il secondo è relativo al disegno normativo che caratterizza l’istituto dl marchio.

1. Il primo fattore riguarda la circostanza fondamentale che il contenuto veicolato dal segno collettivo del marchio sia prevalentemente legato alle caratteristiche geografiche di prove- nienza o se invece prevalga la necessità di segnalare la presenza di caratteristiche intrin- seche che non derivano dal luogo geografico del gruppo di beni o servizi a cui ci si riferisce. 2. Il secondo fattore è invece relativo alla scelta di applicare o meno una logica di club, e

quindi di esclusione, al gruppo dei produttori che utilizzano il segno collettivo.

Dal primo punto di vista la scelta è dunque principalmente culturale ed è guidata dal significa- to simbolico e identitario incorporato nel bene o nel servizio a cui si applica il segno collettivo.

Con la figura 2, costruita sulla base di quanto l’UNESCO (2009) propone per costruire una base dati esaustiva a fini statistici sulla cultura, si evidenzia come la cultura sia costituita da otto ambiti fondamentali, dei quali l’ottavo rappresentata l’insieme dei valori intangibili che si alimentano a partire dalla produzione culturale, declinabile a sua volta negli altri sette. Il patrimonio culturale intangibile è ciò a cui il marchio fa concettualmente riferimento.

Figura 2. I diversi ambiti della cultura

Paesaggio Parchi naturali Enogastronomia ... PATRIMONIO NATURALE E ENOGASTRONOMICO Musei Siti archeologici Architettura Historic Urban Landscape

PATRIMONIO CULTURALE

Musica Danza Teatro Festival, fiere e feste

SPETTACOLI Belle arti Fotogrfia Produzioni artigianali ARTI VISIVE E ARTIGIANATO Libri Giornali Biblioteche Archivi EDITORIA E STAMPA Film e video TV e radio Internet Video games AUDIOVISIVI E MEDIA INTERATTIVI Desing industriale Design interni Moda Comunicazione DESIGN E SERVIZI CREATIVI AMBITI DELLA CULTURA

PATRIMONIO CULTURALE INTANGIBILE

espressioni orali, tradizioni, valori, idee, riti, identità, conoscenze tacite

Fonte: Adattamento da UNESCO Framework for Cultural Statistics (2009)

A seconda degli ambiti culturali di appartenenza dei beni o servizi a cui applicare il marchio e della natura del patrimonio culturale intangibile che si alimenta da tali ambiti, la scelta cadrà sul denotare o meno la dimensione dell’origine geografica in ragione dell’importanza di fattori quali il suolo o il clima o, ancora, le tradizioni e gli usi locali.

Dal secondo punto di vista la logica è invece prettamente economica. La strategia di sviluppo e valorizzazione di una risorsa può infatti avvenire più o meno efficacemente applicando una logica di inclusione o di esclusione. In questo senso sono a disposizione tre istituti giuridici che prevedono diversi gradi di intensità di esclusione, di seguito presentati secondo un ordine crescente di essa:

i) i marchi di garanzia (o di conformità, o di qualità) che attestano che i beni possiedono de- terminate caratteristiche prefissate, come per esempio nel caso del «marchio CE», rispetto ai quali nessun produttore che rispetti le previsioni può essere escluso, tanto che spesso sono valide procedure di autocertificazione;

ii) di natura simile ai precedenti è la natura delle indicazioni di provenienza geografica, il cui uso non è possibile sia rifiutato al produttore che rispetti i requisiti imposti, ma per il quale deve essere ottenuta l’autorizzazione da parte dell’organo della Pubblica Amministrazione incaricato;

iii) nel caso del marchio collettivo l’esclusione di chi non è gradito è sempre possibile. Si noti che nel caso di marchio collettivo esso è generalmente affiancato alla creazione di un consorzio di produttori. Lo statuto del consorzio definisce di solito un marchio del consorzio,

76 Capitolo 5 ~ Marchi collettivi e valorizzazione del territorio formato oltre che dal nome, spesso, anche da un marchio grafico, adottato per contraddistin- guere i prodotti delle aziende facenti parte del consorzio e per attestare le caratteristiche del prodotto a cui si riferisce.

5.3.2 Alcuni esempi rappresentativi dei diversi tipi di marchio collettivo

Un esempio di marchio collettivo senza alcun riferimento alla provenienza geografica è quello della catena di hotel di lusso «Relais&Châteaux» che riunisce i membri in un’associa- zione indipendente. La possibilità di appartenere al gruppo, e poter usare quindi il logo della figura 3, è valutata sulla base dell’osservanza di precisi standard riguardanti ad esempio il numero minimo di 4-stelle, un numero di stanze non superiore alle 100 (essendo consigliato di averne 30), e l’offrire un ristorante di alto livello che rispecchi le tradizioni del paese in cui l’hotel si trova.

Figura 3. Il marchio collettivo «Relais&Châteaux»

Un altro esempio che aiuta a chiarire il concetto di marchio collettivo, in cui il riferimento geografico è presente, pur non essendo esso propriamente una indicazione di provenienza geografica, è il marchio «Vetro Artistico di Murano» istituito dalla Regione Veneto con la Legge Regionale n. 70 nel 1994, anche se operativo da settembre 2002.

Questo marchio è gestito e promosso dal Consorzio Promovetro, un’associazione di circa 100 produttori, ed è applicabile a prodotti realizzati nell’isola, secondo criteri coerenti con la tra- dizione muranese. Si tratta, nei fatti, nonostante la dicitura «vetro artistico», di un marchio collettivo (rappresentato nella figura 3) che designa sostanzialmente la provenienza geografica della produzione, che deve avvenire nell’isola lagunare.

Ancora diverso è il caso delle indicazioni di provenienza geografica. Con la denominazione d’origine nel settore del vino, ad esempio, sono state introdotte una serie di disposizioni giuridiche strettamente legate alle caratteristiche geografiche associate alla produzione del vino. In generale in Italia i tipi di vino prodotti possono essere classificati secondo tre categorie (mutualmente escludentisi) che segnalano un crescente livello di qualità/intervento del fattore umano e che via via si allontanano quindi dalla semplice certificazione dell’origine geografica, pur mantenendo nell’indicazione del luogo di produzione il dato fondamentale. Si tratta di: 1. Indicazione Geografica Tipica (IGT);

2. Denominazione di Origine Controllata (DOC);

3. Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG).

Questa tripartizione si sviluppa intorno all’importanza che assume il nome geografico della zona viticola da cui il vino proviene, in cui maturano particolari caratteristiche legate all’am- biente e ai fattori umani, e si articola secondo una dimensione via via più stringente della relazione tra area geografica e denominazione. Nel caso della IGT il legame con il nome geografico è più blando, essendo sufficiente che o la produzione o i processi di lavorazione si svolgano nell’area indicata, mentre DOC e DOCG prevedono che, sia la produzione, sia i processi di lavorazione, avvengano nell’area indicata. In più il marchio DOCG riguarda i vini di particolare pregio, e quindi restringe ancor più le possibilità che un vino possa utilizzare tale denominazione. La denominazione, sia essa IGT, DOC o DOCG, si riferisce in sostanza all’impiego del nome geografico di una zona viticola particolarmente vocata, utilizzato per designare il generico tipo di vino. Le denominazioni possono essere seguite da nomi di vitigni, menzioni specifiche, riferimenti a tecniche di vinificazione e qualificazioni specifiche del prodotto, ma rimangono del tutto distinte dal nome del singolo produttore indicato dal marchio.

Complessivamente oggi il Piemonte rappresenta la regione italiana con il maggior numero di vini con denominazione d’origine controllata, avendo in questo superato la Toscana che ben prima del Piemonte aveva adottato lo stesso modello di sviluppo basato sulla enogastrono- mia, sul patrimonio storico e architettonico e su quello paesaggistico. Il sistema dei diritti di proprietà relativi alla denominazione d’origine nel mercato del vino del Piemonte assume una configurazione piramidale. A partire dalla base verso il vertice, le denominazioni richiedono, infatti, il soddisfacimento di requisiti sempre più ristretti rispetto al territorio di riferimento e sempre più vincolanti rispetto ai disciplinari di produzione che devono essere seguiti (Aimo- ne et al., 1996). Al primo livello, il più basso, si trova la «DOC Piemonte», introdotta, insieme alla «DOC Langhe», con il D.P.R. del 22 novembre 1994, che riguarda la maggior parte delle province meridionali della regione (a cui si affianca la «DOC Colline Novaresi» che si riferisce a una zona delimitata nella provincia). Alla «DOC Piemonte» seguono la «DOC Langhe» e la «DOC Monferrato», che si riferiscono ad aree più ristrette, e che trova nelle DOC e DOCG dei singoli vini, quali il Barolo, il Barbaresco o il Dolcetto, per citare i più famosi, prodotti dai vitigni ubicati in aree sempre più circoscritte, il livello più alto.

78 Capitolo 5 ~ Marchi collettivi e valorizzazione del territorio 5.4 La protezione dalla frode incorpora una garanzia di qualità minima

L’istituto del marchio collettivo, esattamente come nel caso del marchio individuale, oltre a segnalare la presenza di determinate caratteristiche e qualità del prodotto, aiuta anche a proteggere il consumatore dalla frode. Ma i marchi collettivi e le indicazioni di provenienza ge- ografica mettono a disposizione del consumatore di più di quanto possa fare il marchio privato. I regolamenti o i disciplinari di produzione previsti, rispettivamente, per i marchi collettivi e per le indicazioni di provenienza geografica definiscono infatti con precisione i contenuti del prodotto, o del processo che dà luogo al prodotto, a cui il segno collettivo è applicato. Il consumatore vede quindi veicolata con grande facilità e immediatezza un’informazione precisa sulla qualità minima del bene o del servizio. L’acquirente che trova apposta l’indicazione del marchio collettivo su un prodotto ha infatti la certezza (a meno di trovarsi di fronte a un marchio contraffatto, ovviamente) che almeno la qualità minima garantita dal regolamento o dal disciplinare sia stata soddisfatta. Nel caso del vino con denominazione d’origine, per esempio, il disciplinare di produzione è costituito da un insieme di norme che stabiliscono con precisione quali vitigni e in che rapporto essi concorrono alla produzione del vino, in quali zone e in quali condizioni possono essere prodotte le uve utilizzate per la produzione, quali sono le condizioni di vinificazione, quali sono le caratteristiche del vino, sia dal punto di vista fisico-chimico (acidità, grado alcolico, ecc.), sia dal punto di vista organolettico, nonché le modalità di imbottigliamento nel caso dei vini DOCG. Per avere diritto a utilizzare nell’etichetta la denominazione collettiva, i produttori di vino devono quindi soddisfare degli standard minimi superando i test del giudizio della commissione di degustazione, della resa massima per ettaro, degli anni di invecchiamento, dell’utilizzo di processi produttivi tipici, ecc.

Fin dalla sua origine, la legislazione per la protezione della denominazione delineata tra il 1924 e il 1927, stabilendo la costituzione di consorzi per la tutela della denominazione dei vini, introduce infatti il ruolo primario assegnato all’obiettivo di regolamentare le attività di tutti i produttori a vantaggio di ciascuno di essi. I compiti principali dei consorzi istituiti erano, per esempio, la vigilanza sulle attività delle ditte consorziate attuata con lo scopo di impedire che esse producessero o mettessero in vendita con il nome di «vino tipico»1 un vino