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3. Gli ultimi giorni di un «moribundo Portugal dito império» Os dias do fim d

4.1 Ai margini del testo

Una delle ragioni che mi ha indirizzata nella scelta dei testi del mio corpus di riferimento, è, utilizzando le parole di Francisco Noa, il particolare “mondo” che questi riescono a rappresentare:

«Um factor constitutivo e definidor da literatura de ficção é que ela participa da composição de mundos possíveis e convoca, para cada um destes mundos, uma ideia de realidade que acaba por se articular, por semelhança ou por contiguidade, com o mundo empírico no qual nos movemos»2. L’analisi letteraria non si compone dunque semplicemente del riconoscimento di un valore estetico dell’opera in questione, ma anche di una valutazione basata proprio sulla rappresentazione di un certo “mondo possibile” che questa ci propone. È seguendo questo orientamento che mi propongo di analizzare ora M. & U. Companhia ilimitada, di Isabella Oliveira (del 2002).

Già soffermandoci sul peritesto editoriale del libro possiamo trovare alcuni spunti per una prima riflessione e per un confronto tra questo testo e quello di Saavedra, se si tiene in conto, per quanto riguarda Os dias do fim, della sua seconda edizione, cioè quella del 2008. Se c’è una cosa che, a prima vista, accomuna i due libri è infatti la loro copertina: in entrambi i casi il lettore si trova tra le mani la riproduzione di una fotografia di un viale alberato della città di Maputo. Si è già riflettuto sulla fotografia, ma forse è opportuno richiamare qui alcune brevi nozioni: che cosa vogliono dirci gli autori (e/o gli editori) attraverso questa copertina? Queste fotografie possono infatti far arrivare al lettore alcuni messaggi ed è anche sotto l’influenza di questi messaggi che, tutto sommato, è posto il libro nel suo insieme. Riconosciamo prima di tutto nell’immagine una fotografia “datata”, come si può dedurre dalla tonalità seppiata dei colori della copertina di Isabella Oliveira e da quella molto luminosa, leggermente sovraesposta, della copertina di Saavedra, ma, in entrambi i casi, anche dai modelli delle (rare) automobili che percorrono i viali fotografati. Senza soffermarsi troppo su ciò che raffigurano, queste immagini ci riportano dunque al passato, ad un passato che ci fa pensare ad una fotografia necessariamente analogica; queste fotografie ci dicono la presenza: vogliono indurci a supporre che, all’opposto degli eventuali camuflage letterari, possono essere state fatte soltanto da qualcuno che veramente si trovava lungo quei viali. Quindi, di riflesso, anche ciò che troveremo all’interno del libro è posto sotto l’insegna dell’autenticità: molto probabilmente ci troveremo di fronte a qualcosa che, almeno parzialmente, deve essere stato vissuto dal narratore

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I. de Oliveira, M.& U. Companhia ilimitada, Porto, Afrontamento, 2002, p. 114. D’ora in poi citato nel testo.

o, chissà, anche dall’autore, ma che, in ogni caso, non può che essere autentico. Non “vero”, ma autentico, quindi altamente verosimile. Si tratta di un’autenticità che sfrutta il carattere probante della “foto-testimonianza”.

Proprio il valore di autenticità di queste immagini ci porta a pensare ad un’altra implicazione nascosta nelle fotografie: non abbiamo bisogno di leggere le ultime pagine di M. & U. Companhia ilimitada per supporre, con le parole della protagonista, che «meti no saco que viajaria comigo as últimas fotografias que tirara à cidade» (116). Possiamo ipotizzare immediatamente, cioè, che una fotografia del genere, vecchia e che non riproduce nulla di particolarmente interessante (un viale alberato che costeggia un litorale), per giunta leggermente sgranata, non costituendo un richiamo da un punto di vista estetico, sia lì per suggerirci che il paesaggio riprodotto può avere un qualche significato affettivo. Per il narratore, forse anche per l’autore, magari per qualche lettore. Può senza dubbio puntare a richiamare, già dalla copertina, un filone narrativo connotato dal ricordo, da un ricordo emotivamente partecipato.

Se lo statuto di “immagine prodotta in presenza” della fotografia ci riporta al suo valore di indice, questo legame affettivo ci riporta a quello che, come si è già detto3, Jean-Marie Schaeffer definisce come una valenza iconica della fotografia, riferendosi ad un’immagine intorno alla quale il singolo costruisce un nucleo di significati che oltrepassano l’immagine stessa, che oltrepassano il “segno- traccia”. Tenendo presente quello che ci dirà poi il testo nel suo insieme potremmo dire che in questo caso, come spesso accade, la foto-testimonianza e la foto-ricordo si sovrappongono e presumibilmente, in modo non dissimile da quanto abbiamo letto in Os dias do fim, questo nucleo di significati si svilupperà lungo l’intera narrazione. L’implicazione diretta dell’autrice in questo groviglio di testimonianze e ricordi ci viene suggerita del resto, come era stato per Saavedra, già dalla dedica «A todos nós e aos meninos que hoje correm nas praias em que aprendemos a nadar».

Quello che cambia, rispetto al primo romanzo che ho analizzato, è il richiamo immediato alla finzione. Nonostante non compaia nessuna indicazione esplicita che ci dica che ci troviamo davanti ad un romanzo, l’epigrafe che segue le dediche ci informa, citando Hemingway che «a verdade é ficção» e questo passaggio è reso ancora più esplicito dal fatto che ci troviamo, subito dopo, di fronte ad una “mappa” del Mozambico che, al contrario di quella che avevamo trovato nel romanzo di Saavedra, è in realtà la riproduzione di un disegno stilizzato realizzato dalla stessa autrice. La superficie all’interno delle linee che suggeriscono i confini dello stato africano è occupata da tanti piccoli disegni stilizzati di capanne, alberi, uomini, tamburi; al posto dell’oceano troviamo scritto, «Oceano Índico, Memória e Utopia», con le lettere maiuscole a farci intuire il significato della sigla presente nel titolo. Sarà la narratrice stessa a rivelarci, nelle prime pagine,

come interpretare la forma del Mozambico, per come appare in questa “carta”: «Adormecemos a sonhar com o futuro que, ali para os lados do Trópico do Capricorno, na costa africana do Índico, tem a forma de um cavalo em pé que a relinchar, nesta noite, reclamava a sua independência» (17). Insomma, malgrado la presenza della fotografia in copertina, tutto farebbe pensare che ci troviamo davanti alla rielaborazione di un ricordo, più che ad una testimonianza, e se mi soffermo su questi particolari esterni al testo vero e proprio è perché in effetti in questo caso, più che in Os dias do fim nel quale i due narratori restavano tutto sommato ben distinti, il lettore si accorgerà alla fine del testo, in quello che viene denominato “Posfácio”, che la prima persona viene utilizzata da due diverse voci narranti, che sembrano tuttavia provenire dalla stessa persona.