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3. Gli ultimi giorni di un «moribundo Portugal dito império» Os dias do fim d

5.3 Medo

Anche Isabela, come gli altri autori citati finora, si sofferma sulla piacevole “vita coloniale”. Lo fa però in modo completamente diverso. Sottolinea gli agi rapidamente, non dimenticando di inquadrarli sempre nel contesto di un tempo perduto, nel quale il potere era saldamente nelle mani degli europei (al momento della effettiva decolonizzazione la narratrice dirà che «o tempo dos brancos tinha acabado» (88), suggerendo un passaggio netto, radicale, tra un prima e un dopo che non ammette sfumature o continuità, come sperava invece Isabella Oliveira). Paragonando la vita nella colonia a quella che si vive al giorno d’oggi in Portogallo, la protagonista afferma, ad esempio:

«Em Lourenço Marques, sentávamo-nos numa bela esplanada, de um requintado ou descontraído restaurante, a qualquer hora do dia, a saborear o melhor uísque com soda e gelo, e a debicar camarões, tal como aqui nos sentamos, à saída do emprego, num snack do Caís do Sodré, forrado a azulejos de segunda, engolindo uma imperial e enjoando tremoços. Os criados eram pretos e nós deixávamos-lhes gorjeta se tivessem mostrado os dentes, sido rápidos no serviço e chamado patrão. [...] Nenhum branco gostava de ser servido por outro branco, até porque ambos antecipavam maior gorjeta» (23).

L’immagine che ci restituisce questo “aperitivo coloniale” è quella di un mondo agiato, piacevole, proprio come ce l’avevano descritto gli altri testi, specialmente quello di Saavedra. Ma qui ci sono due elementi di novità: in primo luogo il paragone con la “metropoli” (vista per di più al presente) è esplicito e non solo suggerito come l’opposto di una vita privilegiata; potremmo dire che è “sfacciatamente” esplicito, visto che uno dei pregiudizi più frequenti sul conto dei retornados, nel Portogallo post-Revolução, era proprio quello di aver vissuto da signori in Africa e di pretendere, al loro ritorno in Europa, un pari trattamento. Isabela dunque non nasconde né si dissocia da quello che era, circa la condizione di partenza, un dato di fatto per molti, anche se con sfumature differenti a seconda delle varie realtà coloniali. In secondo luogo l’osservazione è subito riportata ad un contesto nel quale è chiaro che la differenza tra cliente e cameriere non è esclusivamente una differenza di funzioni o posizioni sociali. È una pervasiva disparità fondata su basi razziali a determinare quella, altrettanto forte, in ambito lavorativo e, di conseguenza, a determinare il benessere dei coloni, che altrimenti riuscirebbero difficilmente ad imporre il loro potere:

«Em Moçambique era fácil um branco sentir prazer de viver. Quase todos éramos patrões, e os que não eram, ambicionavam sê-lo. Havia sempre muitos pretos, todos à partida preguiçosos, burros e incapazes a pedir trabalho, a fazer o que lhes ordenássemos sem levantar os olhos. De um preto dedicado, fiel, que tirasse o boné e dobrasse a espinha à nossa passagem, a quem se pudesse confiar a casa e as crianças, deixar sozinho com os nossos haveres, dizia-se que era um bom mainato» (25).

Di nuovo, il fatto di sentire un piacere di vivere si trova esplicitamente legato alla condizione di “padroni”, che i coloni assaporano senza farsi alcuno scrupolo, anche solo recandosi ad un bar. E di nuovo possiamo vedere come la prima persona del plurale faccia in modo che la narratrice si includa nel sistema che sta esponendo alla sua e all’altrui critica. Inoltre, ancora una volta ritroviamo un riferimento allo sguardo di chi deve eseguire gli ordini senza nemmeno alzare gli occhi, come si fa di fronte a qualcuno di cui si prova un timore profondo.

Questo timore in effetti è la caratteristica principale dei rapporti sociali che la protagonista riscontra nella sua infanzia. Lo vive in prima persona, lo osserva e lo riporta nel testo in un numero impressionante di occasioni: le ricorrenze della parola “medo” sono moltissime11. La sensazione di questa paura non è una novità nella letteratura ambientata nelle colonie: Francisco Noa la descrive in rapporto alla letteratura coloniale degli anni Cinquanta e Sessanta, scorgendola soprattutto nei romanzi che scelgono un’ambientazione rurale, nel passaggio tra quelle che Noa ha definito come la fase esotica e la fase dottrinaria della letteratura coloniale12. In questi romanzi, l’opposizione tra cidade e mato è netta, specialmente all’arrivo dei portoghesi nelle colonie e, proprio a causa delle difficoltà legate all’adattamento ad un nuovo spazio e a causa delle esigue dimensioni delle comunità di coloni, le donne fanno molta più fatica, o, per lo meno, ammettono di farne molta di più rispetto agli uomini. Forse anche per questo non viene data loro voce nel romanzo coloniale e ne viene rappresentata la loro assoluta dipendenza sociale13. Nel caso di Isabela Figueiredo ci rendiamo conto del fatto che questa sensazione di paura, amplificata dalla percezione infantile e, probabilmente, femminile, fosse implicita anche nelle relazioni sociali in ambito cittadino, specialmente in una parte della città, o nell’ambito di un ceto sociale, che prevedevano un contatto interraziale più stretto di quanto non avvenisse nei racconti degli altri romanzi analizzati finora. La paura segue molte direzioni: come abbiamo visto i nativi hanno paura dei coloni, come accade con il padre di Isabela, che riesce a ottenere il rispetto dei “suoi” operai esclusivamente attraverso l’esercizio di un potere brutale, che si fa ancora più evidente il sabato pomeriggio, giorno di paga:

«Ainda não tinham percebido as regras, que eram só duas: receber e calar. [...] Se reclamavam havia milando, e não eram poucas as vezes em que saíam da sala com um murro nos queixos, um encontrão dos bons. Havia milando bravo. Ameaçavam o meu pai, o que o irritava ainda mais. Eram expulsos. Eu e a minha mãe tremíamos. Entre os negros que ainda esperavam receber, crescia um silêncio tenso. [...] O meu pai tinha o condão de transformar os finais dourados das tardes de sábado num pouço escuro de medo e raiva» (41).

11 Ne ho contate 22, il che, applicando un rapido conteggio, un po’ banale ma che vuole semplicemente rendere l’idea

della frequenza, vuol dire che troviamo la parola “medo” in media ogni cinque pagine.

12 Per la definizione cfr. F. Noa, Império, mito e miopia. Moçambique como invenção literária, Lisboa, Caminho, 2002,

pp. 55-69 e supra p. 27-28 (in nota).

13 Cfr. id., pp. 146-148. Inoltre si veda C. Castelo, Passagens para África, cit.: «No meio da imensidão africana, o medo

não seria um sentimento estranho à generalidade dos colonos. Ma são as mulheres que mais frequentemente o confessam» (p. 258). Si vedano pp. 158-161.

Nonostante le proporzioni impari, che intimoriscono Isabela e sua madre, il padre della protagonista riesce a mantenere il controllo della situazione, ma è un controllo basato sull’esercizio di una forza giustificata dal diritto e dalle convenzioni, contro la quale nessuno arriva a ribellarsi fino alle estreme conseguenze.

Ma anche quando la colona è solo una bambina riconosciamo questo genere di paura. La vediamo, ad esempio, quando la piccola Isabela, che sente di avere una «alma de preta» (74), si mette a vendere i manghi del suo giardino davanti a casa, seduta per terra, di nascosto dalla madre. Non a caso questo episodio offre lo spunto a riflessioni più generali:

«As pretas vendiam mangas no chão, em fila […]. Tudo o que as pretas vendiam tinha saído das terras que cultivavam, mas não lhes pertenciam, e tudo era bom para comer. [...] Um branco e um preto não eram apenas raças diferentes. A distância entre brancos e pretos era equivalente à que existe entre diferentes espécies. Eles eram pretos, animais. Nós éramos brancos, éramos pessoas, seres racionais. [...] Uma branca não vendia mangas a não ser por grosso, a outros brancos que as distribuíssem. Uma branca não vendia mangas no chão, à porta. Mas eu era uma colonazinha preta, filha de brancos. Uma negrinha loira» (35).

Stando così le cose, «convinha vencer a desconfiança dos negros [...]. Era preciso que o preço fosse muito atractivo para que ousassem perder o medo e aproximar-se da menina branca-negra como eles». (36) La paura qui non è causata dalla piccola Isabela, ma si nasconde nella censura sociale che i suoi eventuali clienti si attendono da un contatto diretto con lei e, quindi, nella loro diffidenza. Le posizioni si invertiranno dopo l’indipendenza, dopo il fallimento della rivolta del 7 settembre. Isabela osserva suo padre, che ancora spera, in occasione del 7 settembre, che le cose possano «voltar a ser o que eram» (79). La narratrice non teme di posizionarsi, di farlo attraverso le scelte di suo padre, che sono esplicite e partecipate emotivamente: «No 7 de Setembro o meu pai chegou eufórico. […] “Isto vai voltar a ser nosso; está tudo no Rádio Clube, ocuparam aquilo, os negros estão lixados, estão a contas. Ainda vamos ganhar isto”» (79). Isabela non manifesta le sue opinioni in merito14 e si limita a riferire quello che ha capito di quella giornata: «Tudo o que sei sobre o 7 de Setembro de 1974 é isto: os brancos estavam a ganhar aos pretos, talvez já não houvesse a tal independência de que se falava, e que os brancos tanto temiam. Mais nada» (80). Ma, come dice Ribeiro Thomaz, «Isabela sabe e conta muito! Ao contrário dos relatos [...] que insistem no suposto caráter multirracial do “Movimento Moçambique Livre” (MML), para a menina era claro: tratava-

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Sarà in riferimento ad altri discorsi di suo padre, cioè a quelli esplicitamente razzisti, che la narratrice prenderà una posizione netta di rifiuto: «Recebi todos os discursos de ódio do meu pai. Ouvi-os a dois centímetros do rosto. Senti-lhe o cuspo de ódio, que custa mais do que o cuspo de amor, e enfrentei, olhos nos olhos, a sua raiva, a sua frustração, a sua tão torpe ideologia, e ouvindo, não disse nada, nem um assentimento, nem um músculo se mexeu, e eu, inteira, era um não. [...] Mas não me arrancou um assentimento. Nunca ouviu da minha boca um tens razão, um realmente, um pois. No máximo, um percebi, como resposta a um percebeste?» (117-118).

se de um movimento branco e que pretendia preservar o status quo dos brancos»15. Con le violenze tremende contro i coloni, che seguono il fallimento della rivolta “bianca” e che Isabela non ignora (al contrario di quanto aveva fatto Isabella Oliveira16), la situazione si capovolge, la paura cambia direzione:

«A pretalhada, nesses dias matava a mesmo; prendia, humiliava aleatoriamente. Sentíamo-nos moribundos da vida; já nem se falava de poder. Tínhamos medo. E isto era a verdade. A verdade do fim. A vida de um branco em Lourenço Marques tinha-se tornado um jogo de sorte ou de azar» (87-88).

Pur raccontandoci ciò che accade, Isabela ci dice chiaramente che si sta muovendo su due piani differenti: le interessa mostrare l’intersezione complessa tra pubblico e privato; quando il padre torna euforico dopo le notizie sull’occupazione del Rádio Clube, lei ci dice: «O meu pai estava feliz. Eu estava feliz. Sorria porque era dele. Sabia quem ele era. Sabia uma parte. Sorria porque já sabendo quem ele era, eu era dele, ainda» (80). Il legame potente che unisce padre e figlia costituisce il versante più complesso sul quale si articola la costruzione del testo. Per Isabela è importante sottolineare come, nel caso della sua famiglia, privato e pubblico si sostenessero a vicenda, come l’ambito politico plasmasse quello privato, ma anche come i comportamenti del singolo, o di un singolo nucleo familiare, riconfigurassero a loro volta delle prassi pubbliche codificate restituendo loro, ogni giorno, una nuova validità pratica. Isabela ha ben chiaro questo approccio ed è come se, con una consapevolezza che le ha dato il tempo, fosse in grado di tradurre tutto ciò in ogni singolo episodio che ricorda della sua infanzia, come quando si riferisce ai «mainatos» che portavano a casa sua la spesa dalla bottega:

«Tínhamos uns mainatos que carregavam as mercearias da loja do Lousã, em caixões de cartão. [...] Se não tínhamos mainatos, tinha o Lousã os dele. Não precisávamos de sacos de plástico. Mas parece que isto era só na minha família, esses cabrões, porque segundo vim a constatar, muitos anos mais tarde, os outros brancos que lá estiveram nunca praticaram o colun..., o colonis..., o coloniamismo, ou lá o que era. Eram todos bonzinhos com os pretos, pagavam-lhes bem, tratavam-nos melhor, e deixaram muitas saudades» (49).

Ed in questa sua capacità di “traduzione” del pubblico nel privato è una voce originale anche all’interno della letteratura portoghese contemporanea su queste tematiche, una delle poche voci non autoassolutorie.

15

O. Ribeiro Thomaz, “Duas meninas brancas”, in E. Brugioni, J. Passos, A. Sarabando, M-M. Silva (a cura di), Itinerâncias. Percursos e representações da pós-colonialidade, Braga, Humus – Universidade do Minho, 2012, pp. 404-427, p. 421.

16 «E aqui o relato de Isabela Figueiredo apresenta uma coerência inusitada: a belle vie de uns estava associada ao

trabalho dos outros. Trabalho que não se qualifica, do qual não se fala, de outros que não têm nome porque não são efetivamente conhecidos». O Ribeiro Thomaz, id., p. 423.

Tornando invece a riflettere sul tema della paura, oltre all’aspetto “sociale” della paura, ce n’è anche uno molto personale. Isabela ha paura, molte volte. Ha paura degli altri, ha paura quando esce dalla città con i genitori, e finiscono sempre per perdersi seguendo l’istinto di suo padre di esplorare strade nuove (33), ha paura del giudizio degli adulti. Ma ha paura anche di cose molto familiari, come di una delle case dove ha abitato (significativamente, quella a cui si riferisce l’episodio della paga degli operai):

«Morávamos num terraço da 24 de Julho. O rectângulo de cimento que constituía a caixa do elevador elevava-se nu acima do chão, como uma espécie de torre de vígia. Subíamos seis degraus bem altos para aceder ao portão dessa construção que metia medo» (39).

Non è di poco conto rivelare di aver avuto paura della propria stessa casa, soprattutto quando la casa portuguesa, secondo la propaganda di regime, doveva essere la cellula basilare della società, del suo spirito di moderazione, di mutuo appoggio e di corporativismo.

Ma non solo: Isabela ha paura di suo padre. Quando è ancora una bambina, ha paura di fare qualcosa che lui disapprovi (come quando vorrebbe diventare amica del suo vicino di casa nero) e che per questo lui possa cacciarla: «Podia expulsar-me de casa e eu não seria jamais uma mulher aceite por ninguém. Havia de ser a mulher dos pretos. E eu tinha medo do meu pai. Desse poder do meu pai» (44). Solo più tardi Isabela riuscirà a dire:

«Tive medo do meu pai. Que me batesse com as manápulas, que me gritasse, que me dissesse tu não és minha filha, porque a minha filha não gosta de pretos, não acompanha com pretos, não sonha com pretos. Havia uma raiva tão grande dentro de si, em amigável convívio com o amor que podia oferecer-me de um momento para o outro. [...] Não foi fácil ser a filha do eletricista. Sonhei muitas vezes que o eletricista havia de morrer de muitas maneiras e deixar-me livre para pensar, para existir sem medo» (117-118).

Non è semplice il rapporto con il padre, per Isabela. È un rapporto denso di amore, nel quale la figlia, bambina, trova protezione («porque ao lado do meu pai nenhum preto pensaria roubar-me; esse medo», 60; «Era muito grande e muito poderoso, como um rei-gigante, e a sua presença protegia-me de todos os medos irracionais», 81). Quella protezione che continuerebbe a trovare nel non uscire dal modello di vita che il padre le propone e che lui finisce per incarnare a tutti gli effetti. Eppure la figura amorevole ed affettuosa non è che una parte del personaggio paterno. L’altra parte è quella di un uomo che è realmente convinto di ciò che fa, che ha creduto in un mondo profondamente sbagliato: «com ou sem independência, um preto era um preto e o meu pai foi colono até morrer» (98). Accettare di essere come lui avrebbe messo la protagonista al riparo dal giudizio del padre e di tutto quel mondo che lui incarnava, ma l’avrebbe anche condannata ad avere

paura per tutta la vita. Per non dovere definitivamente trovarsi ad odiare suo padre, l’unica cosa che Isabela può fare è tradirlo, una volta per tutte.