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3. Gli ultimi giorni di un «moribundo Portugal dito império» Os dias do fim d

5.2 Olhar

Come si è già accennato, la scrittura di Isabela Figueiredo è semplice, diretta, tendenzialmente paratattica. Spesso riprende le formule dell’orale, quando vuole riprodurre il tono dei discorsi che la narratrice ascoltava quando era bambina, sfruttando anche una certa ripetitività formulare (come nell’espressione, ripetuta molte volte «os pretos do meu pai», riferita agli operai che lavorano per il padre della protagonista) e facendo emergere, anche attraverso la ripetizione, il vuoto di senso e il razzismo impliciti in alcuni discorsi. Nell’ambito di questa analisi si intendono sfruttare alcune sfere semantiche ricorrenti all’interno della narrazione come pretesto per ricostruire alcuni tratti tematici e compositivi del testo. E la prima di queste reti semantiche è quella dello sguardo.

Lo “sguardo” può essere inteso secondo due accezioni all’interno del romanzo: da un punto di vista formale e da un punto di vista tematico. Da un punto di vista formale, è il testo nel suo insieme a costituirsi come un intreccio di sguardi. Adottando una prospettiva autobiografica, la voce narrante ricrea un dialogo intenso tra lo sguardo della protagonista, bambina, e quello della narratrice, adulta, che scrive e che è in grado di decifrare la sua stessa prospettiva di bambina. A distanza di anni dagli eventi narrati, nel momento della scrittura, diventano chiari quelli che in epoca coloniale erano dei banali sottintesi, ma che lo sguardo infantile ha registrato nella loro effettiva portata di imposizioni, da parte di un mondo adulto, finendo quindi per estrapolarli da un contesto all’interno del quale non erano altro che automatismi. Lo sguardo straniante del bambino

viene qui interpretato, ma senza rendere questa sovrapposizione invadente o didascalica. Se ne sfrutta appieno il potenziale critico interno, di una critica che cioè non si chiama fuori dalle norme sociali che osserva, ma che, pur riconoscendo l’appartenenza, è capace di dire la diversità. Diversità che finisce per insinuare la consapevolezza di come le prassi della “vita coloniale” fossero condivise e dunque coinvolgessero completamente, e più di quanto non si sia spesso disposti ad ammettere, il vissuto dei singoli. Come sostiene anche Margarida Ribeiro,

«Caderno de memórias coloniais […] oferece a grande novidade do olhar sobre o colonialismo português, não mais a partir de quem mal ou bem o protagonizou, [...] mas a partir da memória do olhar de uma criança que, ao mesmo tempo que acorda para o mundo, e chora como todas as crianças choram quando percebem o mundo, acorda também para a realidade do colonialismo, personificado na complexa, amada e odiada figura do pai»6.

È in questo senso che Ribeiro nota come i ricordi di Isabela Figueiredo richiamino nozioni teoriche come quelle di postmemoria7, poiché, anche se Isabela ha vissuto in prima persona ciò che ci sta raccontando, non si può negare il fatto che, come “figlia della dittatura” e di retornados, faccia i conti con una rappresentazione di questi stessi ricordi che in qualche modo la precede e che lei ha ereditato, pur malvolentieri, come fa qualcuno «para quem essas vivências são já uma representação, alguém que se contitui como o herdeiro simbólico de uma ferida aberta sobre a qual elabora uma narrativa»8. E questa elaborazione di una narrativa prende slancio proprio a partire dalla forma frammentaria del racconto e dalla prospettiva assunta dalla voce narrante, che sente la necessità di collocarsi in una posizione liminare: accetta la sua posizione di autrice, cioè quella di chi osserva dal di fuori, ma mantiene la lucidità di includere anche se stessa nella realtà osservata e raccontata, facendoci comprendere l’investimento personale ed emotivo di questa scrittura:

«Enquanto tipo poderoso de memória que surge mais do silêncio que das palava, mais dos fragmentos do que das narrativas completas, mais de interrogações do que de respostas, a pós-memória configura-se, como uma memória específica, resumindo uma memória que inaugura uma relação ética com a experiência traumática dos pais e com a sua dor de que se sentem herdeiros e que requer um reconhecimento, primeiro no seio familiar e depois no espaço público»9.

6 M. Ribeiro, “O fim da história de regressos e o retorno à África”, in E. Brugioni, J. Passos, A. Sarabando, M-M. Silva

(a cura di), Itinerâncias. Percursos e representações da pós-colonialidade, Braga, Humus – Universidade do Minho, 2012, pp. 89-99, pp. 92-93.

7 Nella definizione di Marienne Hirsch, «postmemory is distinguished from memory by generational distance and from

history by deep personal connection. Postmemory is a powerful and very particular form of memory precisely because its connection to its object or source is mediated not through recollection but through an imaginative investment and creation. […] Postmemory characterizes the experience of those who grow up dominated by narratives that preceded their birth, whose own belated stories are evacuated by the stories of the previous generation shaped by traumatic events that can be neither understood nor recreated». Family frames: photography, narrative and postmemory, Harvard University Press, Cambridge-London, (1997) 2002, p. 22.

8

M. Ribeiro, “O fim da história de regressos...”, cit., p. 94.

La rappresentazione ereditata, tragicamente, non quadra con ciò che Isabela ha visto da bambina in Mozambico: il suo sguardo sa trasmetterci un conflitto insanabile, sa trasmetterci le incongruenze e il senso di colpa di chi queste incongruenze le comprende, ma solo con il tempo saprà assumerle come parte di una sua personale rappresentazione, che esula da quella dei genitori.

Lo sguardo, in tutto ciò, si manifesta non solo come facoltà attiva di guardare al mondo circostante. Nel caso della protagonista, lo sguardo è, prima di tutto, una disponibilità ad accogliere le impressioni che arrivano dal mondo esterno o, come scrive Isabela, a guardare “senza filtro”. La prima situazione in cui la narratrice ha occasione di ragionare su questo genere di sguardo è quando ricorda i bambini che bussavano alla porta della sua casa per chiedere lavoro:

«Os pretos começavam a pedir trabalho às nossas portas desde crianças, rapazes e raparigas. Batiam ao portão, abríamos, e apareciam crianças esfarrapadas, descalças, ranhosas e esfomeadas de farinha dirigindo- nos as poucas palavras que conheciam, “trabalho, patrão”. Crianças da minha idade ou mais novas. Abria a porta aos pedintes e ficava a olhá-los sem palavras. Não compreendia. Chamava a minha mãe, que rapidamente os enxotava, “vai-te embora, aqui não há nada!”, e eu seguia para o meu quarto e continuava a ler Dickens ou o que quer que fosse. Não compreendia» (27).

Notiamo, prima di tutto, che, senza rifugiarsi in un anacronistico (per l’epoca) “politicamente corretto”, quando si riferisce a dialoghi o a situazioni vissute da bambina, Isabela utilizza il termine spregiativo di “pretos”, perché è effettivamente quello che sentiva pronunciare dai suoi genitori e da tutti gli altri membri della piccola e media borghesia che lei frequentava. Userà invece quello di “negros” quando rielabora questi stessi ricordi (anche quando chioserà l’episodio appena citato). Notiamo poi, a livello di prossemica, che la situazione descritta ci mostra semplicemente due bambini, uno di fronte all’altro, che si guardano. Isabela guarda, ammutolita, senza capire (come ripete due volte) e, al di là delle differenze di status, riconosce la somiglianza: dopo un’enumerazione di aggettivi che descrivono un aspetto esteriore miserevole dell’“altro”, che ci condurrebbe a frapporre tra questi due bambini una distanza incolmabile, una frase brevissima, nominale, riassume il tutto, riconoscendo, al contrario, una relazione di vicinanza: «crianças da minha idade ou mais novas». Il richiamo a Dickens diventa ovviamente significativo, poiché ciò che il nome dell’autore inglese richiama alla mente sono proprio gli ambienti di degrado urbano ed industriale, dove la miseria colpisce duramente anche l’infanzia; ed Oliver Twist, ad esempio, è una classica lettura, anche per l’infanzia, alla quale probabilmente si sta riferendo la protagonista. Eppure lei stessa, di fronte al bambino nero continua a non capire. Come Helder Macedo scriverà in modo ancora più esplicito, i figli dei coloni non conoscevano la povertà, in Africa, perché, semplicemente, non la ri-conoscevano: perché, in Africa, i coloni poveri erano rarissimi. Ed è in questo senso che la citazione di Dickens, senza dubbio, non è innocente. Solo più tardi Isabela sarà in grado di assumere la portata del suo stesso sguardo, sarà in grado di riconoscere il mondo nel

quale viveva – un mondo che non trovava alcun riflesso nella letteratura – e, dunque, di comprenderlo; poche righe più sotto la spiegazione si fa esplicita:

«Os livros mostravam-me que na terra onde vivia não existia redenção alguma. Que aquele paraíso de interminável pôr-do-sol salmão e odor a caril e terra vermelha era um enorme campo de concentração de negros sem identidade, sem a propriedade do seu corpo, logo, sem existência. Quem numa manhã qualquer, olhou sem filtro, sem defesa ou ataque, os olhos dos negros, enquanto furavam as paredes cruas dos prédios dos brancos, não esquece esse silêncio, esse frio fervente de ódio e miséria suja, dependência e submissão, sobrevivência e conspurcação.

Não havia olhos inocentes» (27-28).

Chissà se sarà proprio Isabela a scrivere finalmente un libro senza redenzione? Certamente notiamo, per ora, che se c’è una cosa che Isabela non cerca è un’assoluzione, né personale, né tantomeno collettiva. Anzi, la correità pervasiva dello sguardo è stigmatizzata chiaramente. Quando la narratrice ci parla di uno sguardo “filtrato”, ci dice anche di che cosa si costituisca il filtro opposto all’osservazione della realtà circostante: è un filtro fatto “di difesa o attacco”, quindi, uno sguardo che racchiude implicitamente in sé gli estremi di un conflitto, sguardo-scudo o sguardo-arma. È questo che la narrazione di Figueiredo finalmente è in grado di esporre: un conflitto implicito nell’azione basilare del rapportarsi col mondo, un conflitto che parte dal guardare il mondo, da un’azione che si vuole attiva per definizione e che invece la narratrice è capace di tradurre in una capacità di farsi colpire, di farsi oltrepassare dallo sguardo dell’altro, divenuto finalmente soggetto (notiamo a questo proposito la forza di quel verbo “furar” e dell’ossimoro di un “frio fervente”, che connotano lo sguardo dei nativi). L’importanza di questo brevissimo episodio è sottolineata dal fatto che Isabela tornerà a riferirsi ad esso, nel penultimo capitolo del testo, proprio prima della conclusione, finalmente con la maturità di comprendere il suo stesso sguardo e lo sguardo dei bambini che si trovava di fronte:

«Passaram algumas décadas sobre a menina que encarava os negrinhos de meia dúzia de anos que pediam trabalho ao portão, descalços, rotos, esfomeados, e chamava a mãe, trabalho não havia. Eu sabia que não havia. Contudo, chamava-a. Havia a esperança que de repente houvesse capim para apanhar, ou uma moeda, pão. [...] Eu e eles não falávamos a mesma língua. Apenas umas palavras soltas. Olhava-os muito, e eles a mim. Por exemplo, neste momento estou a olhá-los através do tempo, e há uma perplexidade nos seus olhos, um vazio, uma fome, e nos meus uma impotência, uma incompreensão que nenhuma razão poderá explicar. Moçambique é essa imagem parada da menina ao sol, com as tranças louras impecavelmente penteadas, perante essa criança negra, empoeirada, quase nua, esfomeada, num silêncio em que nenhum sabe o que dizer, mirando-se do mesmo lado e dos lados opostos da justiça, do bem e do mal, da sobrevivência» (133- 134).

L’insistenza su questa immagine ne sottolinea la drammaticità, la tensione emotiva che si respira fra due bambini che non possono avere colpe, ma che si trovano tuttavia sullo stesso fronte e sui fronti opposti della giustizia, del bene e del male. Anche da bambina impegnata solo nel “sopravvivere”

Isabela non si sottrae ad una forma di giustizia, sapendo bene che la ragione («nenhuma razão») non sta dalla sua parte. L’accento è messo di nuovo su uno sguardo silenzioso, sguardo che i bambini riescono a non sviare, e troviamo in effetti un’insistenza anche lessicale: encarava, olhava-os muito, estou a olhá-los, olhos, mirando-se. Lo sguardo attento della protagonista diventa, senza ambiguità, quello della narratrice e della stessa autrice e, se includo questo episodio in una rassegna di ricorrenze del tema visivo, ma ancora riferendomi a un punto di vista formale, è perché questo genere di messa a fuoco sembra riprodurre, rendendoli espliciti, i diversi strati e i diversi tempi sovrapposti dei quali palesemente si compone la narrazione nel suo insieme, dalla prima all’ultima pagina.

Un altro ambito nel quale lo sguardo assume una valenza importante, ma ancora, se così si può dire, a questo livello di riflessione formale, è lo sguardo che la narratrice rivolge verso suo padre, figura emblematica del testo. Tutte le sfere semantiche che affronterò si divideranno in effetti ulteriormente su due fronti, cioè quello che qualifica una relazione di Isabela con l’ambiente circostante e quello che connota invece il suo rapporto con il padre. In questo caso, lo sguardo diventa il primo modo attraverso il quale la protagonista marca una distanza dalla figura paterna, amatissima, ma colpevole. Lo vediamo in due occasioni: la prima si verifica quando Isabela bambina accompagna il padre nella cidade do caniço a cercare uno degli operai che lavorano per lui. Intimorita e disorientata, la bambina, che tiene per mano il padre, viene quasi trasportata, sollevata per aria dalla velocità dell’incedere paterno. Quando finalmente il padre trova la capanna dove abita Ernesto, ed entra, lo insulta e lo malmena, improvvisamente Isabela smette di chiamarlo “pai” e inizia a chiamarlo “branco”. Perché si è resa conto che si trova in un mondo completamente diverso da quello dove vive abitualmente, il mondo del «caniço, atrás do qual se escondia a vida dos negros, essa vida dos que eram da minha terra, mas que não podiam ser como eu. Eram pretos. Esse era o crime» (52). E per la prima volta la protagonista sceglie di posizionarsi dall’altra parte, dalla parte di quelli che non “sono come lei” o, soprattutto, come suo padre: «E a mulher e os filhos e o bairro todo, e eu, estávamos ali, imóveis, paralizados do medo do branco» (52). Quando, dopo pochi minuti, i due tornano alla macchina che avevano parcheggiato, la protagonista si trova a guardare suo padre e, per la prima volta nel testo, a non riconoscerlo:

«O branco foi lá dentro, deu porrada ao Ernesto, agora vai sair, o branco trouxe a menina, é a filha do branco. E o homem branco que me leva pela mão voando, atravessa o caniço veloz, procura a Bedford estacionada lá fora, senta-se, põe o motor a trabalhar, arranca, ola para mim, então, estás cansada, queres ir beber uma Coca-Cola? Queres que te deixe provar o meu penalti? Olho-o, não respondo. Aquele homem branco não é o meu pai» (53).

Ormai ha capito che non è solo suo padre, ma è un “bianco” e che, solo in quanto tale, ha un potere, e lo usa. Lei lo guarda senza riuscire a parlare. Indirizza per la prima volta, cioè, verso suo padre quello stesso sguardo critico e straniato che rivolge al mondo esteriore, all’altro, a qualcuno che identifica come un diverso da sé.

Infine l’ultimo episodio nel quale questa idea del guardare si trova declinata in un modo che rievoca esplicitamente un metodo, un procedimento, è quello nel quale la protagonista racconta di come ha imparato a leggere. In macchina con il padre, mentre si stanno dirigendo verso il centro dell’allora Lourenço Marques, all’improvviso, è come se “un mandarino succoso” si aprisse nel cervello di Isabela, che, osservando i cartelloni pubblicitari lungo la strada, capisce che riesce improvvisamente a leggerli: «uma revelação, um milagre» (59), uno scatto improvviso, non il risultato di uno sforzo o di un’applicazione. Questa immagine ci restituisce tutto il gusto dell’acquisizione di una nuova abilità ed è un gusto subito condiviso con il padre che sorride amorevole. Ma l’idillio tra i due viene interrotto da una nuova consapevolezza della protagonista, che viene certamente dal tempo differito della scrittura e che la porta a riconoscere, nella sua maggiore libertà e autonomia di decodifica del mondo esterno, un fattore che la allontanerà irrimediabilmente dal padre e dal mondo di quest’ultimo:

«Esse milagre de ler, essa magia tão rápida no meu cérebro, como se alguém movesse a varinha à distância ou soletrasse palavras misteriosas, desenfeitiçaram-me. [...] Foi quando, devagar, comecei a tornar-me a pior inimiga do meu pai. A inimiga lá dentro, calada. Que vê, e escuta, e nem pediu autorização. Foi quando comecei a tornar-me a toupeira. Só muitos anos mais tarde, muitos, muitos, compreendi que saber ler, o acesso a essa chave para a descodificação do segreto, me transformara, contra todas as vontades, na toupeira que lhes havia de roer todas as raízes, devagar, uma de cada vez, até restar pó» (61-62).

È questo passaggio che rende conto, per così dire, del libro nel suo insieme, delle ragioni di una scrittura che si pone essenzialmente come una testimonianza colpevolmente privilegiata. Saper leggere trasforma Isabela in una nemica “che vede, e ascolta” senza averne il permesso, che può osservare dall’interno. E che, soprattutto, è diventata capace di vedere altre cose, e questo, ancora una volta avviene in un modo che sottolinea l’apertura della protagonista al mondo piuttosto che una sua azione sul mondo, tanto che la narratrice paragona l’improvviso cambiamento alla sua prima mestruazione10: è un passaggio iniziatico, non solo all’età adulta, ma ad una nuova fertilità. Questa idea di fertilità riflette, come si è già evidenziato, l’approccio orgogliosamente femminile di Figueiredo all’osservazione del mondo e, quindi, alla stessa narrazione, che diventa, finalmente, un tentativo privo di difese o di prevaricazione nel guardare, nel comprendere e nel lasciarsi stupire dal mondo.

Passando invece ad un’idea tematica di “sguardo”, che restituisce al lettore un affresco sociale delle relazioni esistenti nella Lourenço Marques coloniale, notiamo come una gran parte di queste relazioni trovino negli sguardi un indicatore importante. Qualcosa si è già potuto evincere dalle citazioni precedenti, ma Isabela, su questo punto, diventa molto esplicita. Ad esempio quando descrive la sala del cinema e come veniva occupata: anche se non ci sono indicazioni “scritte”, «os negros sabiam que lhes cabia sentarem-se à frente, nos bancos de pau» (46) e sapevano che raramente potevano voltarsi indietro verso i bianchi, «olhando para trás a cobiçar a mulher do branco» (46):

«Para os brancos, um preto, lá da primeira plateia, nunca olhava para trás por bons motivos. Ou lançava o amarelo do olho contra-natura às brancas, ou procurava o que roubar, ou destilava ódio. De forma geral, no cinema ou fora dele, o olhar dos negros nunca foi para os colonos, isento de culpa: olhar um branco, de frente, era provocação directa; baixar os olhos, admissão de culpa. Se um negro corria, tinha acabado de roubar; se caminhava devagar, procurava o que roubar» (46).

Di nuovo ritroviamo le idee di difesa e di attacco, ma soprattutto di colpa e desiderio, espresse con un linguaggio che sembra quasi appartenere ad un discorso indiretto libero, tanto pare riprodurre dei luoghi comuni sfacciatamente razzisti, con ogni probabilità diffusi nella colonia portoghese. Non sfugge il protagonismo che i bianchi si arrogano sullo sguardo: ogni azione acquista significato in rapporto a loro ed è un significato che sfocia sempre in una colpa. La disparità è palese, non camuffata, vissuta nella banale quotidianità di una sala cinematografica.

Ed un altro sguardo di questo genere è quello che Marília indirizza alla protagonista, colpevole di averla schiaffeggiata a scuola, durante l’intervallo:

«Foi premeditado. Tinha pensado antes, se ela voltar a irritar-me, bato-lhe. Podia perfeita e impunemente bater-lhe. Era mulata. E a rapariga comeu e continuou em pé, sem se mexer, com a mão na cara, sem nada dizer, fitando-me com um estranho olhar magoado, sem um gesto de retaliação. Disse-lhe, já levaste, e depois afastei-me para o fundo do pátio, absolutamente consciente da infâmia que tinha cometido, esse exercício de poder que não compreendia, e com que não concordava. [...] A Marília era um alvo fraco. Nada