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1. L’impero portatile o la concretezza del mito

1.5 Una conclusione provvisoria: l’impero come volontà

Come si è potuto evincere dal breve profilo storico, le tematiche connesse con l’impero coloniale hanno suscitato nella storia portoghese recente e meno recente dibattiti accesi, che non si sono placati neanche dopo la decolonizzazione e che, anzi, a maggior ragione, continuano a ispirare riflessioni differenti sui modi attraverso i quali il passato imperiale debba essere rivisto e rivissuto, oppure abbandonato per sempre. La storia stessa dell’impero coloniale portoghese presenta fratture e tipicità che non fanno che aumentare i temi delle ricerche, in un confronto constante con gli imperialismi sviluppati da altre nazioni ed è anche per questo che è sembrato necessario, in questo contesto, ripercorrere la storia, le leggi ed alcune opinioni espresse nel passato per trovare una collocazione opportuna alle opinioni presenti.

Non è un caso, infatti, soffermandomi ancora una volta su una riflessione di carattere linguistico, che molti degli storici citati nelle pagine precedenti sentano la necessità di iniziare l’esposizione delle loro ricerche dichiarando l’intento di “sfatare dei miti”, di colmare «o fosso entre o imaginário e o real»173 e tutto sommato io stessa ho in qualche modo seguito il loro percorso. Restando per un attimo su questa accezione positivista del termine ‘mito’, che lo oppone in quanto narrazione non suffragata da prove dimostrabili alla storia dei documenti, c’è effettivamente un “mito” che mi interessa sfatare, o, quantomeno, mettere in discussione. Dai dati, ancorché parziali che ho potuto analizzare emerge con chiarezza lo sforzo portato avanti dai governi che si sono succeduti in Portogallo tra l’ultimo ventennio del XIX secolo e gli anni Settanta del XX per costruire e mantenere l’impero, un impero che, in accordo con Ribeiro Thomaz, non è solo «fruto de um ciclo saudosista marcado pela memória do Brasil e do Império do Oriente»174; il dibattito finesecolare, la tensione a riguardo dell’identità nazionale e la politica che ne deriva e che

171 Ibid. 172 Id. p. 382. 173

A. Torres, op. cit, p. 63.

culmina nella redazione dell’Acto Colonial, «ao projetar Portugal como um grande e virtuoso império colonial, dele exigiu enormes sacrifícios»175. Ha comportato, appunto, sacrifici concreti, accettati pur di «manter-se como uma ilha isolado do resto dos “males do mundo”»176, è stato la causa di un dispendio enorme di risorse umane, economiche e di immaginazione politica. Un dispendio che forse non ha dato gli stessi risultati conseguiti da altri stati, dato che le risorse di partenza erano molto impari, ma che, a maggior ragione, ha implicato uno slancio volontaristico unanime in tutta la nazione ed ha conseguito, negli anni in cui questo slancio è divenuto più concreto e mirato, un controllo tutt’altro che “aparicional” delle colonie africane.

Come Valentim Alexandre non si stanca di ripetere, l’impero portoghese in Africa non è stato semplicemente la prosecuzione di un colonialismo preindustriale, anacronistico, basato unicamente sulla tratta degli schiavi ed emanazione di un potere latitante, proiezione mitica di una volontà imperiale:

«Mas também aqui a análise contraria as ideias feitas. Como vimos, o império português constitui-se, no essencial, na época da partilha, e segue depois as mesmas etapas de todos os outros sistemas coloniais em África: fixação das fronteiras, ocupação militar e administrativa, exploração económica. As próprias formas de produção “arcaicas” – trabalho forçado, culturas obrigatórias – encontram-se igualmente em muitos territórios da África francesa ou belga, não sendo de forma alguma a marca exclusiva do atraso do capitalismo português. Do ponto de vista económico, há entre o império português e os restantes uma

diferença de grau, não de natureza»177

Per questo, in sostanza, si può dire che, contrariamente ad ogni supposizione di eccezionalismo del colonialismo lusitano178 (che corre talvolta il rischio di dare adito a “lusotropicalismi” di ritorno179), l’impero coloniale portoghese in Africa fu meno inconsistente e meno lontano dagli altri colonialismi di quanto si possa pensare, anche per quanto riguarda il contatto multirazziale. E che fu sostenuto praticamente fino alla fine dalla quasi totalità degli schieramenti politici e da larga parte della popolazione; solo la lunga guerra coloniale fece nascere un reale dissenso su queste tematiche.

175 Id. p. 79.

176 M. Calafate Ribeiro, Uma história de regressos, p. 122. 177

V. Alexandre, Velho Brasil novas Áfricas, p. 198 (corsivo mio).

178 È interessante notare come anche per il colonialismo (e il post-colonialismo) francese esista una vulgata che ne

valorizza una sorta di “eccezionalità”, che si veicolerebbe anche attraverso la lingua. Come spiega Mbembe: «Au nom de la « diversité culturelle », la France n’hésite pas à recourir à la thématique de la « différence » dans le but de sauvegarder ce qu’elle appelle l’ « exception culturelle » - dont l’un des piliers est la langue française. Dans le contexte de la globalisation, ce paradoxe entre « universalisme » et « exception » tend à grossir les aspects les plus galliques de la culture française et finit par lui octroyer, aux yeux du reste du monde, les traits d’une culture somme toute provinciale». A. Mbembe, “La République et l’impensé de la race”, in Blanchard-Bancel-Lemaire (a cura di), La fracture coloniale, cit., p. 152

179 «O fantasma do luso-tropicalismo, em suma, reaflora sempre no momento em que se separa o caso português dos

outros casos coloniais. Em virtude e por efeito de uma força figural e citacional que este fantasma acumulou ao longo de histórias, narrativas, retóricas, antes ou depois do regime que o elaborou enquanto significante político vazio que pela performatividade renova a sua semântica selectiva». R. Vecchi, Excepção Atlântica, p. 183. Si veda inoltre la distinzione critica tra eccezione ed eccezionalismo in merito all’impero coloniale portoghese, pp. 183-188.

Per questo, poi, è difficile acconsentire totalmente all’idea che «aqui também operou o outro colonizador, o colonialismo central que, a partir do século XIX, acompanhou de perto o colonizador português»180, dove per “centrale” si intende principalmente il colonialismo inglese in rapporto a quello espresso dal Portogallo, paese semiperiferico nel sistema mondiale, o che «a mentira deste [do império português] foi em muitas circunstâncias a de pretender ser império “como os outros”»181. Alexandre, usando ancora una volta le sue parole, si pronuncia contro quest’idea dell’impero portoghese visto come «correia de transmissão»182, in posizione intermedia tra gli imperi centrali europei e le colonie africane:

«nada no quadro que traçámos a confirma: vimos como a presença de capitais estrangeiros foi sempre mais tolerada como um mal necessário do que promovida; e como a política colonial em Lisboa se definiu geralmente em termos estritamente nacionais, muitas vezes em prejuízo do desenvolvimento económico dos territórios ultramarinos»183

Ed inoltre, proprio per l’ampio consenso di cui ha goduto il colonialismo in Portogallo nei primi decenni del Novecento184 e per la peculiarità dell’impero coloniale portoghese di apparire legato alla necessità di preservare la nazione stessa, anche nel suo immaginarsi centro, è più utile, nella mia prospettiva, ma anche solo per cercare di comprendere l’immaginario portoghese contemporaneo, analizzare l’impero, come si è tentato di fare, per se, al di fuori di una logica nella quale la comparazione si dà su una base quantitativa rispetto ad altri. Per ciò che, qualitativamente, l’impero ha significato e che tutt’oggi rappresenta sotto il profilo di rappresentazione storica e mitica.

Tornando quindi a ripensare all’impero anche come ad un mito, che non sia “mistificazione”, eppure tentando di spingerci al di là della sua consistenza storica, è il caso di aggiungere alla nozione positivistica e dispregiativa del termine ‘mito’ anche una sfumatura che tenga conto della sua accezione etimologica di “racconto”, inteso come narrazione eziologica dal

180 B. de Sousa Santos, “Entre Próspero e Caliban...”, p. 230. 181 Id. p. 228.

182 «Portugal foi durante todo o longo ciclo colonial um país semiperiférico, atuando como correia de transmissão entre

as colônias e os grandes centros de acumulação, sobretudo a Inglaterra a partir do século XVIII, e este fato teve uma importância decisiva para todos os povos envolvidos na relação colonial, uma importância que, de resto, se manteve mesmo depois de essa relação ter terminado e até aos nossos dias». B. de Sousa Santos, “Modernidade, identidade e a cultura de fronteira”, Tempo Social, USP, S. Paulo, 5(1-2), pp. 31-52, 1993 (1994). Cfr. anche Santos, “O Estado, as relações salariais e o bem-estar na semiperiferia: o caso português” in Santos (a cura di) Portugal: um retrato singular, Porto Afrontamento, 1993, pp. 17-56.

183 Alexandre, id. pp. 197-198.

184 Il consenso si ha a lungo anche riguardo ai metodi di sfruttamento economico delle colonie; anche prima

dell’avvento di Salazar al potere «si ebbero una serie di governi repubblicani che vantavano tendenze radicali in patria, mentre continuavano nelle colonie sostanzialmente la precedente politica di sfruttamento integrale delle risorse e degli uomini. Una simile duplicità di atteggiamento non poteva non avere delle importanti conseguenze anche nella linea politica seguita dai repubblicani in Portogallo; i compromessi nella politica coloniale erano destinati prima o poi ad avere rilevanti riflessi nel graduale abbandono della politica di riforme […]. La difesa di certi interessi nelle colonie ebbe un’influenza di non lieve entità nel colpo di stato del 1926». G. Papagno, Colonialismo e feudalesimo, p. 215.

valore eminentemente esplicativo, «dans la mésure où il éclaire ou justifie certaines péripéties du destin de l’homme ou certaines formes d’organisation sociale»185: capace di essere, proprio per questo, «appel au mouvement, incitation à l’action […] stimulateur d’énergies d’une exceptionnelle puissance»186. In questo senso dunque, proprio per le potenzialità racchiuse nei miti, anche e soprattutto in chiave politica, lo studio che se ne fa deve proseguire oltre i termini di una verifica storico-scientifica della loro fondatezza (che pure non smette di essere un punto di riferimento necessario), che mira all’obbiettivo di confutarli o estrometterli dall’analisi, per guadagnare invece profondità e spingersi anche nella direzione di una ricostruzione genealogica del mito che lo individui, esso stesso, come punto di partenza della ricerca: in un certo senso come un dato di fatto. Solo così analizzato il mito può essere fonte di conoscenza e di comprensione delle spinte che hanno causato determinate azioni e non, per usare le parole di Sousa Santos che hanno aperto il mio percorso di analisi storica, causa di un «auto-desconhecimento»187. Questo è del resto il percorso iniziato nel 1979 da Eduardo Lourenço con O Labirinto da Saudade, che ricercando le cause della nascita e dell’uso dei miti, cerca di capirne l’utilità o la pericolosità basandosi su una prospettiva radicata nel presente.

Nel caso portoghese poi le connessioni tra la conquista dell’impero e il mito sono profonde e, anche senza rievocare le origini mitiche del Portogallo stesso (con Ourique, «batalha e hierofania»188), è opportuno citare invece, seguendo il percorso tracciato da Margarida Ribeiro, due esempi di rielaborazione del mito dell’impero: quello della História do futuro di Padre António Vieira e di Mensagem di Fernando Pessoa. Margarida Ribeiro dimostra, genealogicamente, come in queste due opere si possa vedere in atto proprio il meccanismo di ricostruzione e rivisitazione del mito, con tutte le ambiguità che lo contraddistinguono nel momento in cui si configura come mezzo per una fuga compensatoria dalla realtà e tentativo di stabilire dei nessi fra entità differenti e distanti tra loro. È esattamente questo che si intende in fin dei conti per translatio imperii. Anche se Ribeiro analizza separatamente le due opere in questione, anzi le contrappone sotto un certo aspetto, non vedendo nel Mensagem di Pessoa quel tentativo, che Vieira invece aveva fatto, di «restaurar o passado no futuro»189, ai fini del mio percorso è opportuno rimarcare una similitudine esistente fra le due opere:

185 R. Girardet, Mythes et mythologies politiques, Parigi, Seuil, 1986, p. 13. 186 Ibidem.

187 B. de Sousa Santos, “Onze teses por ocasião de mais uma descoberta de Portugal”, cit. pp. 49-50. 188

A. Vakil, “Questões inacabadas: colonialismo, Islão e portugalidade”, in Ferreira-Ribeiro, Fantasmas e fantasias imperiais no imaginário português contemporâneo, Porto, Campo das Letras, 2003, pp. 255-293, p. 257.

189 M. Calafate Ribeiro, Uma história de regressos, p. 114. Interessante a questo proposito anche un’interpretazione

diversa, e più letteraria, della questione, come quella fornita da Helder Macedo in Partes de África: «O oximoron é dinâmico, traz consigo a possibilidade de mudança, há sempre alguma esperança num oximoron. Não é como o quiasmo, que só finge a mudança para manter tudo na mesma, para restaurar o passado no futuro, como na Mensagem

«[…] enquanto produto da vivência de um império real, a proposta de Vieira do Quinto Império representa uma clara fuga a essa realidade antropofágica contra a qual pregava nos seus sermões, expandindo-se rumo a uma grandeza que no imediato se evade da referência terrestre e se coloca no plano espiritual, onde a paz lusitana seria sinónima de universal»190

Ma anche per quanto riguarda Pessoa,

«Pessoa empreende a viagem ao interior da alma portuguesa lançando-se [...] na “epopeia da alma” em

Mensagem, onde Portugal não é mais centro nem fronteira de uma história vivida à escala planetária, mas

mito, ou seja, imagem do «nada que é tudo»»191

Se, come nota Maria Irene Ramalho192, Pessoa reinventa l’idea dell’impero (reinventando quindi, nell’ottica di Margarida Ribeiro, anche l’immaginazione del centro), questo non gli impedisce di prolungare le nostalgie epiche «sob novas formas […] em que o mar e os barcos só podiam ser míticos»193. Ma paradossalmente deriva proprio da questo passaggio figurativo nel mito l’ambiguità del messaggio pessoano, che, sebbene riferendosi a un ipotetico futuro post-imperiale, mostra le potenzialità, anche politiche, di un discorso che intende valersi di immagini simboliche come quelle che si succedono in Mensagem. Non a caso gli ideologi dell’Estado Novo hanno potuto approfittare anche dei versi pessoani, «ao literarizarem o que em Pascoaes e Pessoa foi, por essência metafórico»194. Si tratta di quella stessa ambiguità con la quale fanno i conti, come si è già visto, Eduardo Lourenço e Alfredo Margarido quando si chiedono se veramente la lingua portoghese possa essere “patria” di qualcuno e che fa dire ad António Sousa Ribeiro, dopo aver confrontato l’opera di Pessoa e Hofmannstahl e il loro uso della «figura do império» come «metáfora central»195 di un cosmopolitismo nazionalista modernista, che se per entrambi «A figura do império – um centro que se sustente – è construida na forma de uma síntese poetica, como uma ficção de unidade e totalidade pela diversidade»196,

«[…] se estamos à procura de um cosmopolitismo genuino, um cosmopolitismo que recuse tanto a lógica de uma globalização cega como de um particularismo igualmente cego, talvez que estes dois autores, sem dúvida fascinantes, não sejam, afinal, a melhor das companhias»197.

de Pessoa, que achava bem, e os fantasmas sebastiânicos de Garrett, que achava mal». (H. Macedo, Partes de África, Lisbona, Presença, 1991, p. 150.

190

Id. p. 46.

191 Id. p. 112.

192 M. I. Ramalho, “A poesia e o sistema mundial”, in Santos (org.), Portugal: um Retrato Singular, Porto,

Afrontamento, Porto-CES, 1993, pp. 91-128.

193

Ribeiro, ibidem.

194 Id. p. 116.

195 A. Sousa Ribeiro, “Um centro que se sustente: ficções do império nos modernismos português e austriaco”, in

Ferreira-Ribeiro, Fantasmas e fantasias imperiais, pp. 43-57, p. 44.

196

Id. p. 56 (corsivo mio).

Insomma, se ritorno, dopo una ricognizione storica a ragionare sull’impero a partire dalla letteratura è perché proprio dalla storia e dall’imponente slancio volontaristico che questa ci racconta emerge l’esistenza di uno scarto che va oltre la successione degli eventi e che ci mostra in atto, nel caso portoghese, l’immaginazione del centro e la volontà di essere centro attraverso l’impero. E che si nasconde dietro l’accostamento di epoche e di figure storiche diverse, dietro le modalità che presiedono alla loro connessione. Sono queste connessioni a ritrovarsi esposte nella letteratura più chiaramente che nel flusso degli eventi, ad esempio in quelle che Sousa Ribeiro chiama “sintesi poetiche”. Dopotutto, se «il soggetto politico – inteso come soggetto della politica – è un chiaro evento discorsivo»198, e se come ricorda anche Sousa Ribeiro citando Anderson «i concetti di nazionalità, di nazionalismo o di “nazion-ità” […] sono manufatti culturali di un tipo particolare»199, allora

«As identidades têm as suas textualidades específicas, estão organizadas de acordo com padrões que podem ser descritos utilizando os instrumentos da análise textual e da análise do discurso. A noção de “identidade narrativa” [...] põe apropriadamente em relevo até que ponto a construção discursiva das identidades se organiza de acordo com padrões que permitem atribuir sentido à articulação entre passado, presente e futuro de um modo que pode ser bem descrito usando conceitos narratológicos como o de intriga»200.

Questo è ciò che intendo fare nel passare dalla storia alla letteratura, attraverso il ponte del mito. Andare alla ricerca degli ingranaggi e delle connessioni fra tempi differenti, che la scrittura letteraria permette di mettere in scena, nella convinzione che possano ispirare anche una lettura più

consapevole della storia e delle spinte che la muovono.

198 H. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 40. 199

B. Anderson, Comunità immaginate, Roma, manifestolibri, 1996, p. 25.

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