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2.5 Marzialità, aggressività, filosofia

Budo significa quindi "via che conduce alla cessazione della guerra", non c'è dunque molto da sorprendersi se coloro che ne abbracciano i caratteri filosofici, stu- diando un'arte marziale, si dimostrano soggetti tutt'altro che aggressivi.

Per far comprendere ciò che intendo con "caratteri filosofici" dell'arte marziale voglio raccontare di uno stage con un grande maestro giapponese, Yutaka Koike, a cui ho avuto la fortuna di partecipare. Al tempo avevo circa quindici anni, ma ho vive nella mente le immagini, e soprattutto le parole, che caratterizzarono quell'even- to. Sensei Koike ci stava massacrando con un esercizio particolarmente faticoso, e 35

molti avevano espressioni che riflettevano il loro disagio fisico, io compreso, ma non Koike (che non si era risparmiato nel praticare insieme a noi). Vedendo i nostri volti sof- ferenti il maestro si fermò. Pensammo tutti che avendoci visti in difficoltà avesse deciso di passare ad altro e darci un po' di respiro, ma non era quello il motivo per cui ci aveva fermati; ciò che voleva darci in realtà era un insegnamento, insegnamento che ancora oggi, dopo quasi dieci anni, ricordo bene. Ciò che ci disse fu: "Quando soffrite mentre vi allenate non dovete fare espressioni o versi che lo facciano capire; ricordate sempre che anche i vostri compagni stanno faticando, e loro vi guardano. Non fategli vedere espressioni tristi, sorridete invece, e così facendo aiuterete anche loro".

Per esperienza posso garantire che il maestro aveva ragione: quando ti alleni e vedi tutti coloro che ti circondano che si lamentano (non necessariamente con le parole), anche tu sei portato a farlo, pensi che il tuo corpo abbia ragione, che non sia il caso di andare avanti. Koike ci disse anche altro: "Il corpo vuol far meno di ciò che potrebbe fare, e cerca di ingannarci dicendoci che non ce la facciamo più. Quando il corpo dice basta usate la mente, e quando anche questa non riesce più ad andare avanti usate lo spi- rito." Poi, rivolgendosi ai bambini presenti (a cui ovviamente aveva sempre chiesto fisi- camente meno rispetto agli adulti), continuò dicendo: "Quando sarete tristi, o stanchi, o

Sensei è la parola giapponese che designa il maestro, letteralmente "colui che viene prima nella vita", e

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penserete di non essere abbastanza, ricordate sempre una cosa: voi non siete dei bambi- ni comuni, voi siete i bambini del Karate".

Ho trovato in questi insegnamenti un'utilità infinita, e me li sono ripetuti ogni volta in cui non mi sono sentito all'altezza di qualcosa "Usa la mente, usa lo spirito, puoi farlo!", "Avanti! Tu sei un ragazzo del Karate", sono frasi che mi hanno aiutato ed accompagnato fino ad oggi.

Questo è solo un esempio del grande contenuto spirituale e morale proprio del Budo, ma credo possa già farne ben comprendere il valore.

Utili sono anche queste parole, pronunciate da Masajūrō Shiokawa:

"Le arti marziali giapponesi sono state tramandate fino ad oggi mantenendo inal- terata la loro caratteristica principale, che risiede nel fine ultimo di far progredire lo spi- rito, attraverso il rafforzamento fisico del corpo e l'apprendimento della tecnica. Di con- seguenza, l'approccio con l'avversario deve essere dettato non da ostilità, ma piuttosto da un senso di rispetto e di gratitudine: a conclusione di un combattimento in cui ognu- no ha dato prova delle proprie capacità senza risparmiarsi, nasce spontaneo il desiderio di un ringraziamento che riconosca all'avversario tutto il suo valore.

Ecco dunque che, infine, si può aspirare alla costruzione di una società pacifica in cui valorizzare se stessi e gli altri.» 36

Ma cosa intende Shiokawa con "far progredire la spirito attraverso il rafforza- mento fisico del corpo"? Il concetto è già intuibile nelle frasi del maestro Koike, dove esortava noi praticanti ad andare oltre le difficoltà delle membra, attingendo alle nostre riserve mentali e spirituali; ma si può comprendere ancora meglio attraverso il concetto di Kangeiko, la pratica del freddo.

Questa consiste in sette o dieci giorni, nei mesi più freddi dell'anno, in cui i pra- ticanti si sottopongono ad allenamenti particolarmente duri in condizioni climatiche par- ticolarmente rigide. Per fare qualche esempio: corsa a piedi nudi nella neve, allenamen- to in mare, finestre della sala aperte con riscaldamento spento e possibilità di doccia solo fredda.

Masajūrō Shiokawa, Presidente della Fondazione Nippon Budōkan, 2005

Questo tipo di allenamento veniva praticato anche in Italia, solo in alcuni dojo, intorno agli anni sessanta, e quando ai maestri giapponesi ne veniva chiesto il motivo erano soliti rispondere con frasi del tipo: "E' buono per [lo] spirito". 37

Oggi nel nostro paese il Kangeiko non è più praticato (salvo forse rari casi di fanatismo), ed i motivi non sono difficili da scorgere, ma la sua eredità concettuale è ancora viva, come fuoco sotto la cenere, nella ricerca degli stadi di consapevolezza dati dalla ripetizione (a volte estenuante) del gesto.

L'impegno, la disciplina, il sacrificio, la devozione e l'armonia, tutti tratti che abbiamo visto esser peculiari delle arti marziali, sono riassunte in quello che è comu- nemente chiamato Dojo Kun. Per poter tradurre dobbiamo dividere in tre parti: Do, Jo e Kun, del primo termine ho già scritto, esso significa "Via"; Jo è il luogo, mentre Kun è traducibile come "Regole". In sostanza sono le regole del luogo dove si segue la via.

Questi cinque precetti sono tutti di pari importanza, infatti ognuno di essi inizia con la parola hitotsu, traducibile come "per prima cosa", "innanzitutto".

Queste linee di condotta morale, troppo spesso abbandonate sulle pareti dei Dojo, imparate a pappagallo dai praticanti senza alcuna forma di riflessione, contengono e racchiudono le fondamenta della via del Do, e sono i seguenti:

一、人格完成に努むること

hitotsu, jinkaku kansei ni tsutomuru koto 一、誠の道を守ること

hitotsu, makoto no michi wo mamoru koto 一、努力の精神を養うこと

hitotsu, doryōku no seishin wo yashinau koto 一、礼儀を重んずること

hitotsu, reigi wo omonzuru koto 一、血気の勇を戒むること

G. Homma, Aikido Sketch: Dojo 365 Days, Frog Ltd, Berkeley, CA, USA

hitotsu, kekki no yū wo imashimuru koto

Traducendo:

-Per prima cosa dobbiamo cercare di migliorare e perfezionare il carattere. -Per prima cosa dobbiamo seguire la via della sincerità e della giustizia. -Per prima cosa dobbiamo rafforzare instancabilmente lo spirito.

-Per prima cosa dobbiamo agire con il massimo rispetto.

-Per prima cosa dobbiamo acquisire il pieno autocontrollo su noi stessi.

Volendo dare una breve spiegazione di questi precetti cercherò di analizzarli sin- golarmente. Questa esegesi nasce dal fatto che colui che li ha ideati, Gichin Funacoshi , si considerava uno studioso oltre che un combattente. 38 39

A dimostrazione di ciò faccio notare che si è fatto immortalare tra i libri, con in mano i suoi scritti, e non tra pile di cadaveri, con la katana in pugno.

Andiamo adesso a vedere più nel dettaglio il Dojo Kun:

Il primo riguarda il carattere: trovo interessante che non dica che si debba avere un buon carattere, o che si debba raggiungere un qualche standard, ma prescrive di cer- care di migliorarlo. A mio avviso questa cosa è estremamente in linea con lo spirito del karate, il quale non impone un livello di pratica, nessuno può dire che le possibilità o l'abilità di un praticante siano inadeguate, semplicemente l'obiettivo deve necessaria- mente essere il miglioramento, la progressione da un punto di partenza qualsiasi verso un punto superiore. In sostanza non importa se adesso sono al livello uno o cento, l'importante è che cerchi di arrivare più avanti, indipendentemente che questo significhi arrivare al livello due o duecento.

Seppur non vi sia una maggior importanza di un precetto rispetto ad un altro, credo che l'aver scritto questo per primo sia sintomo di una indicazione temporale, nel senso che senza il lavoro sul carattere tutti gli altri punti non potrebbero svilupparsi: è il nostro carattere che ci permette di superare le difficoltà e ci rende disponibili a lavorare

(船越 珍 Funakoshi Gichin; Shuri, 10 novembre 1868 – Tōkyō, 26 aprile 1957) è stato un karateka e

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maestro di karate giapponese, fu tra i più conosciuti e apprezzati maestri di arti marziali; nonché il fonda- tore dello stile Shotokan.

Funakoshi fu infatti poeta e maestro di scuola.

su noi stessi, più lo miglioriamo maggiori saranno le nostre possibilità di riuscita nel seguire anche le altre regole del maestro.

Il secondo punto concerne la sincerità e la giustizia, vedo questo come leggibile in due sensi: uno più immediato, chiaro a chiunque appena lo si legga, e riguardante la sincerità e la giustizia con gli altri. Chiaramente i rapporti all'interno del dojo, special- mente tra maestro ed allievi, devono assolutamente essere sottoposti al filtro della since- rità (perché altrimenti si perde la credibilità e la fiducia reciproca) e della giustizia (per- ché se vi è un favoritismo, o se qualcuno viene trattato palesemente come non merita, si rischiano di incrinare gli equilibri e di far abbandonare a qualcuno l'ambiente in que- stione).

L'altro senso in cui si può vedere la cosa è più personale, interno, richiede me- diazione da parte degli anni di pratica, e riguarda la sincerità e la giustizia con noi stessi. Facile è prendersi in giro da soli, per accontentarsi, per non doversi mettere troppo in discussione; l'autoinganno è un veleno dolce da bere. Certe volte ci convinciamo di es- sere ciò che non siamo, ci diciamo che se abbiamo fallito è colpa di qualcuno o qualcosa che non dipende da noi, che siamo stati sfortunati; mentre quando le cose ci vanno bene ce ne prendiamo il merito senza farci troppe domande sui dettagli, perché i dettagli ci spaventano, perché i dettagli potrebbero rivelarci che forse siamo stati solo fortunati, o che forse il nostro apparente successo vale meno di quanto sembra: "Sono arrivato se- condo al campionato italiano!!" È un'affermazione che ci apre più possibilità di pensie- ro: A) "Sono proprio bravo!"; B) "Ho veramente eseguito una prestazione migliore ri- spetto al me stesso di un anno fa?" C) "Beh, eravamo solo in due però, alla fine forse tanto bravo non sono stato..."

È chiaro che se ci fermiamo alla riflessione A, indubbiamente la più allettante per il nostro ego, siamo più felici nell'immediato, ma sicuramente non siamo sinceri, e tantomeno siamo giusti con noi stessi. Siamo ingiusti perché il dormire sugli allori non ci permette di crescere, tradendo lo spirito con cui dovremmo affrontare la pratica della nostra arte marziale, ed anche della nostra vita.

Per riuscire nell'impresa dell'essere sinceri e giusti, nei due sensi che abbiamo visto, ci viene incontro il terzo punto del Dojo Kun, il rafforzamento dello spirito. Ho

già scritto a proposito delle pratiche fisiche collegate a questo aspetto (vedi primo capi- tolo), oltre a tutto ciò mi sento di aggiungere che la sopportazione di elementi estrema- mente provanti ci permette di comprendere la nostra forza interiore, forza che potrà es- sere qua utilizzata per superare la tentazione dell'autoreferenzialitá. Attenzione va posta sul fatto che, superata questa, vi è la possibilità di una ferita narcisistica: quando mi but- to giù dal piedistallo scopro di non essere così speciale come credevo, e se il mio spirito non mi sorregge rischio di mollare la via che sto percorrendo, vanificando il lavoro fino- ra compiuto.

Il quarto "Hitotsu" è l'unico in cui non si chiede semplicemente di migliorare qualcosa, non prescrive di cercare di acquisire maggiore rispetto, afferma che si deve agire con il MASSIMO rispetto. Questo è ovviamente in strettissimo legame con la cul- tura giapponese, dove l'etichetta ha un ruolo di altissimo livello, e tra le prime cose che i bambini imparano il rispetto è fondamentale: per fare un esempio, già dalle scuole ele- mentari, gli alunni si occupano delle pulizie degli spazi che usano, come forma di ri- spetto dei luoghi dove vivono. Gli insegnanti hanno un ottimo prestigio sociale proprio perché sono incaricati di formare i giovani instillando in loro questi valori, tanto da es- sere gli unici a non essere tenuti ad inchinarsi dinnanzi all'imperatore.

Senza voler troppo divagare dirò solo che nella lingua giapponese esiste inoltre uno specifico codice linguistico onorifico (Keigo) in cui sono comprese diverse particel- le che vengono inserite dopo il nome o l'appellativo che si usa per rivolgersi a qualcuno, e che indicano il diverso grado di confidenza e rispetto che si sta esprimendo.

Ci si chiede allora perché si sia sentita l'esigenza di ribadire questo concetto, se già esso permea così in profondità la cultura del Sol-Levante. Credo che il Maestro Fu- nakoshi abbia voluto inserire questo precetto per un semplice motivo: dopo molta prati- ca si acquisisce molta abilità, ed è facile iniziare a montarsi la testa, specialmente a chi dimostra uno spiccato talento rispetto agli altri può venire quasi naturale iniziare a ve- dersi migliore dei compagni, ed addirittura migliore del maestro, nel momento in cui lo dovesse superare in vigore (anche fosse solo perché ormai l'insegnate è molto più an- ziano di lui).

Lo stesso principio deve valere per il maestro, che deve sempre evitare di porsi su un piedistallo. Il rispetto nei confronti dell'allievo dovrebbe anche consistere nel ri- conoscere i propri limiti, nella volontà di non smettere mai di aggiornarsi e migliorare, in modo da garantirgli una continua crescita; rispetto dovrebbe essere il riconoscere i propri errori, ed esser disposti a confrontarsi sulle proprie scelte, senza mai pensare che l'appellativo di Sensei renda infallibili.

Chiudendo il cerchio giungiamo all'autocontrollo, perché tutti noi possediamo emozioni tali da renderci in alcuni momenti delle persone che non vorremmo essere, come uno scatto d'ira che ci fa dire o fare cose di cui immediatamente dopo ci pentiamo, senza nessuna utilità a riguardo, ci comportiamo come animali non umani. Il praticante di arti marziali deve invece aborrire la perdita del proprio controllo, per almeno due mo- tivi: primo, rischia di infrangere le regole di cui ho appena scritto; secondo, in una si- tuazione di combattimento la lucidità è fondamentale. Se lascio che siano le emozioni a guidarmi in battaglia rischio di non riuscire più a vedere e valutare bene la strada per la vittoria.

Prendendo ad esempio Game of Trones, sesta stagione, episodio "Battle of the bastards" , vediamo che Jon Snow, alla testa di qualche migliaio di uomini armati per 40

riconquistare una roccaforte persa in precedenti eventi; è spinto dal comandante dell'e- sercito rivale a lanciarsi sconsiderevolmente alla carica, vanificando ogni strategia pre- cedentemente elaborata, e mettendo così a rischio il suo intero esercito e l'esito della battaglia, tramite la minaccia della morte del fratello, in mano appunto al nemico.

Questo è un efficace esempio di manipolazione emotiva, di cui un buon guerrie- ro non dovrebbe cadere vittima; e l'unico modo per riuscirci è quello appunto di avere il pieno autocontrollo.

Ecco quindi perché il Dojo Kun esiste, la filosofia Zen di cui trasuda è qua fina- lizzata alla crescita interiore del buon praticante e buon guerriero, perché l'allenamento fisico è poca cosa senza carattere, sincerità, spirito forte, rispetto ed autocontrollo.


"Battle of the Bastards" è il nono episodio della sesta stagione della serie televisiva in onda sull'HBO,

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dal titolo Game of Thrones, ed il suo cinquantanovesimo episodio complessivo. È stato scritto da serie co- creatori David Benioff e DB Weiss, e diretto da Miguel Sapochnik . In italiano la serie si chiama "Il trono di spade", ed è trasmessa da Italia Uno.

2.6 Il KI ed il Taoismo

La possibile traduzione dell'ideogramma 氣 KI, è "Essenza Individuale", cioè quella peculiare caratteristica che distingue ogni essere da tutti gli altri. Secondo una interpretazione spirituale o filosofica potremmo parlare di Anima, di Microcosmo, di Coscienza, di Psiche, oppure più concretamente di Personalità, Individualità, Carattere, Identità. Ciò che importa chiarire ora è il concetto dell'esistenza di una energia che muove dall'interno del nostro corpo (inteso come sistema Mente/Corpo) e gli permette di interagire con la realtà.

In Giappone, tale termine è usato quotidianamente a partire dall'instaurarsi della cultura cinese. Il KI esprime il concetto delle energie fondamentali dell'universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana. Nell'antica Cina, poiché era visto come la forza che originava tutte le funzioni fisiche e psicologiche, il concetto di KI venne ampiamente utilizzato nella medicina tradizionale cinese, nelle arti marziali ed in molti altri aspetti della vita. Fu inoltre utilizzato per determinare il massimo livello della forza dei soldati, per scegliere in base a ciò il movimento militare a loro più idoneo; in seguito, lo studio dei KI divenne una forma di pratica di predizione del destino, median- te l'abilità dell'indovino di leggere il KI di un individuo.

Nelle discipline marziali giapponesi ed orientali, l'essere umano è vivo finché è percorso dal Ki dell'universo e lo veicola, scambiandolo con la natura circostante: priva- to del Ki cessa di vivere e fisicamente si dissolve. Nella concezione delle arti marziali orientali, l'essere umano è pieno di vita, di coraggio, di energie fisiche ed interiori fin- ché veicola il Ki in modo vigoroso attraverso il proprio corpo, e lo scambio con la natu- ra circostante è abbondante; quando invece nel suo corpo la carica vitale del Ki è caren- te, l'uomo langue, è debole, codardo, rinunciatario.

La filosofia che vi è alla base è quella cinese della Scuola Yin-yang, di cui Zou Yan è considerato il fondatore , la quale sintetizza il concetto di Yin-yang con quello 41

dei cinque elementi.

Zou Yan". Enciclopedia Britannica. 1 marzo 2011

Questa vuole spiegare l'universo come combinazione di forze semplici: gli ele- menti dello yin (oscurità, freddo, negativo, femminile) e dello yang (luce, caldo, positi- vo, maschile) si combinano con i cinque elementi (acqua, fuoco, legno, metallo e terra). Questi sono anche collegati all'essere umano ed al suo benessere: le parti superiori del corpo e la schiena sono associate allo yang, mentre le parti inferiori allo yin; quando vi è squilibrio tra le due energie ecco che nasce la malattia.

Tutto la circolazione energetica nei meridiani del corpo consiste nel Ki (chi, o qui in cinese), che mantiene in ordine la funzionalità dell'organismo (si occupa della digestione, respirazione e regolazione della temperatura, ecc).

Il Ki è dunque la fonte non visibile della vita: le azioni e l’esistenza stessa del corpo fisico sono le sue manifestazioni. Abbiamo visto che quando lo yin è forte, anche le manifestazioni dello yang possono essere forti. Mentre quando lo yin è debole o trop-

po forte, il rapporto yin e yang si sbilancia, facendo perdere armonia alla vita stessa. Per questa ragione lo scopo primario della medicina cinese é quello di mantenere un

corretto bilanciamento dello yin e dello yang.

Il segreto dell’immortalità è dunque l’identificazione con il Tao (di cui scriverò meglio tra poco), data dal mantenimento di quei principi che governano il corpo e la psiche dell’individuo, attraverso le pratiche taoiste.

Il raggiungimento dell’immortalità è al contempo un cammino mistico, fatto di devozione e rispetto nei confronti del Tao. Secondo le testimonianze dei monaci taoisti antichi e moderni, unirsi misticamente al Tao è una esperienza spirituale di illuminazio- ne. L’unione con esso porta alla comunicazione con il “de” (la “forza”, la “potenza”), il potere universale che dà l’immortalità alla persona, corpo e anima.

Per i cinesi gli uomini non hanno una, ma due anime: una più spirituale, che può, dopo la morte, diventare uno shen (“spirito”, entità benefica); l’altra più materiale, che potrebbe tramutarsi in gui (“demone”, entità capace di fare del male) e rimanere sul- la Terra.

L’anima terrestre proviene dal seme umano e l’anima aerea si forma al momento

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