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Riflessioni ed esperienze particolari dell'insegna mento

Capitolo terzo: Benefici neurofisiologici, affettivi, emozionali e cognitivi delle arti marzial

3.4 Riflessioni ed esperienze particolari dell'insegna mento

Come insegnate ho avuto modo di avere in palestra un gran numero di soggetti, dai bambini di quattro anni a uomini e donne sulla sessantina, ognuno dei quali con esperienze, caratteri e doti diverse. Un buon insegnante non può trascurare l'individuali- tà del suo allievo, pena il rischio della perdita o, peggio, della cattiva formazione dello stesso. Sarebbe quindi sempre bene cercare di comprendere con chi abbiamo a che fare, e tentare sempre di immaginare a quali problemi l'allievo potrà andare incontro, in modo da non farsi trovare impreparati al momento decisivo.

Non essendoci alcuna letteratura a riguardo in questo capitolo userò quelle che sono le mie esperienze personali, e quelle di colleghi più esperti che hanno voluto con- dividere con me il loro bagaglio empirico, e mi concentrerò principalmente sui bambini, che trovo enormemente più interessanti da analizzare, e che offrono maggiori possibilità di verifica del valore educativo della mia disciplina rispetto agli adulti (che hanno ov- viamente già subito un processo formativo molto più consistente).

Per ciò che concerne i più piccoli (diciamo dai cinque ai sette anni di età) non si deve mai dimenticare che non abbiamo a che fare con degli adulti in miniatura, ma con dei bambini: la loro soglia di attenzione è tendenzialmente molto bassa, e necessitano continuamente di stimoli nuovi ed interessanti; ma soprattutto hanno tanto, tanto, tanto bisogno di giocare. Il buon insegnante saprà abilmente giostrare divertimento ed inse- gnamento, tenendo in considerazione che in questa fase la cosa principale da sviluppare è una buona coordinazione motoria, accompagnata da una discreta elasticità articolare, dando alla tecnica anche solo un terzo del tempo a disposizione. Si deve fare in modo che i soggetti in questione escano a fine allenamento dispiaciuti di dover già salutare il maestro.

La fascia successiva, dagli otto ai dieci anni, non differisce moltissimo dalla precedente, ma i suoi membri hanno già molta più capacità di seguire l'insegnante senza distrarsi, pur mantenendo la necessità del divertimento. Per citare un maestro di Lucca: "Ormai i bambini sono impegnatissimi, fanno mille attività, suonano uno strumento,

vanno ai Boy Scout, e non hanno più il tempo per giocare. Quindi, se vogliamo che sia- no contenti di venire in palestra, bisogna che questa sia la loro ora di gioco, devono uscire col sorriso."

Chiaramente questo non significa che il maestro debba trasformarsi in baby sit- ter, deve comunque essere in grado di far crescere sia fisicamente che tecnicamente il suo allievo, ma ci sono molti modi di fare la stessa cosa. Ho sperimentato più sistemi di gestione dei bambini, ma alla fine trovo che il mio attuale metodo (iniziato nella stagio- ne sportiva 2015/2016) dia ottimi frutti: mentre in passato strutturavamo l'ora di lezione in due fasi, dove nella prima mezz'ora giocavamo e facevamo ginnastica e nella seconda c'era solo tecnica, adesso inseriamo dei momenti tecnici nel gioco-ginnastica (ad esem- pio mentre un insegnante prepara un percorso motorio un altro fa fare tecniche di ripas- so ai bambini), allungando però di qualche minuto questa parte, e riserviamo gli ultimi cinque minuti della lezione ad un gioco collettivo. Seppur non siano molti i minuti a disposizione per quest'ultima attività, servono da valvola di sfogo: la fase tecnica può risultare tendenzialmente noiosa per i bambini di entrambe le fasce di età, e la prospetti- va che poi si divertiranno e sfogheranno li aiuta tantissimo a non lasciarsi rattristare dal- lo stress della ripetizione tecnica. Così facendo abbiamo empiricamente osservato che i piccoli karateka vanno via col sorriso, e tornano molto volentieri, perfino la percentuale di abbandoni dopo la pausa estiva si è drasticamente ridotto di due terzi dal settembre del 2015 a quello del 2016.

Salendo di età le cose diventano più facili: con adolescenti e preadolescenti si gode di una soglia di attenzione decisamente più alta, e di una capacità di coordinazione corporea del tutto migliore, gli esercizi si possono quindi focalizzare maggiormente sul potenziamento muscolare ed il miglioramento del gesto tecnico, senza però trascurare lo stretching. Ma non è questo il cluster di cui maggiormente mi interessa parlare.

Ovviamente con i bambini in palestra entrano anche i genitori, ed anch'essi sono fatti di paste molto diverse: seppur nel 95% dei casi non sorgano problemi di alcun tipo c'è sempre la piccola percentuale in cui le lamentele sono d'obbligo. Questi casi spazia- no dal "Tizio vince in gara, mentre mio figlio no, perché insegnate meglio a lui?" (come se gli atleti avessero tutti stesse doti e costanza); a "State sempre a richiamare mio fi-

glio, lo avete preso di mira!". (Quando ci era stato affidato perché lo psicologo aveva consigliato uno sport di disciplina).

Il secondo esempio è particolarmente interessante: mediamente un 20% dei ge- nitori che arrivano a chiedere informazioni o ad iscrivere i figli ci dicono che vorrebbe- ro che li disciplinassimo. Il Karate a questo scopo è molto efficace (se la palestra non è solo un luogo dove si ammassano bambini per far numero, lasciandoli allo stato brado), come ho già scritto ha tutta una serie di regole di comportamento, oltre ad un suo ceri- moniale, che richiedono ordine e disciplina. Ciò che io e gli altri tecnici abbiamo con- statato è che il disciplinamento ha esito positivo se c'è il supporto dei genitori; ciò che intendo è che quando noi sgridiamo il bambino la famiglia può avere due reazioni: prendersela con noi o con lui. A questo proposito riporto due esperienze reali con cui ho avuto a che fare, i nomi dei bambini sono di fantasia.

Giulio, quasi otto anni: Giulio è un bambino che rientra nella categoria in cui la mamma ha scelto il Karate per disciplinare il figlio; è palesemente un allievo molto agi- tato, seppur affettuoso. Fa fatica a mantenere il silenzio, prende in giro gli altri bambini, prende oggetti da allenamento nei momenti di pausa e li sposta per la sala (è facilmente immaginabile il pericolo che rappresenta un bambino che vuol correre con un peso da tre chili sopra la testa in mezzo ai coetanei).

Quando abbiamo a che fare con bambini che non rispettano le regole iniziamo col richiamarli in modo gentile spiegandogli perché non devono fare ciò che stanno fa- cendo; se il bambino persevera lo sgridiamo in modo più deciso, ed andando avanti ap- plichiamo piccole punizioni come saltare i momenti di gioco o stare alcuni minuti nello spogliatoio.

Giulio, nonostante un miglioramento del comportamento, dopo circa tre mesi 63

continuava a fare cose vietate, con la conseguenza che ad ogni minima infrazione veni- va richiamato immediatamente. Finche un giorno, appena prima della lezione, stava prendendo degli oggetti che non doveva prendere (e lo sapeva bene), così il tecnico lo ha immediatamente fermato e condotto nello spogliatoio, in modo che passasse lì i mi-

Tendenzialmente tre-quattro mesi rappresentano un periodo sufficiente per riscontrare signifi

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nuti mancanti all'inizio dell'allenamento. A quel punto è entrata la madre di Giulio che stava guardando dal vetro, dicendo che avevamo preso di mira il figlio, che non aveva fatto nulla di male e che quindi avrebbe smesso di portarlo. Indizi del possibile falli- mento futuro erano stati dati dal fatto che ad ogni richiamo che gli si faceva il bambino guardava fuori dalla sala di allenamento e trovava lo sguardo compassionevole e giusti- ficante della madre.

In questo caso è mancata l'alleanza della famiglia, che invece di sgridare mag- giormente il figlio lo ha sempre rassicurato dopo i nostri rimproveri, nonostante fossero venuti con l'intento di disciplinare il figlio.

Molto più successo ha avuto invece l'intervento su Alberto, sei anni scarsi al momento dell'ingresso in palestra: Alberto è il bambino più problematico con cui ho avuto a che fare; si butta per terra in ogni momento, urla e scappa mentre si allena, spinge gli altri bambini, quando va in bagno fa pipì sul muro e sul pavimento, quando fa la doccia salta da una postazione all'altra col grave rischio di scivolare o far cadere un coetaneo intento a lavarsi.

La madre di Alberto, piuttosto disperata, ci dice che abbiamo completamente carta bianca, le basta che il figlio migliori.

Il percorso, durato più di un anno, è per lui molto rigido, ogni accenno di infra- zione viene punito, i tecnici lo mandano spesso nello spogliatoio, dove non di rado piange, e lo riaccolgono solo dopo essersi fatti spiegare dal bambino il perché sia stato punito (in modo che lui rifletta su ciò che ha fatto), e dopo la promessa della non ripeti- zione dell'atto. Ma ad Alberto piace tanto venire a Karate (elemento usato nel minac64 -

ciarlo di venir cacciato nel caso in cui non si comporti meglio), e così i risultati piano piano arrivano: dopo poco meno di un anno gli episodi negativi sono sporadici ed è raro che si sia costretti a punirlo; altri tre-quattro mesi ed il bambino li cessa del tutto, tra- sformandosi in un allievo perfettamente disciplinato. La madre, felicissima, ci spiega che i risultati sono visibili anche a scuola, e le maestre sono contente del bambino.

A mio modesto parere ha trovato sicurezza in figure severe, figure che non ha mai trovato nell'ambien

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te familiare. Si pensi che per ciò che riguarda far pipì per terra la mamma ha detto: "lo fa anche a casa, glie lo dico che non lo deve fare, ma lui continua".

Alberto è ad oggi al suo terzo anno di pratica, in cui quasi mai ha saltato una le- zione, non ha più dato problemi di alcun genere ed è affezionatissimo alla palestra ed ai suoi tecnici, è stato responsabilizzato dicendogli che doveva essere un esempio per i nuovi iscritti, ruolo che lo ha portato a cercare di dimostrare di essere all'altezza del suo grado impegnandosi sempre di più. Questi risultati non sarebbero stati possibili se i ge- nitori, per quanto poco severi, lo avessero giustificato nel suo agire.

I due esempi che ho presentato rappresentano casi limite, ma il principio è vali- do un po' per tutti i giovani allievi: molti hanno la tendenza a far confusione, o ad infa- stidire gli altri, e le arti marziali possono dare un aiuto notevole, ma con l'alleanza della famiglia i risultati sono migliori e più rapidi.

Andando all'estremo opposto rispetto ai bambini troviamo il rapporto tra karate ed anziani; le differenze principali tra questi soggetti e quelli semplicemente adulti stanno in due aspetti: le energie fisiche e gli scopi/impegni di vita.

Un anziano non potrà ovviamente praticare lo stesso karate di un ragazzo, ma questo non è in alcun modo un problema: la maggior parte delle arti marziali sono come un vestito che si adatta al suo portatore, mutano e si evolvono in base al loro praticante, se egli non ha più l'elasticità per colpire con un calcio il viso dell'avversario pazienza, vorrà dire che andrà a colpire il suo ginocchio; nessuno potrà affermare che quella tec- nica sia errata.

Un anziano ha meno necessità di una preparazione atletica avanzata, anzi, si ri- schia di creare dei danni chiedendo troppo al suo fisico; per questo gli esercizi di riscal- damento dovranno esser compiuti come se si trattasse di una ginnastica dolce, senza movimenti bruschi, e questa fase dovrà comprendere una fetta di allenamento maggiore rispetto a quella prevista per soggetti più giovani. Non si dovrà però far mancare del blando potenziamento muscolare, necessario a compensare il declino a cui biologica- mente il nostro sistema motorio va incontro. Anche lo stretching è importante, in quanto l'elasticità, come la forza, subisce una riduzione proporzionale all'età.

Una volta presi questi piccoli accorgimenti, per dirla in giapponese "Karate no

controindicazione, anzi, è un ottimo mezzo per mantenere capacità fisiche utili al benes- sere nella terza età.

Date queste premesse metodologiche inerenti all'allenamento è giusto considera- re l'aspetto più propriamente psicologico dell'anziano che si approccia al Karate. Le mo- tivazioni di questo contatto posso essere svariate: un desiderio presente in gioventù ma mai potuto realizzare per mancanza di tempo o supporto familiare, la curiosità nata dal vedere il nipote che pratica, la volontà di fare qualche cosa che gli altri ritengono folle, come nel caso di cui andrò adesso a raccontare.

Giorgia, 71 anni, nonna di una ragazzina di 13 anni che pratica danza. Da quan- do ha perso il marito è andata a vivere con il figlio e la sua famiglia. È felice perché può stare molto con la nipotina, ma non le lasciano fare quasi niente in casa per una preoc- cupazione esagerata nei suoi confronti, forse dettata anche dal recente lutto. Giorgia so- stiene infatti che la trattino come fosse una bambina più piccola di sua nipote, al che le nasce una sorta di desiderio di rivalsa, vuol dimostrare di essere ancora capace di vivere a pieno. Racconta di aver deciso di fare qualcosa che nessuno avrebbe creduto possibile, e che tra le varie idee che le sono venute in mente il karate è sembrata la migliore. La fascinazione per le arti marziali era nata guardando film di Bruce Lee insieme al marito anni fa, al tempo non aveva le possibilità e lo stimolo giusto per provare, ma quel picco- lo seme non ha mancato di germogliare al momento giusto. Gli insegnanti l'hanno rassi- curata sulle possibilità di portare avanti il suo progetto, così Giorgia, dopo avere supera- to la necessaria visita medico sportiva, ha acquistato la sua divisa ed è salita sul

tatami. 65

Andando avanti con la pratica ciò che la colpisce maggiormente sono gli aspetti cerimoniali ed interni dell'arte marziale: la ricerca della tranquillità interiore, il cerimo- niale del saluto, l'attenzione per ogni dettaglio del movimento; comprende più facilmen- te di un giovane quelli che sono gli aspetti più spirituali del Karate, e se ne innamora. Fa molte domande su aspetti sia tecnici che culturali, chiede consiglio su libri da leggere

Pavimento del dojo, viene ormai utilizzato nel linguaggio comune per identificare le materassine in

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che siano attinenti alle arti marziali, si trattiene sempre qualche minuto dopo la fine del corso per provare nuovamente alcuni movimenti, ed ovviamente non salta una lezione.

Seppur la sua velocità di apprendimento sia più limitata in confronto ai molto più giovani compagni di corso, dopo sei mesi è pronta per il suo primo esame di cintu- ra , che supera senza problemi. 66 67

Seppur i familiari inizialmente abbiano tentato di dissuaderla, e siano rimasti a bocca aperta quando gli ha dichiarato la sua intenzione, la sua determinazione l'ha pre- miata, tanto che al suddetto esame a vederla c'erano tutti.

Giorgia ci ha raccontato che si era sentita raramente così messa in gioco durante la sua vita, da casalinga il massimo della sfida era stata preparare un pranzo di Natale che non fosse criticabile dalla madre del marito. Mentre il giorno del suo esame aveva gli occhi di tutti puntati su di lei, e non solo quelli dei maestri e della sua famiglia, molti altri partecipanti alla sessione le hanno chiesto di potere rimanere a guardare, e così hanno fatto.

I suoi familiari le hanno detto che non si sarebbero mai aspettati che fosse capa- ce di tanto, specialmente la nipote ha molto rivalutato quella che credeva esser una fra- gile e debole, seppur molto amata, donna.

Il percorso di Giorgia non si è comunque arrestato con il primo esame: ormai pratica da tre anni, ha raggiunto il grado di cintura verde e la sua passione non si è arre- stata.

Dall'esempio appena raccontato possiamo analizzare quanto sia diversa la prati- ca tra individuo ed individuo; pur trovandosi sulla stessa Via, ognuno mette attenzione e trae beneficio sulle possibilità che maggiormente gli sono affini, senza che un aspetto abbia maggior importanza, in termini assoluti, di un altro. Come ho scritto prima: è

Le cinture nel Karate sono sette: bianca, gialla, arancione, verde, blu, marrone e nera. Il tempo minimo

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per compiere tutto il percorso è di quattro anni, ma nella maggior parte dei casi i maestri ne chiedono di più ai loro allievi, in modo da garantirgli una migliore preparazione. Il tutto varia comunque a seconda della velocità individuale di apprendimento del praticante. Normalmente per il primo esame, nel mio dojo, chiediamo 4/5 mesi di allenamento.

L'esame non è la gara: nella gara si valuta il grado di abilità del praticante, nell'esame invece i fattori

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presi in considerazione sono molteplici, età e percorso in primis, andando a valutare quelli che sono stati i miglioramenti rispetto al punto di partenza dell'allievo. Non essendoci uno standard assoluto da raggiun- gere Giorgia ha potuto sostenere il suo esame, con le sue possibilità fisiche di esecuzione. Esattamente per lo stesso principio che permette di sostenerlo ad un bambino di sei anni.

l'arte marziale che si adatta a noi, non il contrario. E la cosa veramente straordinaria è che ognuno può a suo modo trarre beneficio da essa, indipendentemente da età, sesso o bravura; è una fonte a cui ognuno può attingere senza controindicazioni.

Conclusioni

Tutto quello che abbiamo visto, dagli studi scientifici alle esperienze personali, ci suggerisce quanto valore educativo abbiano le arti marziali, proprio per la loro di- stanza dai comuni sport, indubbiamente carichi di valori positivi, ma tendenzialmente scarichi di caratteri filosofici.

La arti marziali non possono essere definite precisamente con il termine

di sport, quale noi lo intendiamo oggi: questo perché sono diverse nella concezione e negli scopi; hanno una tradizione e una componente filosofica e formativa che vanno infatti ben oltre la pura parte agonistica. Esse sono nate per motivazioni ed esigenze precise, e anche il loro corso storico ha un suo significato; abbiamo visto infatti come il loro scopo sia il perfezionamento morale del praticante; come gli sport occidentali ten- dano ad enfatizzare la competizione, mentre le arti marziali orientali abbiano posto più l’accento sull’autoconoscenza. Hanno quindi alla base una filosofia inerente al loro stesso modo di vivere, che enfatizza tra l’altro l’osservazione rispetto all’azione, l’inte- grazione tra corpo e mente, con una forte componente meditativa. Per questo anche gli aspetti non-fisici delle arti marziali hanno un’influenza a lungo termine sui cambiamenti psicosociali dei partecipanti.

Le ricerche che comparano le arti marziali con altre attività fisiche suggeriscono in genere che le prime producono cambiamenti psicosociali migliori sia in qualità sia in quantità rispetto a quelli prodotti da molte altre attività. Per esempio il tai-chi-chuan, come abbiamo visto, è ritenuto la pratica marziale per eccellenza per ridurre l’incidenza dello stress.

È indubbio che lo sport in generale sia palestra di vita: esso ci insegna che la sconfitta è sempre in agguato; che certe volte, nonostante tutto il nostro impegno, la for- tuna gioca un ruolo chiave, ma che il lavoro presto o tardi da i suoi frutti; mentre da su- bito è cristallino che "successo" viene prima di "sudore" solo sul vocabolario . Ci inse68 -

gna infine che il mondo è spietato, ma che abbiamo le possibilità di affrontarlo.

Tratta dalla massima di Vidal Sasson

Le arti marziali, oltre a tutto questo, impongono un codice morale particolar- mente forte, perché il loro obiettivo più profondo è quello della formazione dell'indivi- duo, e non il solo raggiungimento di una prestazione fisica. Fanno dialogare il praticante con una filosofia di vita estremamente distante dagli standard di un occidentale, che ri-

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