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Il valore formativo e filosofico del karate in relazione al benessere psicofisico.

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del

Sapere

Il valore formativo e filosofico del Karate in

rela-zione al benessere psicofisico.

Relatore:

Prof.ssa Maria Antonella Galanti

Correlatore:

Prof. Mario Pirchio

Candidato: Lorenzo Cavallini

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Indice

Introduzione

Capitolo primo: Sport ed educazione

1.1 Mondo e movimento 7

1.2 Perché fare sport? 10

1.3 Stili educativi e aspetti neuro-biologici dell'apprendimento 13 1.4 I neuroni specchio e il loro possibile ruolo nell'allenamento 20 Capitolo secondo: Le arti marziali ed il Karate

2.1 Un po' di storia 25

2.2 Dall'arte all'arte marziale 29

2.3 Zen e guerrieri 32

2.4 Budo, violenza e valore formativo 41 2.5 Marzialità, aggressività e filosofia 46

2.6 Il KI ed il Taoismo 55

Capitolo terzo: Benefici neurofisiologici, affettivi, emozionali e cognitivi delle arti marziali

3.1 Studi vari 62

3.2 Gli effetti della meditazione 67

3.3 Autostima ed abilità 72

3.4 Riflessioni ed esperienze particolari nell'insegnamento 76

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"La coscienza di sé è il più grande ostacolo alla corretta esecuzione di ogni azione fisica." - Bruce Lee

INTRODUZIONE

Questa tesi nasce dalla volontà di far conoscere e comprendere gli aspetti nor-malmente più trascurati, se non addirittura ignorati, delle arti marziali in generale, e del

Karate-Do più in particolare.

L'origine di questi sistemi di combattimento, poi divenuti arti vere e proprie, si perde nella notte dei tempi, ed è attraverso i secoli che si sono arricchite di caratteri mo-rali e filosofici di grande rilevanza.

Amando la via che ho intrapreso come praticante, e che ormai seguo da dicias-sette anni, sono stato spinto da essa a voler approfondire il più possibile ciò che concer-ne l'oggetto del mio interesse e, tramite gli strumenti che in cinque anni di filosofia ho acquisito, ho potuto ricercare ed analizzare questi aspetti nascosti della mia disciplina.

Il karate è capace di aiutare tantissimo nella vita di una persona, fornendo quella volontà per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà, quella sicurezza nelle proprie capaci-tà, e quella voglia di vincere, che possono garantire alla persona le carte giuste per af-frontare ogni situazione.

Per fare un esempio voglio brevemente raccontare del mio rapporto con l'ansia: da bambino ero estremamente ansioso, le mattine delle mie prime gare battevo letteral-mente i denti dal nervosismo, stesso discorso per le verifiche scolastiche. Ma da quando ho preso la mano ad esibirmi davanti ad un palazzetto, e magari a ricevere degli applau-si, tutto questo è sparito. La differenza vera l'ho vista confrontandomi con i colleghi universitari nei giorni di esame, i quali tendenzialmente erano tesissimi, e si stupivano del fatto che io invece fossi tranquillo. Ma il segreto stava semplicemente nell'essere abituato a situazioni in cui il minimo errore pregiudica l'intera gara: mentre l'esame uni-versitario è rifiutabile e ripetibile anche il mese successivo, senza nessuna

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competizio-ne o graduatoria tra i suoi iscritti, un campionato regionale o nazionale si tiecompetizio-ne solo una volta l'anno, e se lo perdi tu lo vince un tuo rivale. Da aggiungere che vi sono presenti selezionatori delle rispettive rappresentative (regionali o nazionali), che valutano chi gareggia per la singola performance eseguita; performance che ha alle sue spalle un in-tero anno di lavoro, cioè dal campionato precedente; il che vuol dire che chi è in gara si gioca ore ed ore di allenamento, fatica, sudore ed impegno in due stressantissimi minuti scarsi.

Si può trarre grande beneficio anche dal prendere colpi, per quanto questo possa sembrare strano, perché l'incassare è un qualcosa che ogni marzialista impara: impara però anche ad essere capace di ignorare la batosta, perché se si concentra sul dolore del momento il gioco è finito. Ogni combattente sa bene che la concentrazione deve sempre essere alle stelle, che ogni attimo può essere quello decisivo e conclusivo; ed impara a non badare alla paura, a non perdersi nell'attimo passato. Allo stesso modo in cui un combattente subisce dei colpi fisici, tutti noi subiamo dei colpi psicologici o morali, ma la differenza non è poi molta: anche nella vita infatti chi si ferma a pensare troppo al suo dolore rischia di perdere l'attimo decisivo, o di subire un secondo colpo per la mancanza di attenzione a ciò che lo circonda.

L'obiettivo finale della disciplina è la padronanza di sé, normalmente quando si parla di autodifesa si pensa al combattere una forza esterna che cerca di affermare la sua volontà sopra di noi; eppure l'ironia è che, in quasi ogni conflitto, il nostro più grande avversario è all'interno. Si possono usare le arti marziali in situazioni difficili senza do-ver necessariamente ricorrere alla forza fisica, ma attingendo puramente a quella menta-le; riuscire a dominare i propri istinti e le proprie insicurezze è forse addirittura più im-portante del riuscire a dominare le tecniche fisiche.

Ecco dunque che in questo lavoro cercherò di illustrare gli aspetti peculiari delle arti marziali, anche in confronto ad altri sport; di delinearne i tratti filosofici e spirituali; di descriverne il grande valore educativo, passando da dati scientifici ed esperienze di-rette e personali. Introdurrò il lettore a quelli che sono i valori del Budo e dello Zen: va-lori fondanti nella cultura del Sol Levante, che possono fornire un grande e valido con-tributo anche nel mondo occidentale, molto meno avvezzo al lavoro sulla dimensione

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interiore, ma non per questo meno necessitante di esso. Vedremo infatti quali sono gli effetti benefici delle pratiche meditative, e come esse si siano mischiate con i principi sopracitati del Budo e dello zen all'interno del Karate-Do.

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Cap. primo: Sport ed educazione

1.1 Mondo e movimento

Il movimento è essenziale per l’apprendimento e per la manifestazione della vita stessa. Esso risveglia e attiva molte delle nostre capacità mentali, integra e lega nuove esperienze e informazioni al nostro sistema neurale. Il movimento è anche vitale per tutte quelle azioni attraverso le quali esprimiamo noi stessi, e diamo corpo a ciò che ab-biamo imparato e compreso. Il movimento in utero ci dà per la prima volta il senso del mondo, nonché l’esperienza e una prima conoscenza della legge di gravità. I movimenti ritmici del camminare di nostra madre, prima e dopo la nascita; i ritmi del suo respiro e del battito cardiaco, il suo dondolio, tutto contribuisce a stabilire schemi

coerenti che ci aiutano a comprendere le strutture stesse del linguaggio, della matemati-ca, delle scienze naturali. Ci affidiamo al movimento per dar forma alla nostra capacità visiva, per esplorare i contorni del mondo che ci circonda, e per interagire con le perso-ne e le forze attorno a noi.

Il corpo rappresenta per il bambino il mediatore privilegiato attraverso il quale entra in contatto con il mondo, la corretta percezione delle potenzialità e dei limiti del proprio corpo gli permette di controllare i suoi comportamenti e di affrontare incertezze e paure. Egli ha bisogno di scoprire le sue potenzialità in uno spazio ed in un tempo diverso dalla frenesia della routine familiare, dove spesso l’attività ludica è relegata al-l’ultimo modello di gioco tecnologico; ha bisogno di scoprire che il suo corpo non è solo gioia di movimento, ma è anche emozione e sentimento, è occasione per interagi-re e conosceinteragi-re gli altri.

Impresso nella memoria muscolare della nostra struttura corporea non c’è solo il sapersi sedere, alzare in piedi, camminare o correre, ma anche la percezione di dove ci troviamo nello spazio, e di come muoverci con grazia e sensatezza, frutto di anni di esperienza motoria, iniziata con gesti goffi e scoordinati, che si è andata via via rifinen-do.

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Molti di noi hanno una tendenza particolare a pensare meglio e più liberamente se sono impegnati in un'attività fisica ripetitiva, e che richieda poca concentrazione. Non a caso l'uomo che per riflettere cammina su e giù per una stanza è una rappresenta-zione iconica frequente nel caso di dilemmi da risolvere.

Il moto aiuta anche a scaricare le tensioni, lo stress, le emozioni negative, favo-risce la concentrazione e il rilassamento. Inoltre stimola la produzione di endorfine, neurotrasmettitori che hanno un effetto tonico, energetico e analgesico sull'organismo. Le endorfine hanno un'azione benefica anche sull'umore, perciò sono considerate come un ansiolitico o un anti-depressivo naturale. Infatti, durante uno sforzo fisico, ad esem-pio una corsa intensa, si prova una certa euforia, dovuta proprio alle endorfine. Anche per questo motivo fare movimento è consigliato dai medici, ma anche dagli psicologi, che ne evidenziano gli effetti benefici sul cervello. 1

Ma non finisce qua: l’acrobata, il ballerino, lo sportivo fanno restare a bocca aperta davanti alle loro prestazioni; guidano il corpo con maestria, esprimono le emo-zioni più nascoste con leggerezza, senza far scorgere la fatica, superano se stessi com-piendo gesti ritenuti impossibili. Ciò che affascina è la loro capacità di controllare il movimento, di trasformarlo in stupore, in arte, in un nuovo record. Il movimento umano non è solo risultato della forza o della capacità di resistere, della tensione del muscolo o dello sforzo della struttura, ma in primo luogo è elaborazione del cervello, decisione personale, espressione dell’intelligenza motoria, che si manifestano attraverso la miglio-re sinergia, il perfetto equilibrio e l’atteggiamento più funzionale.

Scoprendo con quali meccanismi il sistema nervoso, attraverso le strutture cen-trali e periferiche, apprende il movimento e lo governa, quali esperienze motorie pro-porre per implementare le sue potenzialità, come educarlo attraverso la percezione, la propriocezione e il controllo posturale, possiamo migliorare gli allenamenti che andia-mo ad eseguire o a proporre, in andia-modo da ottenere risultati sempre maggiori: per questo più avanti affronteremo il tema della metodologia di apprendimento . Le teorie più ag2

Si veda a titolo di esempio Dishman RK Medical psychology in exercise and sport.

1

The Medical Clinics of North America [1985, 69(1):123-143]

Vedi sottocapitolo 1.3 "Stili educativi e aspetti neuro-biologici dell'apprendimento"

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giornate, tanto in ambito riabilitativo e sportivo quanto preventivo, raccomandano a chi si occupa di movimento di dedicare almeno parte dell'allenamento alla percezione, alla propriocezione e alla postura. Ciò che emerge dalla ricerca motoria è che anche l’asp-etto automatico del movimento, nelle sue varie componenti, può essere allenato; date le scarse linee guida, lo sforzo dell'istruttore deve concentrarsi nell'individuare le modalità più adatte da applicare in quel contesto e per quel soggetto. 


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1.2 Perché fare sport?

Sui benefici dell'attività fisica sono stati scritti volumi su volumi, e ad oggi non si trova un singolo medico che non consigli di fare del regolare movimento. Special-mente nella fascia dei bambini e degli anziani l'attenzione per questo aspetto è cresciuta enormemente negli ultimi anni, tanto che, parlando con i genitori dei miei allievi, sento spesso affermare che il bambino qualcosa DEVE fare (riferendosi all'attività sportiva ovviamente); ed i comuni offrono ormai corsi gratuiti di ginnastica per anziani, in modo da prevenire svariate problematiche (dall'infarto, all'atrofia muscolare), il che dimostra quanto sia alta la sensibilità per questo aspetto. Tanto più che la vita dei giovanissimi è divenuta molto più sedentaria con l'avvento di smartphone, tablet e giochi elettronici vari, infatti circa il settanta per cento dei giovani allievi con cui ho a che fare non è ca-pace di eseguire una semplice capriola, scarseggiando enormemente sotto il profilo del-la coordinazione motoria.

Già dopo un mese o due di corsi, e tramite la ripetizione di percorsi motori come quello in foto, i risultati si iniziano a vedere distintamente; nonostante due o, nel miglio-re dei casi, tmiglio-re omiglio-re a settimana di attività non possano famiglio-re miracoli nel combattemiglio-re uno stile di vita tendenzialmente poco attivo.

Oltre alla coordinazione motoria i benefici che si traggono spaziano su svariati ambiti: si prevengono malattie cardiovascolari, si migliora l'umore, si combatte l'obesi-tà, si acquisiscono sicurezza ed autostima. Per questi ultimi due aspetti le arti marziali sono poi particolarmente indicate , come vedremo meglio più avanti, in quanto la capa3

-cità di sapersi difendere mette il soggetto nella condizione di non vedere se stesso come una vittima o una facile preda. Specialmente chi intraprende un percorso agonistico, e si abitua quindi ad un confronto diretto con gli altri, apprende quella forma mentis utile a ricercare sempre il perfezionamento di se stesso e dei suoi risultati, ed a capire di avere valore e potenzialità, perfino nella sconfitta, se ciò che ha fatto lo ha portato ad essere un po' più bravo rispetto al se stesso di un giorno, un mese, o un'anno prima.

Vedi Capitolo terzo: Benefici neurofisiologici, affettivi, emozionali e cognitivi

3

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Non di poco conto è infine l'aspetto di aggregazione sociale che lo sport garanti-sce: nonostante il Karate sia uno sport tendenzialmente individuale (seppur esistano an-che competizioni a squadre di tre membri, le quali rappresentano però un aspetto estre-mamente minoritario di questa arte marziale), i momenti di aggregazione non mancano, o meglio, si possono creare con facilità. Nella fase di riscaldamento e gioco iniziale è possibile inserire attività o mini competizioni fisiche da fare in gruppo; gli stessi percor-si motori possono essere strutturati in modo da permettere a due squadre di correre in

parallelo e far dare il cambio tra i loro componenti una volta concluso il tragitto, compe-tendo così in velocità di esecuzione.

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Questo vale come buon esempio, ma le possibilità sono svariate, e se l'allenatore manca di fantasia può facilmente trovare un'enorme sezione di giochi di gruppo in rete.

Ho notato che le coppie o i piccoli gruppi tendono a cristallizzarsi, riproponen-dosi sempre uguali ad ogni richiesta di formazione dell'insegnante. Se da una parte è un bene perché mostra che veramente si è creato un legame tra i componenti, dall'altra permette una scarsa varietà di interazione. Personalmente inizio lasciando decidere ai bambini i gruppi di lavoro, mentre dopo qualche minuto chiedo di mischiarsi tra loro, in modo da cercare una maggiore interconoscenza di gruppo. Altre volte ancora sono tutti i bambini che devono lavorare insieme, magari in giochi dove in gruppo devono superare prove a cui il tecnico di turno li sottopone.

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1.3 Stili educativi e aspetti neuro-biologici

dell'apprendimen-to:

Prima di affrontare quelli che sono gli aspetti puramente tecnico-metodologici della pratica del karate, voglio andare ad analizzare quello che è la base del rapporto educativo tra bambini e genitori. Nonostante l'insegnante di arti marziali non sia neces-sariamente il padre del bambino che ha di fronte in quel momento, le dinamiche di rap-porto sono molto simili; per questo motivo pongo adesso un'equivalenza semantica tra insegnate e genitore che manterrò per tutto il capitolo.

Per "stile genitoriale" si intende la modalità educativa e accudente con cui i ge-nitori svolgono le funzioni gege-nitoriali (affettiva, protettiva, regolativa, empatica) e, in generale, si rapportano ai propri figli. Oggi, si parla anche di "clima educativo". Lo sti4

-le pertanto orienta la costruzione della relazione con i figli e influenza il loro sviluppo. Ogni tipologia di stile può essere letta attraverso le seguenti dimensioni: control-lo, affetto e comunicazione. Uno stile genitoriale efficace è in equilibrio tra le dimen-sioni dell'elevata accettazione (affetto) e di un alto controllo (richiesta di disciplina) del figlio. Se un genitore dice sempre "sì" (elevata accettazione – scarso controllo) creerà un onnipotente incapace di tollerare le frustrazioni. Se, viceversa, dice sempre "no" (bassa accettazione – alto controllo) creerà un infelice incapace di provare piacere e gioia.

Tra i modelli più noti che descrivono gli stili genitoriali vi è quello proposto da Diana Baumrind negli anni '70. Questo modello delinea quattro diversi stili: autoritario, 5

permissivo, trascurante/rifiutante, autorevole.

Lo stile autoritario prevede un elevato controllo ed una scarsa accettazione del bambino. Il genitore che adotta questo stile: pretende l'obbedienza e non dà

Tratto dall'articolo "Stili genitoriali a confronto", rivista online Mentesana, 12 gennaio 2016 - a cura di

4

Viviana Bassan, Psicologa e Psicoterapeuta

Diana Baumrind, psicologa dello sviluppo ed autrice di Effects of authoritative parental control on child

5

behavior. Originale scaricabile all'indirizzo https://www.google.it/url?

sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=5&ved=0ahUKEwiKr62i7JbRAhUJUhQKHZyoBQAQFg-g9MAQ&url=http%3A%2F%2Fpersweb.wabash.edu%2Ffacstaff%2Fhortonr%2Farticles%2520for %2520class%2Fbaumrind.pdf&usg=AFQjCNGDbx35XMlyN1rZpy_K0848kvuk_g&cad=rja

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spiegazioni sulle proprie decisioni (regole assolute), è inflessibile e distaccato, usa inti-midazioni e punizioni come unica forma di controllo, raramente loda o apprezza, espri-me valutazioni e giudizi, esige rispetto per la tradizione e il duro lavoro, non accetta il figlio per quello che è e pertanto tenta di plasmarlo a seconda di un suo ideale,

scoraggia il dialogo ed una comunicazione a due vie. Il figlio che subisce uno stile auto-ritario potrebbe tendere al ritiro sociale, a stati ansiosi, alla frustrazione, ad una bassa autostima; potrebbe avere un comportamento estremamente ubbidiente e

diligente, ma poco affettuoso e spontaneo. Le femmine solitamente sviluppano atteg-giamenti di dipendenza e dimostrano poca motivazione rispetto agli obiettivi. I maschi possono manifestare tendenze aggressive e provocatorie nei confronti dell'altro, dando origine a problemi di condotta e sociali.

Lo stile permissivo è caratterizzato da un'elevata accettazione ed uno scarso con-trollo (accentuato permissivismo).

Il genitore che adotta questo stile è centrato sul bambino, è affettuoso e lo accet-ta per quello che è, non lo guida nelle sue scelte e non si sente responsabile di correg-gerle, non è severo e non pretende nulla dal figlio, si dimostra poco coerente sulla disci-plina fornendo poche regole o talvolta nessuna, non punisce, consulta il bambino sulle decisioni da prendere e soddisfa ogni suo desiderio anche se privo di senso. Un figlio che respira un clima educativo estremamente permissivo potrebbe presentarsi come un bambino positivo e vitale nell'umore, ma immaturo e carente nell'autocontrollo, nella responsabilità sociale e nella fiducia in se stesso; potrebbe considerare il genitore privo di interesse nei suoi confronti e pertanto sentirsi privo di sostegno nei momenti difficili; può, inoltre, manifestare comportamenti aggressivi per suscitare una risposta di fermez-za contenitiva da parte dell'adulto.

Lo stile caratterizzato da una scarsa accettazione ed uno scarso controllo viene definito trascurante/rifiutante. Un genitore dallo stile trascurante denota un totale disim-pegno nella relazione educativa: non controlla i figli, non chiede loro nulla,

fornisce pochi strumenti di comprensione del mondo e delle regole, non sostiene né dà affetto, non sente responsabilità educative, si preoccupa esclusivamente delle proprie attività, evita la comunicazione a due vie e non tiene conto delle opinioni e dei

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senti-menti del bambino. In questo caso, un figlio potrebbe essere a rischio di comportasenti-menti devianti: scarso controllo su impulsi ed emozioni, assunzione di droghe e carente inte-resse per la scuola (tendenza a fare assenze ingiustificate o ad isolarsi, avere difficoltà di concentrazione).

Un'elevata accettazione ed un elevato controllo definiscono, infine, lo stile auto-revole. Un genitore "autorevole": ha un'idea chiara del tipo di disciplina (regole), con-trolla i figli e richiede risultati, rispetta i desideri del bambino, favorisce gli scambi ver-bali, sollecita le opinioni e i sentimenti del figlio (reciprocità), manifesta affetto e calo-re, si aspetta che il figlio si comporti intellettualmente e socialmente a livelli coerenti con la sua età e le sue capacità, dà spiegazioni per le decisioni che assume, si pone al-l'interno di una relazione asimmetrica, mostra i suoi sentimenti in modo autentico, si interroga circa i messaggi veicolati da taluni comportamenti, accetta incondizionata-mente il figlio, ma non sempre approva i suoi comportamenti, ascolta il figlio con em-patia valorizzando le sue parole, i suoi sentimenti, le sue esperienze e senza sostituirsi a lui, manifesta stima e fiducia verso sé e verso il figlio, sa essere assertivo. Il figlio, in tal caso, potrebbe dimostrarsi competente, interessato, indipendente, assertivo, propositivo, amichevole con i coetanei, cooperativo con i genitori, motivato nei confronti dei risulta-ti da raggiungere; potrebbe avere più possibilità di sviluppare un senso cririsulta-tico, una buo-na autostima, un senso di sicurezza e buone capacità di adattamento.

Lo stile autorevole è pertanto correlato ad esiti sociali più adattivi, e inoltre, pone l'accento sull'importanza di dare dei limiti, attraverso le regole, al bambino. I limiti possono rappresentare delle restrizioni e mandare il bambino su tutte le furie, ma sono anche dei "cancelli", che proteggono e fanno sentire al sicuro. I limiti aiutano a

sviluppare le proprie risorse e a tollerare la frustrazione. Il genitore che, con le migliori intenzioni, cerca di risparmiare al figlio qualsiasi sofferenza, potrebbe privarlo dell'op-portunità di sviluppare degli strumenti per far fronte alle difficoltà. E' importante, infat-ti, che i bambini abbiano una visione realistica di quello che possono/riescono e non possono/non riescono fare. La frustrazione stimola il bambino a fare uso delle proprie risorse, purché naturalmente il "no" sia ragionevole e non generi disperazione.

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Il sentirsi dire di "no" da parte di genitori autorevoli, permette al figlio di sentire il limi-te senza aver paura che il rapporto venga pregiudicato. La capacità del genitore di "dire di no", insegnerà al figlio il coraggio di "dire di no" a sua vola, a richieste che

considerano sbagliate, inopportune, scorrette, generando in lui una capacità di auto pro-tezione.

Dare limiti con uno stile autorevole significa esprimere le regole:

- attraverso un elenco di priorità e di flessibilità e che ne contenga un numero limitato; - in modo prevalentemente positivo, dando meno divieti ("Non...") e più permessi ("Puoi..."), dato che i divieti espressi al negativo innescano maggiormente la dinamica della "tentazione";

-con dolcezza, fermezza e sintesi, senza attribuzioni negative sul bambino ("Sei il solito...assomigli proprio a...) e solo contenendo le informazioni pertinenti;

- fornendo indicazioni concrete e non concetti astratti, ad esempio, "Devi essere più buono... cosa significa BONTA'? "Essere buono significa prestare i giochi..." - "Rispetta la nonna... cosa significa RISPETTO? "Quando arriva la nonna, aprile la porta e falla accomodare..." - "Tieni in ordine la stanza... cosa significa ORDINE? "Quando hai fini-to di giocare, metti le macchinine nel contenifini-tore verde...";

- nei momenti piacevoli, quando si sta bene e non solo quando c'è un comportamento negativo, che rende la percezione della regola sempre sgradevole;

- con coerenza, nonostante gli stili diversi dei genitori (al di là delle differenze indivi-duali tra mamma e papà, ogni famiglia dovrebbe avere una serie di regole definite in modo chiaro e a cui tutti i membri si riferiscono).

Come ogni modello, anche quello sugli stili genitoriali presenta alcune criticità. Innanzitutto, lo stile viene spesso letto tramite una prospettiva individualistica, che, ritenendolo un tratto specifico della personalità dell'individuo, tende a dare una scarsa considerazione dei rapporti con il contesto, le ideologie, le preferenze culturali, i fattori abitativi e socioeconomici.

Lo stile, infatti, può essere influenzato da cambiamenti in base: - all'età del figlio (ad es., in adolescenza spesso aumenta il controllo);

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- alle transizioni familiari (ad es., la nascita di un secondo figlio può modificare uno sti-le condotto fino ad allora);

- agli eventi (ad es., nel caso di un lutto o di una separazione, alcuni genitori tendono a modificare il proprio stile).

Lo stile genitoriale, infine, può essere influenzato da altri fattori quali:

- la risposta del figlio (ad es., un adolescente ribelle potrebbe indurre nei genitori più risposte punitive);

- la qualità delle relazioni che il genitore intrattiene con gli altri membri del sistema fa-miglia (differenze negli stili tra mamma e papà o tra genitori e nonni);

- l'ambiente (ad es., vivere in un quartiere a rischio o essere una madre sola possono in-durre a un maggiore controllo);

- il momento storico-culturale (ad es., lo stile educativo prevalente durante una guerra può essere quello autoritario; gli anni '60-'70 sono stati caratterizzati da uno stile mag-giormente permissivo).

Questa parte sugli stili educativi è utile per comprendere quelle che sono le di-namiche di sviluppo psicologico di un bambino correlate al metodo usato da chi ha l'incarico di educarlo. Trovo che chiunque si approcci all'educazione di un bambino do-vrebbe conoscere questi meccanismi, in modo di ponderare le sue azioni, finalizzandole al miglior risultato possibile.

Lasciando da parte il piano psicologico andrò adesso a porre l'accento sugli aspetti più propriamente biologici dell'allenamento consiste nel mettere piano piano il corpo nella condizione di eseguire un certo gesto in modo sempre migliore; in questo senso si attivano due meccanismi: uno è puramente muscolare, nell'altro intervengono invece meccanismi di tipo neurologico. Il primo è chiamato super compensazione, o reazione che eccede l'azione, e fa sì che quando un distretto muscolare si affatica il cor-po invii attraverso il sangue materiale per incrementare la capacità fisica, e quindi cor-poter far meglio fronte in futuro allo stesso lavoro. Questo principio è anche alla base del cal-lo osseo per esempio, e spiega perché chi, nella pratica delle arti marziali, si abitua a colpire con le prime due nocche un bersaglio, col tempo vedrà un aumento della dimen-sione delle stesse.

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Per quanto riguarda il secondo tipo di meccanismo esso si identifica con la capa-cità acquisita attraverso la ripetizione costante di sequenze ed azioni, di eseguire le

stes-se azioni in maniera automatica, riducendo al minimo il bisogno di esstes-sere vigili durante l'esecuzione.

Questo sembra esser possibile grazie anche al sistema dopaminergico, il quale permetterebbe la plasticità necessaria all'apprendimento . In questo modo l'imput neu6

-ronale si fisserebbe, permettendoci di ripetere il gesto il modo semplice. Per fare un esempio possiamo pensare alla scrittura: da bambini, mentre imparavamo a scrivere, dovevamo concentrarci molto per disegnare correttamente le lettere, successivamente, una volta che gli stimoli del nostro cervello si sono fissati, siamo divenuti capaci di compiere la stessa azione senza nessuno sforzo cognitivo.

Sheynikhovich, Otani, Arleo; Dopaminergic Control of Long-Term Depression/Long-TermPo

6

-tentiation Threshold in Prefrontal Cortex. 13914 • The Journal of Neuroscience, August 21,

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Allo stesso modo si imparano anche esercizi molto più complessi, i quali riguar-dano contemporaneamente distretti fisici lontani, che per potersi coordinare richiedono inizialmente un elevato grado di concentrazione.

Dibattuto è ancora il ruolo dei neuroni specchio in questo processo: questi sa-rebbero cellule neurali che si attivano nel momento in cui si veda un certo tipo di mo-vimento o lo si riproduca; nonostante i dati non siano schiaccianti i loro scopritori e se-guaci condividono l'idea che queste particolari cellule nervose permettano la compren-sione e l'analisi di un gesto osservato , in modo che esso sia poi più facilmente riprodu7

-cibile, vedendo addirittura questo meccanismo come alla base dell'evoluzione . Senza 8

entrare nel merito dell'ultima spinosa questione, nel successivo sottocapitolo mi limiterò a spiegare che cosa sono questi neuroni. 


Rizzolatti, Fadiga, Gallese Fogassi, Premotor cortex and the recognition of motor actions, Cognitive

7

brain reserch 3 (1996) 131-141.

http://williamlspencer.com/mirrorneurons.pdf

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1.4 I neuroni specchio e, il loro possibile ruolo

nell'allenamen-to

L’uomo è un animale eminentemente sociale, la cui vita dipende dalla capacità di capire cosa fanno gli altri, comprendendone le intenzioni e interpretandone i senti-menti. Senza questa capacità gli esseri umani non riuscirebbero a interagire gli uni con gli altri, né tanto meno a creare forme di convivenza sociale.

Secondo il punto di vista tradizionale, le azioni degli altri, come pure le loro in-tenzioni e le loro emozioni, sono comprese mediante un processo inferenziale sostan-zialmente simile a quello che usiamo per individuare le cause di fenomeni puramente fisici. In base a questo punto di vista, quando osserviamo una persona agire, il nostro sistema nervoso capta, mediante la vista e le altre modalità sensoriali, una serie di in-formazioni che un complesso apparato cognitivo elabora e paragona con precedenti esperienze simili. Alla fine di questo processo l’osservatore ha capito cosa fanno gli altri e quali sono le loro intenzioni. Diversa è invece la teoria secondo la quale il meccani-smo che ci permette di capire le azioni degli altri è radicalmente diverso da quelli im-piegati per spiegare i processi fisici. Secondo questa impostazione, noi capiamo gli altri perché ci mettiamo ‘nei loro panni’, ci immaginiamo nella loro situazione e ‘simuliamo’ quello che faremmo se davvero fossimo in quel frangente. Volendo fare un paragone tra i due sistemi di comprensione sopra richiamati, potremmo dire che il primo ricalca l’atteggiamento tipico del detective (pensiamo, per es., alle sottili analisi di uno Sher-lock Holmes), mentre il secondo rimanda alla comprensione in prima persona cara a molti fenomenologi. È possibile che, in certe condizioni, l’osservatore adotti effettiva-mente un atteggiamento alla Sherlock Holmes. Così come è possibile che in altre condi-zioni adotti un atteggiamento simulativo. Tuttavia, la mancanza di sforzo e la facilità con le quali normalmente viene compreso il comportamento degli altri suggeriscono che possa esistere un diverso meccanismo, indubbiamente più diretto e immediato di quelli citati, che ci permetterebbe di capire gli altri senza la mediazione di processi inferenziali o la simulazione attiva del comportamento altrui. Un’importante scoperta

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neurofisiolo-gica avvenuta negli anni Novanta del 20° sec. ha messo in luce l’esistenza di un tale meccanismo di comprensione, grazie al quale le azioni eseguite dagli altri, captate dai sistemi sensoriali, sono automaticamente trasferite al sistema motorio dell’osservatore, permettendogli così di avere una copia motoria del comportamento osservato, quasi fos-se lui stesso a efos-seguirlo. I neuroni che compiono questa trasformazione dell’azione da un formato sensoriale a uno motorio sono stati chiamati neuroni specchio.

La loro scoperta ha reso possibile una nuova concezione del sistema motorio, aprendo inoltre la via all’indagine neurofisiologica di campi prima appannaggio esclu-sivo di discipline umanistiche.

I neuroni specchio sono stati originariamente scoperti nella corteccia premotoria ventrale del macaco, una specie, come l’uomo, eminentemente sociale. Essi formano una particolare classe di cellule nervose che si attivano sia quando la scimmia esegue uno specifico atto motorio, per es. afferrare un pezzo di cibo, sia quando essa osserva un altro individuo (scimmia o uomo) eseguire un atto motorio identico o simile.

Questi neuroni non rispondono alla semplice presentazione del cibo o di altri oggetti che pure interessano l’animale, né si attivano all’osservazione di un’azione mi-mata senza la presenza dell’oggetto. Affinché il neurone specchio si attivi (o, per ri-prendere un’espressione usata spesso in fisiologia, "spari") è necessaria l’effettiva inte-razione della mano con un oggetto bersaglio dell’azione . 9

È lecito chiedersi perché il sistema motorio contenga neuroni che rispondono alla visione di atti motori eseguiti da altri e quale possa essere la loro funzione. L’ipotesi proposta dai loro scopritori è che i neuroni specchio sono necessari per una compren-sione immediata dell’azione altrui. Per avere un’idea del meccanismo neurofisiologico alla base di questa comprensione si consideri l’esempio seguente. Un individuo, ponia-mo che si chiami Mario, afferra una tazzina di caffè. Quando compie quest’azione Ma-rio sa cosa sta facendo. Tale sua conoscenza corrisponde all’attivazione di una serie di neuroni motori che preparano l’atto dell’afferrare la tazzina. Quando Mario osserva Anna che afferra una tazzina, gli stessi neuroni motori che si sono attivati durante l’atto

G. Rizzolatti, L. Craighero, The mirror-neuron system, «Annual review of neuroscience», 2004, 27, pp.

9

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motorio di Mario si attivano di nuovo, dando così a quest’ultimo la rappresentazione motoria (detta anche atto motorio potenziale) dell’atto compiuto da Anna. Mario quindi capisce cosa Anna sta facendo perché l’atto motorio potenziale generato dall’osserva-zione di Anna

corrisponde a quello che Mario genera volontariamente quando prepara o esegue lo stesso atto. Ecco in breve il meccanismo specchio.

Un interessante problema è il rapporto tra conoscenze motorie degli individui e sistema specchio. Gli atti motori maggiormente rappresentati nel sistema specchio sono quelli compiuti più di frequente dall’osservatore? Questo sistema è modificabile nell’a-dulto con tipi di esercizi motori specifici? Alcune indagini di fMRI (risonanza magneti-ca funzionale) hanno di recente affrontato questi problemi. In un recente studio è stata 10

esaminata l’intensità di attivazione del sistema specchio in ballerini di danza classica, in esperti di capoeira e in persone che non avevano mai danzato. Lo scopo dell’esperimen-to era quello di stabilire se le aree cerebrali di pertinenza del sistema specchio si attiva-vano in maniera diversa secondo l’esperienza nella danza dei vari individui. I risultati hanno mostrato che l’osservazione di passi di capoeira attiva il sistema dei neuroni specchio maggiormente negli esperti di capoeira rispetto ai ballerini classici e ai princi-pianti. Viceversa, l’attivazione nei ballerini classici era maggiore quando osservavano un balletto classico rispetto alla capoeira. Ci si è inoltre chiesti se la differenza nell’atti-vazione nei tre gruppi dipendesse dal fatto che gli esperti di capoeira avessero una mag-giore esperienza visiva di questa disciplina o se, invece, l’attivazione dipendesse dalla loro conoscenza motoria dei vari passi richiesti. Nella capoeira alcuni passi sono esegui-ti sia da uomini sia da donne, mentre altri sono eseguiesegui-ti solo da uomini o solo da donne.

Partendo da questa osservazione sono stati presentati, durante un esperimento di fMRI, filmati di passi di danza eseguiti da ballerini e da ballerine. I risultati hanno mo-strato che il sistema specchio si attivava di più quando i ballerini osservavano passi di danza eseguiti da individui dello stesso sesso. È quindi la conoscenza motoria e non l’esperienza visiva che rappresenta il fattore principale responsabile dell’attivazione del sistema specchio.

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano 2006.

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E' stata poi esaminata, settimana per settimana, la relazione tra l’apprendimento dei passi di danza e l’intensità dell’attivazione del sistema specchio. I risultati hanno dimostrato che a mano a mano che i ballerini imparavano i passi di danza vi era un in-cremento dell’attivazione del loro sistema specchio e che questo era in relazione

con le capacità da parte dei ballerini di eseguirli.

Il sistema specchio codifica dunque gli atti motori compiuti da altri su quelli propri del patrimonio motorio dell’osservatore, e più questo è sviluppato più il sistema diventa efficace.

Diventa a questo punto facile capire come grazie a questi pattern neurali sia pos-sibile l'apprendimento per imitazione, anche se esso avviene mediante un meccanismo più complesso: durante l’apprendimento per imitazione oltre al sistema

specchio si attiva, infatti, anche il lobo prefrontale e, in particolare, l’area 46, nota per essere coinvolta nella memoria di lavoro. Il meccanismo di base dell’apprendimento per imitazione sarebbe il seguente. Il sistema specchio trasforma gli atti motori elementari osservati da un formato visivo in un formato motorio. Gli atti motori codificati in questo formato raggiungono il lobo prefrontale che li combina nel pattern motorio desiderato. Questo nuovo pattern motorio viene quindi ritrasmesso al sistema specchio per la sua esecuzione. 11

Da quel che ho osservato in questi diciassette anni di pratica posso dire che per un atleta la visione del gesto da compiere, e la ripetizione mentale dello stesso, sono di enorme aiuto: è molto più facile riprodurre un movimento se prima lo si è visto esegui-re, e maggiore è il numero di volte in cui il movimento è osservato maggiore è la possi-bilità di ripeterlo correttamente; quindi credo del tutto sensato che vi siano delle cellule cerebrali addette all'immagazzinamento della visione di un'azione, con il fine della suc-cessiva riproduzione. Molti maestri chiedono infatti ai propri allievi, prima di fare ciò che dovranno fare, di visualizzare e concentrarsi sui dettagli del gesto, e devo dire che anche io ho sempre trovato beneficio in questo tipo di pratica preparatoria.

M. Fabbri-Destro, G. Rizzolatti, The mirror system in monkeys and humans, «Physiology», 2008, 23,

11

(24)

se anche l'ipotesi dei neuroni specchio non fosse corroborata da dati sperimentali resta il fatto che siamo animali che apprendono per imitazione, e per poter imitare dob-biamo poter vedere ed analizzare. È quindi utile che l'insegnate sappia mostrare il mo-vimento che vuol insegnare nel modo più preciso e corretto possibile, e se non è per qualche motivo in grado di farlo (età avanzata, problemi fisici o altri), potrà sfruttare i potenti mezzi tecnologici che il nostro mondo offre, come un banalissimo filmato.


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Capitolo secondo: Le arti marziali ed il Karate

Come brutalità gli uomini fanno già le guerre,gli artisti marziali non dovrebbero ricercare la brutalità, ma un'efficacia che sia unita alla bellezza, al saper cambiare, all'abilità di gestire forza e cedevolezza, Yin e Yang.

- Maestro Yuan Zumou

2.1 Un po' di storia:

Lasciando completamente da parte la storia dello sport in generale, tema che po-trebbe esser oggetto di una tesi a parte per la vastità della sua estensione temporale, an-drò a trattare quella specifica delle arti marziali.

Per quanto riguarda queste non esiste una storia certa sulle loro origini, mancan-za dovuta all'assoluta inconsistenmancan-za di documenti a riguardo; si sa però che le più anti-che (da cui poi si sono sviluppate tutte le altre di stampo asiatico) provengono dalla Cina e dall'India. Soprattutto in Cina esse hanno visto una grande evoluzione, legata alle guerre interne che hanno poi portando all'unificazione del paese nel 221a.C., non per nulla parliamo di arti marziali, termine che deriva da Marte, dio della guerra.

Ovviamente vi sono anche leggende che si fondono con la storia, come quella del monaco Bodhidarma, chiamato anche Daruma Taishi, Ta Mo, Da Mo o Dharma, se-condo cui intorno al V secolo quest'uomo avrebbe creato diversi esercizi ginnici che avevano il fine di rafforzare il fisico e la mente dei monaci buddisti, oltre all'ideazione di un sistema di regole che riassumevano i valori delle arti marziali, e da cui derivereb-be il Dojo Kun, di cui parlerò più avanti.

Un'altra leggenda riguarda un medico taoista chiamato Hua To, il quali verso il III secolo avrebbe iniziato ad osservare come si muovevano e combattevano gli animali, ideando degli esercizi ginnici basati sull'imitazione del comportamento della tigre, del

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cervo, della scimmia, dell'orso e della gru . Si racconta che anche questo studio contri12

-buì notevolmente allo sviluppo delle arti marziali, e che molti maestri lo utilizzarono come base del propio metodo di combattimento.

Per rendere l'idea della quantità di sistemi di combattimento esistenti al giorno d'oggi possiamo guardare anche solo al Giappone, dove la lista delle arti marziali ivi sviluppate è lunghissima, si parla di diverse decine.

Non potendo per ovvi motivi raccontare di tutte queste arti, mi concentrerò sulla storia del Karate.

Per prima cosa ci tengo a sottolineare che il Karate-sport è solo un concetto re-cente, come spiegavo poc'anzi esso è nato come sistema per difendersi ed uccidere: in origine ogni tecnica era eseguita come se dovesse procurare la morte a chi la subiva . 13

Dal momento in cui è stato deciso di esportare il Karate-Do nel mondo si sono resi ne-cessari degli addolcimenti, senza i quali la diffusione al vasto pubblico sarebbe risultata impensabile.

Oltre a ciò che ho appena scritto si deve considerare la durezza degli allenamenti a cui gli ochinawensi erano abituati: prendendo ad esempio la scuola di spada Jigen-ryu si scopre che l'allenamento principale è chiamato tategi-uchi, e consiste nel colpire con tutte le proprie forze il tronco di un albero, con un bastone di un metro e trenta circa, dopo una breve rincorsa, urlando come in guerra. Bisogna continuare a colpire l'albero fino all'esaurimento della respirazione, per poi ricominciare da capo l'esercizio. I colpi dovevano essere tremila al mattino e ottomila alla sera, tutti i giorni. Si racconta che quando i grandi adepti praticavano questo allenamento la violenza degli urti produceva del fumo. Non era difficile per questi guerrieri dividere letteralmente un uomo in due con un singolo colpo di spada.

E' ovvio che se si pensa di mettere un occidentale a colpire undicimila volte al giorno un albero con un bastone questo tornerà ad allearsi molto difficilmente già il se-condo giorno.

I famosi cinque animali di Hua Ho

12

Ovviamente nell'allenamento a coppie era praticato il controllo del colpo.

(27)

Tornando alla storia del Karate: esso nasce nell'arcipelago Ryūkyū, conosciuto anche come arcipelago di Okinawa (dal nome della sua isola maggiore), nel sud del Giappone; come ho già detto non esistono documenti che ci permettano di tracciarne una evoluzione esatta, in più le forme di combattimento erano tramandate in segreto dalle famiglie nobiliari al solo primogenito maschio, all'insaputa perfino degli altri membri della famiglia, quindi la storia che conosciamo si basa su indizi e frammenti, la cui migliore ricostruzione, a mio modesto avviso, è quella di Kenji Tokitsu . La cosa 14

più probabile è che sia avvenuta una rielaborazione delle tecniche di combattimento ci-nesi insegnate dalle ambascerie militari a partire dal 1372, anno in cui l'imperatore cine-se iniziò a conferire il titolo di re al governante dell'arcipelago, inviando una delegazio-ne, civile e militare, che rimaneva nella capitale per diversi mesi.

Secondo il maestro Funakoshi , la spinta decisiva alla creazione di un sistema 15

di combattimento codificato è arrivata con la seconda proibizione delle armi avvenuta nel XVII secolo . Nonostante l'esistenza di varie versioni dei fatti un dato abbastanza 16

solido è che nel XIX secolo a Okinawa iniziarono a distinguersi tre diversi metodi di combattimento, appartenenti a tre diverse città dell'isola: Naha, Shuri e Tomari, in cui fiorirono rispettivamente il Naha-te, lo Shuri-te, ed il Tomari-te . Dalla fusione ed evo17

-luzione di questi stili più antichi nacque quello che chiamiamo Karate, diviso tra gli sva-riatissimi stili moderni, nati in base ai maestri che hanno tramandato l'arte eseguendo personali modifiche. 18

Alcuni di questi stili sono rimasti confinati nell'arcipelago di origine, mentre al-tri sono ormai praticati in tutto il mondo, con un numero di adepti davvero notevole:

Autore di Storia del Karate, la via della mano vuota, Luni editrice, Parigi, 1993

14

Funakoshi, Gichin. Karate-dp nyumon. Il testo fondamentale del Maestro Funakoshi. Roma

15

1988/1999, Edizioni Mediterranee.

La prima era stata bandita all'inizio del XV secolo

16

La parola "te", significa "mano"

17

La storia dell'evoluzione del Karate-do è molto più complessa, ma per ragioni di spazio ed utilità all'in

18

(28)

secondo una ricerca americana nel 2010 il numero di karateka statunitensi era di 18.1 milioni. 19

Pur non avendo dati statistici ufficiali, posso dire che quando ho iniziato a fre-quentare un Dojo, nel febbraio del 2000, i bambini che partecipavano alle lezioni erano sì e no una decina, ed in tutta la mia scuola elementare oltre a me c'era solo un altro bambino che faceva Karate. Ad oggi nella mia palestra ci sono quaranta bambini che frequentano regolarmente i corsi, ed avendo iniziato l'attività di insegnamento solo da quattro anni non siamo ancora completamente conosciuti sul territorio.

Dalle testimonianze che ho raccolto parlando con vari insegnanti di Karate posso affermare che il mio non è un caso caso isolato, nella coscienza comune le arti marziali vengono sempre più viste come un'ottima scelta per i figli.

Non so se mai un giorno diventeranno tanto popolari quanto gli sport classici (calcio, basket o pallavolo), forse no, ma sicuramente la tendenza è molto positiva.

(http://mainemartialarts.com/martial-arts/martial-arts-statistics-demographics-people-practice/).

(29)

2.2 Dall'arte all'arte marziale

"L'arte è espressione della vita e trascende il tempo e lo spazio" 20

Così parlava dell'arte Bruce Lee; e molti altri di arte hanno parlato, tentando di definirla senza troppo successo, da Platone a Nietzsche.

Cercare di spiegare un'opera d'arte, o il messaggio in essa racchiuso, diventa spesso un abuso: l'arte è una condizione esistenziale, un accesso alla vita e al mondo che nessun creatore ha scelto. Creare non è sempre un atto di volontà, artisti si nasce, ed inevitabile è comunicare ciò che si conosce ad altri uomini: perché tutti possano accede-re al mondo altro che tale condizione fa balenaaccede-re per un istante agli occhi di chi, miraco-losamente, partecipa al farsi delle cose. Nietzsche afferma infatti "[...] solo come feno-meni estetici l'esistenza ed il mondo sono eternamente giustificati [...]" "[nel momento della creazione l'artista] è miracolosamente simile all'inquietante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e vedere se stessa; in tal caso egli è contemporaneamente sog-getto ed ogsog-getto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore" 21

Arthur Rimbaud , che in quanto artista può dire a buon diritto cosa sia l'atto del 22

creare, definisce il poeta come colui che guarda se stesso agire, e con un colpo d'archite-tto disegna la musica del mondo:

"Perché io è un altro. Se l'ottone si sveglia tromba, non è certo colpa sua. Ciò mi è evi-dente: assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardò, l'ascolto: lancio un colpo d'architetto: la sinfonia si agita nelle profondità, e viene con un balzo sulla scena." 23

Lee B., 1975/1993: 14

20

Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1872

21

Poeta francese vissuto tra il 1854 ed il 1891.

22

Rimbaud, lettere a Paul Demeny, 15 maggio 1871.

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L'io sociale, biografico, soltanto umano dell'artista, esiste, ma è l'io altro, l'io creatore che a svegliarsi tromba: il che equivale a dire che la facoltà estetica dell'artista non dipende dalla sua volontà.

L'arte marziale si differenzia quindi ovviamente dal puro combattimento, anche se esso è parte dell'arte marziale: vi sono infatti più forme di lotta, alcune delle quali hanno ben poco di artistico (si pensi ad una rissa per strada), mentre altre fondano sul-l'estetica o sul cerimoniale buona parte del loro spirito (la Capoeira è ben esplicativa del concetto), infine ce ne sono svariatissime altre in cui l'arte è espressa dalla minuziosa ricerca della perfezione del gesto. Quest'ultima categoria, a cui anche il Karate appartie-ne, richiede al praticante di dedicare il suo allenamento e la sua vita al raggiungimento di un obbiettivo impossibile, quale appunto è la perfezione. Nonostante questo scopo sia irraggiungibile, la pratica permette di avvicinarvisi sempre un poco di più, ed ogni volta che il marzialista mette a posto un problema o corregge un difetto, se è davvero una per-sona che ama ciò che fa, ne trae una gioia indescrivibile, una sensazione di stupore e meraviglia. Anche un profano può immaginare, anche se forse non comprendere del tut-to, cosa possa significare scoprire, dopo anni ed anni, che un movimento o una tecnica riesce meglio se si fa una piccola variazione al posto giusto: è come dissotterrare un te-soro cercato da lunghissimo tempo, con la consapevolezza che di tesori uguali se ne po-tranno trovare altri, e che ogni volta la gioia sarà la stessa.

Questo tipo di bellezza trascende l'estetica, è qualcosa di interiore che può essere apprezzato solo da chi quella sensazione la sta sperimentando; ma al contempo questa bellezza non si esaurisce all'individuo ed al momento presenti, ma può perpetuarsi nella trasmissione di ciò che si è appreso alle generazioni future di praticanti: come insegnate vedo che il mio stile (non semplicemente la scuola Shotokan da cui provengo, ma il mio stile personale di praticare Karate) viene assimilato e portato avanti, ed anche in questo gli anni di sudore e lacrime che ho seminato trovano nuova vita, nel gioioso fiore della tecnica degli allievi.

Tornando alla questione artistica: in quanto arte tentare di definire il karate-Do risulta impossibile; solo chi lo pratica sa cosa sia, è solo chi lo pratica partecipa in qual-che modo alla costruzione del suo significato. Il praticante non può essere

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completa-mente padrone del proprio agire e del significato di tale agire, poiché la conoscenza che egli possiede, e che raggiunge attraverso la pratica, può essere comunque solo un'intui-zione, e non assoluta conoscenza (discorso valido per qualunque arte marziale): la cono-scenza dell'arte implicherebbe una totale comprensione dei fatti, ma il Karate-Do è ap-punto una via, un percorso, una continua scoperta e riscoperta interiore tendente all'infi-nito. Ne deriva che colui che percorre questa via può solo intuirne il significato, anche se di tale significato contribuisce alla creazione. In questo senso, essendo diretta espe-rienza di ciò che è, e non potendo essere né espresso intellettualmente, né afferrato nep-pure dopo averne fatto esperienza, il Karate non può più essere inteso genericamente come arte, ma diventa arte zen. Come tale contenuto e forma si fondono, anima e corpo diventano inscindibili, il significato si trova nella gestualità del praticante e tale gestua-lità diventa l'essenza stessa dell'arte, perché inseparabile dal contenuto che veicola: il praticante è l'artista che diventa un uno-tutto con la propria arte, e il Karate-Do è arte in quanto espressione interiore del suo artista; un'arte che non si separa dal praticante, per-ché è un'arte che il praticante non può fare, ma soltanto essere.

(32)

2.3

Zen e guerrieri

La dottrina buddhista Zen si fonda, come lo stesso Buddismo Chán da cui stret-tamente deriva, sul rifiuto di riconoscere autorità alle scritture buddiste. Questo non 24

significa che lo Zen rigetti tali scritture, anzi, alcune di esse come il Sutra del Cuore, il

Vimalakīrti Nirdeśa Sūtra o lo Laṅkāvatārasūtra, sono spesso utilizzate durante le

fun-zioni religiose e nella formazione dei discepoli. L'unica autorità che il Buddhismo Zen riconosce, e su cui fonda il proprio insegnamento, è tuttavia la particolare esperienza che viene indicata come 悟 (satori o go, "Comprensione della Realtà") o anche 見性 (kenshō, "guardare la natura propria di Buddha" ovvero "attualizzare la propria natura 'illuminata'"). Questa esperienza non viene semplicemente identificata come "intuizio-ne", quanto piuttosto come una esperienza improvvisa e profonda che consente la "vi-sione del cuore delle cose", la quale risulta essere identica alla "natura di Buddha" (佛性

busshō). Tale "natura di Buddha" è la natura di tutta la realtà, del cosmo e del sé, e

cor-risponde alla stessa vacuità (空 kū). Collegate a tale dottrina è possibile trovare nume-rose pratiche appartenenti a campi eterogenei.

Origine e fondamento delle arti e della cultura, lo Zen ispirò la poesia (haiku), la cerimonia del tè (cha no yu o chadō), l'arte di disporre i fiori (ikebana), l'arte della calli-grafia (shodō), la pittura (zen-ga), il teatro (Nō), l'arte culinaria (zen-ryōri, shojin ryōri,

fucha ryōri) ed è alla base delle arti marziali, dell'arte della spada (kendō) e del tiro con

l'arco (kyūdō).

Il profondo legame tra le Arti Marziali e la filosofia Zen si è instaurato nel pe-riodo feudale giapponese; influenze filosofiche e religiose hanno da sempre permeato le arti marziali, ed il continuo confronto con la morte è sempre stato per il guerriero stimo-lo ad una profonda introspezione, che stimo-lo ha portato ad elaborare le proprie convinzioni religiose e filosofiche. Non di rado al termine della carriera, era possibile vedere il Sa-murai ritirarsi a vita monastica, quasi fosse una naturale conseguenza della propria ten-denza all'introspezione. Lo zen è stato infatti la concezione filosofico-religiosa che più

I così detti sutra

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si adattava alla mentalità pratica e stoica dei guerrieri, i quali ne sono forse i più degni rappresentanti.

Alla base del pensiero Zen vi è la convinzione della non permanenza delle cose, il continuo mutare della realtà al quale l'uomo deve armoniosamente adattarsi. Il vivere pienamente ogni istante della vita, l'immersione totale nel qui ed ora (l'hic et nunc dei latini), porta ad una profonda libertà interiore, completamente svincolata dalla sugge-stione del passato e del futuro, in realtà poco più che sogni. Ogni gesto della vita quoti-diana, anche quello che può sembrare il più insignificante, assume per il pensiero Zen un'importanza estrema, come manifestazione della vita e come strumento per la realiz-zazione del sé.

Questa filosofia di vita mostra come si possa raggiungere l'illuminazione attra-verso la consapevolezza del momento presente: concentrandosi sull'attimo che stiamo vivendo anche l'atto di pulire un pavimento o di lucidare uno specchio divengono stru-menti per pulire e lucidare la propria anima, eliminando tutte le ombre e le impurità create da paure ed illusioni, per riflettere chiaramente la realtà e viverla finalmente in maniera piena e matura. E' questo che insegna l'etichetta del Dojo.

Per comprendere ancora meglio la compenetrazione tra lotta e pace interiore vo-glio scrivere a proposito della cerimonia del Tè, molto diffusa tra i samurai ed eseguita anche prima di avventurarsi in battaglia. In questo speciale atto rituale si ricerca, attra-verso la ripetizione ed il perfezionamento dei gesti, una perfetta interiorizzazione spiri-tuale. La mente, svuotata dai condizionamenti esterni, è centrata su sé stessa e sul mo-mento irripetibile che sta vivendo e che non tornerà mai più. Ogni oggetto utilizzato, ogni gesto, diviene una manifestazione dell'unione tra individuo ed universo.

Prima di entrare tra le calme pareti della stanza del Tè, i samurai depositavano, cosa assai speciale e rara, le loro inseparabili spade all'ingresso (nota su katana e spirito del samurai). Coloro che si erano riuniti per la cerimonia accantonavano così, assieme alle loro spade, anche la ferocia del campo di battaglia, e così facendo si preparavano a rientrarvi.

Esiste una storia che parla di un Maestro della cerimonia giapponese del Tè, un uomo privo di abilità marziali ma di grande ricchezza spirituale e meditativa. Egli,

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sen-za volere, fece offesa ad un samurai di alto rango, e per questo fu sfidato a duello. Andò dal locale Maestro Zen per trovare consiglio. Il Maestro gli disse francamente che aveva poche probabilità di sopravvivere all'incontro, ma che poteva assicurarsi una morte ono-revole affrontando il combattimento come se fosse stato il rito formale della cerimonia del Tè : doveva raccogliere la propria mente, senza degnare di attenzione le chiacchie25

-re insignificanti sui pensieri di vita e di morte; doveva afferra-re la spada diritto davanti a sé, come avrebbe fatto col cucchiaio della cerimonia del Tè e, con la stessa precisione e concentrazione mentale con cui avrebbe versato l'acqua bollente, doveva avanzare, sen-za pensare alle conseguenze, e abbattere il suo avversario in un solo colpo. Il Maestro del Tè si preparò secondo le istruzioni, liberandosi da ogni paura di morte. Quando la mattina del duello giunse, il samurai, trovandosi di fronte l'assoluta calma e mancanza di paura dell'avversario, fu così colpito che abbandonò il combattimento.

Nella tradizione Buddista le pratiche preparatorie all'idea della morte sono viste come fortemente motivanti lungo il cammino; per questo sono essenziali: la coscienza della realtà e dell'inevitabilità della propria morte può essere un incredibile erogatore di energia, offrendo livelli insospettati di motivazione per cambiamenti radicali.

Anche nell'addestramento al Karate, come in quello di svariate arti marziali tra-dizionali, acquisendo padronanza del proprio corpo, della propria gestualità, si acquisi-scono un equilibrio ed una sicurezza interiori che sono misura del lavoro svolto. L'ese-cuzione corretta di un kata presuppone uno svuotamento emozionale che porti il kara26

-teka ad una completa immersione nell'azione, senza scollamenti spazio-temporali tra pensiero e gesto; a questo si arriva attraverso il perfezionamento derivante dalla ripeti-zione. Una volta che il gesto è stato assimilato, la mente lavora all'unisono con il corpo, senza esitazioni ed incertezze che sarebbero fatali in un combattimento reale. Lo spirito e l'energia del Karateka sono entrati in contatto, indirizzati potentemente nell'azione

Nella cultura feudale giapponese l'onore rappresentava un valore ancora più importante della vita: in

25

caso esso fosse offeso da qualcuno si arrivava molto spesso a duelli mortali. Nel caso invece di un grosso fallimento personale i samurai erano soliti togliersi la vita mediante una cerimonia rituale, chiamata Sep-puku. In questo modo si ristabiliva l'onore del guerriero.

I kata sono le forme base delle arti marziali, le quali sviluppano tecniche in varie direzioni e fungono

26

da mezzo di trasmissione e studio delle stesse. Sono definibili come "combattimenti reali contro avversari immaginari". Reali perché ogni tecnica deve essere eseguita come se fosse rivolta verso un vero avversa-rio, immaginari perché in quel momento il nostro nemico non è fisicamente davanti a noi.

(35)

senza che i movimenti del corpo permettano distrazioni, e tutto avviene in un armonico susseguirsi di contrazione e rilassamento.

Nel combattimento il confronto con l'altro è un confronto con sé stessi, con la propria abilità, ma prima ancora con la propria energia. Si affrontano paure ed incertez-ze, che irrigidiscono lo spirito e creano divario tra l'azione del corpo e della mente. Solo quando dominiamo noi stessi e siamo capaci di una profonda unione col tutto diventia-mo in grado di dominare anche gli avversari, come sottolinea il maestro Uesciba:

"Nella pratica, quando il tuo avversario sferra un colpo, devi già essere in mo-vimento. Dopo che l'hai visto muoversi, è già troppo tardi ed un falso movimento da parte tua è fuori luogo, perché il colpo del tuo avversario è quasi mortale. Muoversi si-multaneamente con il colpo; si deve sentire l'intenzione dell'avversario. Ma, in realtà, non è questione di usare la mente, ci si deve muovere naturalmente, senza pensarci. Quando raggiungerai questo stato, riuscirai a muoverti simultaneamente con l'ordine. Se pensi troppo all'inizio del colpo dell'avversario, non ti renderai conto dei suoi movimen-ti. Solo quando la tua mente è tranquilla come una pozza d'acqua e sei fisicamente all'er-ta, potrai renderti conto dei movimenti dell'avversario e della sua respirazione naturale. In questo stato sentirai i cambiamenti di sentimento del tuo avversario" 27

Dominare noi stessi significa anche saper analizzare con calma e fermezza la situazione in cui andiamo a coinvolgerci, senza agire tanto per farlo, come spiega il Maestro Fortunato:

"Nelle arti marziali, i guerrieri superficiali, vanno incontro alle loro guerre senza conoscerne le cause; questi vincono senza vincere e perdono senza perdere, non cono-scono e non vivono. I guerrieri profondi, invece, si dedicano a conoscere le cause reali che hanno creato il conflitto. Solo dopo aver analizzato bene ogni aspetto, potranno de-cidere con calma e razionalità se è possibile trovare una strategia per evitare la guerra, o se combattere fino alla fine senza esitazioni." 28

Una domanda che possiamo porci è: "in che modo questo tipo di filosofia può aiutarci quotidianamente?"

Morihei Ueshiba - Fondatore della disciplina dell'Aikido

27

Fortunato Giovanni, Supervisore Tecnico Regione Sicilia presso WKF: World Kickboxing Federation

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La risposta è in realtà molto semplice, e cercherò di arrivarci tramite una brevis-sima favola.

Un ragazzo riceve un cavallo come regalo per il suo compleanno. La gente del villaggio dice “Oh! Fantastico!” ma il maestro Zen dice “Vedremo”.

Il ragazzo cade da cavallo e si rompe una gamba. La gente del villaggio dice “Oh! Ter-ribile!” ma il maestro Zen dice “Vedremo”.

Scoppia una guerra e tutti i giovani devono partire ma, a causa della gamba rotta, il ra-gazzo resta a casa. Tutti esclamano “Oh! Fantastico!” ma il maestro Zen dice “Vedre-mo”

Nel mondo che ci circonda, da quello reale a quello virtuale, da quello della stampa a quello televisivo ascoltiamo grida, sentenze inappellabili, verità eterne, salvo che poco tempo dopo non accada qualcosa che rimetta tutto in discussione. Perché così funzionano le cose: sembra che l'evento X sia buono, finche non arriva qualche evento Y che lo trasforma in cattivo, o viceversa.

Dovremmo cercare di guardare oltre le apparenze, e non gioire o lamentarci im-mediatamente di quel che ci accade, perché la verità è che le conseguenze di qualcosa sono spesso imprevedibili alla luce della nostra mente.

Questo ovviamente non significa che ci si debba trasformare in gusci apatici, incapaci o nolenti di reazioni emotive, ma piuttosto che si debba sempre tenere presente l'effimeratezza delle cose, in modo anche da poterne godere maggiormente nell'attimo in cui esse sono presenti. Citando il film "Troy" : 29

"Ti dirò un segreto [Achille a Briseide], una cosa che non insegnano nei templi. Gli dei ci invidiano. Ci invidiano perché siamo mortali, perché ogni momento può essere l'ulti-mo per noi. Ogni cosa è più bella per i condannati a l'ulti-morte... E tu non

sarai mai più bella di quanto sei ora! Questo momento non tornerà."

Film Troy, 2004, regia di Wolfgang Petersen.

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Tutto ciò che dobbiamo fare è quindi prendere consapevolezza, vivere piena-mente i nostri istanti, che appaiano bellissimi o bruttissimi in quel momento, senza la presunzione di avere su di essi un giudizio esatto o immutabile, con la serenità della presa di coscienza della loro unicità.

Desidero dilungarmi ancora sulla dottrina Zen, ed a questo scopo racconterò un'altra storia di questa tradizione, dove nuovamente le vite di un saggio e di un samurai si intrecciano:

Un giorno un samurai andò da un maestro spirituale chiamato Hakuin, e chiese: "Esiste un inferno? Esiste un paradiso? Se esistono da dove si entra?". Era un semplice guerrie-ro. I guerrieri sono privi di astuzia nelle mente. I guerrieri conoscono solo due cose: la vita e la morte.

Il samurai non era venuto per imparare una dottrina, voleva sapere dov'erano le porte, per evitare l'inferno ed entrare in paradiso.

Hakuin chiese: "Chi sei tu?". Il guerriero rispose: "Sono un samurai". In Giappone esse-re un samurai è motivo di grande orgoglio. Significa esseesse-re un guerriero perfetto. Uno che non esiterebbe un attimo a dare la vita."Sono un grande guerriero, anche l'imperato-re mi rispetta".

Hakuin rise e disse:"Tu, un samurai? Sembri un mendicante!"

L'uomo si sentì ferito nell'orgoglio. Sfoderò la spada, con l'intenzione di uccidere Ha-kuin.

Il maestro rise: "Questa è la porta dell'inferno" disse "con questa spada, con questa col-lera, con questo ego, si apre quella porta".

Questo un guerriero lo può comprendere, così il samurai rinfoderò la spada, e Hakuin disse: "Qui si apre la porta del paradiso.

L'inferno e il paradiso sono dentro di te. Entrambe le porte sono in te.

Quando ti comporti in modo inconsapevole, si apre la porta dell'inferno; quando sei at-tento e consapevole, si apre la porta del paradiso.

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La mente è sia paradiso che l'inferno, perché la mente ha la capacità di diventare sia l'uno che l'altro. Ma la gente continua a pensare che tutto esista in un luogo imprecisato all'esterno "

Anche questa favola fa porre l'attenzione dell'apprendista della via dello Zen sul-la sua interiorità, sul perfezionamento del mondo caratteriale ed il controllo su di esso. La dimensione emotiva è infatti centrale in questa corrente filosofica, quasi che grazie al nostro potere su di essa si possa guadagnare una ricompensa, ma non di tipo ultrater-reno, bensì nel qui ed ora. Quando diventiamo capaci di rinfoderare la spada nonostante l'offesa vinciamo contro le emozioni che ci fanno soffrire, e sbarazzandoci di esse vi-viamo una vita migliore.

Il mondo interiore è, anzi, così importante che esiste un simbolo, chiamato Enso, e traducibile dal giapponese come "cerchio", atto a rivelare questo aspetto di colui che lo disegna. Esso simboleggia un momento in cui la mente è libera di lasciare che l'insi-eme corpo-spirito sia creativo.

La pennellata d'inchiostro che disegna il cerchio viene tracciata su seta o carta di riso in un unico gesto, senza alcuna possibilità di cambiamento o correzione: mostra quindi l'espressivo movimento dello spirito, in quel preciso momento. Alcuni maestri praticano il disegno quotidiano di Enso, non solo come esercizio, ma anche come diario spirituale.

E' il soggetto più comune della calligrafia giapponese, simboleggia l'illuminazi-one, la forza, l'universo. Alcuni lo disegnano con un'apertura nel cerchio, mentre altri lo chiudono. L'apertura potrebbe simboleggiare che questo cerchio non è separato dal resto delle cose, ma fa parte di qualcosa di più grande. E' simbolo sacro nel Buddhismo Zen ed è spesso usato dai maestri come firma nelle loro opere.

Esso è inoltre metafora dello Zen assoluto, la vera natura dell'esistenza e dell'il-luminazione, si tratta di un simbolo che unisce il visibile e il nascosto, il semplice e il profondo, il vuoto e il pieno. Come espressione di infinito ha collegamenti con il

lemni-scata occidentale che simboleggia, appunto, questo concetto. Come già accennato può 30

Il simbolo dell'infinto, disegnato come un otto sdraiato

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essere dipinto in modo che vi sia una leggera apertura in qualche parte del cerchio, mo-strando che non si contiene in sé, ma che si apre all'infinito.

Nello Zen non viene data alcuna importanza alla perfezione formale di un Enso, essendo essenziali la risonanza spirituale e l'energia, che il pittore è in grado di evocare nella propria opera, in un'immedesimazione istantanea e totale nel qui-e-ora.

"Con un cuore permeato di innocenza, il drago virtuoso cammina da solo".

Traduzione del testo di accompagnamento a questo Enso in mostra nel museo di Min-neapolis.

Poichè rappresenta la mente indifferenziata (mushin) dello Zen, la metodologia dell'esecuzione è quasi irrilevante. Infatti nell'illuminazione della coscienza si trascende ogni illusione qualitativa. L'Enso è l'emblema del più profondo mistero esistenziale, il nostro "volto originale", di ciò che eravamo prima della nascita di nostro padre e di

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no-stra madre. Per questo, l'enso gode della più alta considerazione, sia come fonte d'isp-irazione e meditazione che come veicolo di trasmissione spirituale.

Non solo un semplice cerchio disegnato con un'unica, ampia, pennellata, ma il simbolo dell'infinito, vuoto, la "non-cosa"; il perfetto stato meditativo Satori . 31

l'esperienza del risveglio, inteso in senso spirituale, nel quale non ci sarebbe più alcuna differenza tra

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