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Figure maschili in Elena Ferrante

70 AGUILAR, 2015 71 SAPEGNO,2018, p 27.

1.2. Mariti e compagn

1.2.2. Maternità e paternità

Al tema del matrimonio è intrinsecamente connesso anche quello della maternità, che si declina

da un lato nel problematico rapporto con la madre e dall’altro nella difficoltà dell’essere madre. La scrittrice pone come premessa alle riflessioni sulla maternità l’equazione patriarcale donna-

madre e la riduzione dell’individuo donna alla sua funzione materna.

Le protagoniste di Ferrante rovesciano il mito della maternità, mostrandone anche il lato più abietto e disturbante. Queste donne non vivono la maternità e la gravidanza come un’esperienza

positivamente totalizzante, piuttosto come qualcosa di negativo e, spesso, disgustoso111.

110 Ivi, p. 210.

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Lila descrive il proprio corpo gravido come «una scatola di carne con un pupazzo vivo dentro» (SNC 112), mentre Elena le fa eco raccontando l’attesa di lei come «un nodulo in espansione che

a un certo punto le sarebbe venuto fuori dal sesso» (SNC 371), e poi facendo un impietoso

resoconto delle proprie maternità:

Mi pareva che le due bambine avessero sancito che non ero più giovane, che essere segnata dalle fatiche – lavarle, vestirle, svestirle, la carrozzina, la spesa, cucinare, una in braccio e una per mano, tutt’e due in braccio, togli il moccio a una, pulisci la bocca dell’altra, le tensioni insomma di ogni giorno – testimoniasse la mia maturità di donna, che diventare le mamme del rione non fosse una minaccia ma l’ordine delle cose. Va bene così, mi dicevo. (SCF 250)

Anche nelle Cronache del mal d’amore la situazione è la medesima: nella Figlia oscura Leda

evoca la propria gravidanza come «una feccia poltigliosa in sospensione dentro cui cresceva un polipo violento» (LFO 123) oppure come «l’innesto di un insetto velenoso in una vena» (LFO 35);

mentre Olga nei Giorni dell’abbandono definisce il proprio corpo durante l’allattamento come un

«bolo fatto di materia viva» (IGA 101) e vede nella figlia bambina i segni di una fusione mortifera

con sé stessa («me la immaginai vecchia, i lineamenti deformati, prossima a morire o già morta, e

tuttavia un pezzo di me, l’apparizione della bambina che ero stata, che sarei stata» [IGA 98]).

Il legame con la madre è di certo qualcosa di più viscerale rispetto a quello paterno, che si collega

piuttosto ad aspetti più culturali. Non per questo, però, il rapporto con il padre è meno significativo.

Se sin dal dopoguerra italiano la suddivisione dei ruoli tra padre e madre era ben definita,

recentemente la figura paterna ha subito una radicale trasformazione, a cui la contestazione del

sessantotto e il femminismo hanno evidentemente contribuito. Questi ultimi, infatti, mettendo in discussione l’idea di autorità paterna, aprono in famiglia e nel rapporto coi figli spazi che per

tradizione erano appannaggio esclusivo delle donne. Gli uomini scoprono che non basta essere

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contribuire economicamente al sostegno della famiglia, ma è anche maturazione, arricchimento,

empatia e vicinanza fisica112.

L’aspetto non convenzionale della maternità è stato ampiamente studiato in Elena Ferrante, ma nei

suoi libri non mancano spunti per analizzare il tema della paternità.

Per Stefano, ad esempio, il sesso ruota tutto intorno alla questione fisiologica della riproduzione:

per lui far sì che Lila rimanga incinta è una questione d’onore. La cattiveria di Lila è il pretesto su

cui fa leva per incriminare l’incapacità della moglie di procreare e il motivo per cui ha avuto un

aborto spontaneo durante la prima gravidanza.

La gravidanza di Lila durò in tutto poco più di dieci settimane, poi arrivò la levatrice e le raschiò via tutto. […]

«I figli non li vuole» si lamentò Stefano.

«Sì» lo appoggiò Pinuccia, «vuole restare ragazza, non sa fare la moglie». (SNC 128)

È emblematico il fatto che Lila non si dispiaccia per questa perdita, ma la viva con sollievo, rispetto a tutte le ansie e le reticenze che l’avevano accompagnata nel momento in cui aveva scoperto di

aspettare un bambino:

Me ne parlò a lungo, nervosamente, come di qualcosa da schiacciare in un pestello, e lo fece con gelida fermezza. È senza senso, disse non nascondendo l’angoscia. I maschi ti inseriscono il loro coso e diventi una scatola di carne con un pupazzo vivo dentro. Ce l’ho, sta qui e mi fa ribrezzo. Vomito di continuo, è la mia stessa pancia che non lo sopporta. Lo so che devo pensare cose belle, lo so che me ne devo fare una ragione, ma non ci riesco, ragioni non ne vedo e nemmeno bellezza. Oltre al fatto, aggiunse, che sento di non essere capace coi bambini. (SNC 112).

Qualche anno dopo, Lila rimane di nuovo incinta, ma è convinta che il figlio sia di Nino e lo

ribadisce al marito più volte. Per come il personaggio di Stefano è sempre stato descritto ci si

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aspetterebbe una reazione di furia omicida, ma questo non avviene. Stefano non vuole sentire, si

convince che non sia così, allo stesso modo in cui si era convinto che la moglie non fosse scappata

con un altro, ma fosse in visita a Pisa, presso Elena. Alla fine non gli importa con chi la moglie sia

andata a letto: gli importa solo che quel figlio porti il suo cognome, che abbia un successore che possa testimoniare che lui “sa fare l’uomo” all’interno del matrimonio. Se ammettesse a sé stesso

che quel bambino non è suo, tutta la sua virilità crollerebbe.

«Sono incinta» e lui fu così felice che quando lei aggiunse: «il bambino non è tuo», scoppiò a ridere con genuina allegria. Poiché lei ripeté quella frase con rabbia crescente, una due tre volte, e cercò anche di colpirlo coi pugni chiusi, passò a coccolarla, a baciarla, mormorando: «Basta, Lina, basta, basta, basta, sono troppo contento. Lo so che t’ho trattata male ma ora finiamola, non mi dire più cose brutte», e gli si riempirono gli occhi di lacrime liete. Lila sapeva da tempo che le persone si dicono bugie per difendersi dalla verità dei fatti, ma si stupì che il marito fosse in grado di mentirsi con tanta gioiosa convinzione. D’altra parte non le importava niente, ormai, né di Stefano né di se stessa e dopo aver ripetuto ancora per un po’ senza emozioni: «Il figlio non è tuo», si ritrasse nel torpore della sua gravidanza. Preferisce rimandare il dolore, pensò, e va bene, faccia come gli pare: se non vuole soffrire adesso, soffrirà in seguito. (SNC 370-371)

A distanza di anni, però, si scopre che il figlio è veramente di Stefano e la rivelazione avverrà

grazie a Melina Caputo, che, mentre passeggia insieme alla nipote – frutto della relazione tra

Stefano e Ada – incontra Elena, Lila e il figlio Gennaro:

Lina, sei diventata brutta e secca, per forza che Stefano t’ha lasciata, gli uomini vogliono la carne addosso, se no non sanno dove mettere le mani e se ne vanno. Quindi con un movimento troppo veloce della testa si rivolse a Gennaro, quasi strillò indicando la bambina: lo sai che questa è tua sorella? Datevi un bacio, su, madonna mia come siete belli. Gennaro baciò subito la bambina, che si lasciò baciare senza protestare, e Melina, nel vedere i due volti accostati, esclamò: hanno preso tutt’e due dal padre, sono identici. […] Lila era rimasta tutto il tempo muta. Ma capii che le era accaduto qualcosa di molto violento.

[…]

«Hai sentito cosa ha detto?». «Non è vero che sei brutta e secca».

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«Chi se ne fotte se sono brutta e secca, sto parlando della somiglianza». «Che somiglianza?».

«Tra i due bambini: Melina ha ragione, sono tutt’e due identici a Stefano». «Macché, la piccola sì, ma Gennaro è diverso».

Lei scoppiò a ridere, dopo tanto tempo le ritornò la risata cattiva di sempre. Ribadì:

«Sono due gocce d’acqua». (SCF 195)

Fino a quel momento Lila aveva attribuito alla propria indole incostante ogni colpa riguardo alla

crescita di Gennaro. Nonostante i suoi sforzi, infatti, Lila inizia ad appurare come le capacità

intellettive che si era impegnata a stimolare costantemente nel figlio tendano a essere sopraffatte

dalla sua aggressività, che lo incalza a colpire i compagni di giochi e a esprimersi a male parole, risultando un bambino lontano dall’idea che la madre si era prefigurata. Attraverso l’involontaria

osservazione di Melina, Lila prende atto che il figlio – angosciosamente custodito nel grembo e

dato alla luce e controllato con cura nella fase della sua prima crescita – non discende dall’amore

di Nino, ma condivide invece il patrimonio genetico del marito, che risulta evidente nella

comunanza di tratti somatici con la figlia di quest’ultimo e dell’amante Ada. Questo la porta ad un’ulteriore consapevolezza, che le carenze del figlio non potranno essere mai riparate, perché

parte di un processo prestabilito che le destina a emulare le sorti del padre. Lila sceglie perciò di

abbandonare il figlio al suo ineluttabile destino nel rione, prefigurandoselo con i limiti e le storture

con cui Elena lo delineerà anni più tardi: «Rino è un giovane insicuro, incolto, privo di fascino,

senza alcun futuro, e, a pensarci bene, più che Stefano ricorda fisicamente suo nonno, don Achille»

(SBP 370).

Nino rappresenta invece la figura del padre assente: è un uomo a cui i figli non interessano.

Quando lascia Lila e scappa a Milano, agisce perché spaventato dalla gravidanza («mi fa paura quello che c’è nella sua pancia; perciò non devo assolutamente tornare […]». [SNC 361]). Infatti,

non conoscerà mai Gennaro, il figlio che Lila crede sia suo, come non conoscerà Mirko, figlio

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Elena crescerà da sola Imma e la bambina avverte questa mancanza, soprattutto paragonando il

suo rapporto col padre a quello che le sorelle hanno con Pietro, e riporta questa sofferenza nel

gioco delle bambole insieme a Tina, figlia Lila ed Enzo:

Creature mostruose stavano inseguendo le loro bambole, principi coraggiosi erano sul punto di salvarle. Ma sentii che mia figlia esclamava con una rabbia improvvisa:

«Io no». «Tu no?».

«Io non mi salvo».

«Non ti devi salvare tu, ti salva il principe». «Non ce l’ho».

«Allora ti faccio salvare dal mio». «Ho detto no».

Mi ferì quel salto brusco con cui era passata dalla bambola a se stessa […]. (SNC 304-305)

Quando Elena si rende conto della sofferenza della figlia, impone a Nino di farle visita, ma la bambina non reagisce come la madre avrebbe sperato e all’inizio si rifiuta di prepararsi per

l’incontro, preferisce di gran lunga giocare con l’amica Tina:

La bambina si torceva, gridava: non lo voglio papà, come se papà fosse una medicina repellente. Escludevo che si ricordasse di Nino, non stava esprimendo un rifiuto verso quella persona determinata. Pensai: forse ho sbagliato a farlo venire; quando Imma dice che non vuole papà, intende che non ne vuole uno qualsiasi, vuole Enzo, vuole Pietro, vuole ciò che hanno Tina e le sue sorelle. (SBP 307).

Di nuovo Nino si dimostra peggio del padre Donato: infatti, quest’ultimo è sempre stato presente

per i figli, anche per lo stesso Nino, nonostante il loro rapporto conflittuale.

Pietro è un padre piuttosto presente, almeno per le questioni importanti; anche dopo la

separazione mantiene costanti i rapporti con le figlie, si preoccupa per loro e anche per la piccola

Imma, e accetta che la figlia più grande, Adele, si trasferisca da lui negli Stati Uniti per frequentare l’università.

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Anche Mario, il marito di Olga, nei Giorni dell’abbandono, si comporta in maniera simile. Egli

rappresenta il tipico cliché virilista dell’uomo che lascia la moglie per una donna molto più

giovane.

Mario si innamora di Carla, appena ventenne, alla quale dava ripetizioni quando era ancora una

ragazzina. Quando lo scopre, Olga si rende conto di un inganno ordito alle sue spalle per cinque

anni.

Per quasi cinque anni si era goduto in segreto quel corpo, aveva coltivato quella sua passione, l’aveva trasformata in amore, aveva dormito pazientemente con me abbandonandosi alla memoria di lei, aveva aspettato che diventasse maggiorenne, più che maggiorenne per dirmi che se la prendeva definitivamente, che mi lasciava. Infame, vile. Al punto di non riuscire a dirmi cosa gli era veramente accaduto. Aveva sommato finzione coniugale a finzione sessuale per dar tempo alla sua viltà, per metterla sotto controllo, per trovare piano piano la forza di lasciarmi. (IGA 76-77)

Mario vive la paternità in maniera del tutto serena, non prova sensi di colpa per aver lasciato la

propria famiglia, ha un rapporto coi figli del tutto sporadico che non viene mai problematizzato.

Olga, invece, dopo essere stata lasciata, si ritrova in conflitto con la propria maternità e con i suoi stessi figli, da lei percepiti come cause dell’abbandono. Quest’ultimi le hanno lasciato addosso

quel «malodore di mamma» (IGA 101) che ha allontanato il suo uomo.

Il simbolo della disperazione che la protagonista prova è la «poverella»: una donna che abitava nell’appartamento sopra il suo durante l’infanzia passata a Napoli, e che si è suicidata dopo che il

marito l’ha lasciata e se n’è andato. Questa donna riemerge continuamente durante i «quattro mesi

di tensioni e di dolore» (IGA 131) che seguono l’abbandono:

La poverella piangeva, la poverella gridava, la poverella soffriva, dilaniata dall’assenza […]. Si sfregava tra le mani un fazzoletto umido, diceva a tutti che il marito l’aveva abbandonata, l’aveva cancellata dalla memoria e dal senso, e torceva il fazzoletto con le nocche bianche […]. (IGA 15)

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(I bambini) avevano uno sguardo tale, che pensai vedessero […] più di quanto in realtà fosse possibile vedere. Forse avevo accanto, rigida come una statua sepolcrale, la donna abbandonata delle mie memorie infantili, la poverella. Era venuta […] per trattenermi per un lembo della gonna, prima che volassi giù dal quinto piano. (IGA 46-47)

La poverella rappresenta anche un altro aspetto della vita di molte donne: il conflitto tra due dimensioni opposte, quella del materno e quella del femminile. Questa opposizione tra l’essere

madre e l’essere donne è vissuta anche da Olga, che, in più occasioni, esplicita questi pensieri:

Scoprii con rammarico che se la bambina aveva bisogno di me, io non sentivo alcun bisogno di lei. (IGA 109)

Arrivò un momento in cui non sapevo più se stavo meglio quando loro c’erano o quando non c’erano. (IGA 190)

Nei giorni in cui i bambini sono dal padre, Olga si sente libera, proprio come Elena quando affida

le figlie a Lila e parte con Nino o per le presentazioni dei suoi libri.

Questo sentimento porta Olga a continue oscillazioni tra il senso di colpa che l’improvvisa libertà

le provoca e quello di non saper occuparsi dei figli senza Mario, tanto che Olga arriva a pensare

che la sua incapacità di prendersi cura di loro possa essere uno strumento per far tornare il marito:

Qualcuno dirà a Mario che la figlia si è fatta male e allora lui si farà vivo. […] L’unica memoria fastidiosa della giornata restò quel mio pensiero, una prova di meschineria disperata, il desiderio irriflesso di usare la bambina per riportare Mario a casa e dirgli: vedi cosa Può succedere se non ci sei? È chiaro in quale direzione mi stai spingendo, giorno dopo giorno? Me ne vergognai. D’altra parte non potevo farci niente, non pensavo ad altro che al modo per riaverlo. (IGA 36)

Ma ciò non accade, perché Mario, proprio come Pietro, segue lo stereotipo della rilevanza

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residuale quanto a significato affettivo113. Porta i regali ai suoi figli quando va a trovarli, li tiene

con sé durante il fine settimana, ma non esita a rimproverare Olga del fatto che deve occuparsene di più, poiché Carla ha gli esami all’università e non può farlo. Non pensa minimamente che ciò

spetterebbe a lui.