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La maschilità in Elena Ferrante. un'analisi dei personaggi maschili nelle Cronache del mal d'amore e nell'Amica geniale

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Academic year: 2021

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(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

La maschilità in Elena Ferrante.

Un’analisi dei personaggi maschili nelle Cronache del mal d’amore e

nell’Amica geniale

CANDIDATO

RELATORE

CHIARA PIERONI

Chiar.mo Prof. Raffaele Donnarumma

CORRELATRICE

Chiar.ma Prof. Cristina Savettieri

(2)

1

INDICE

INTRODUZIONE – Maschilità e femminismo ... 2

CAPITOLO I – Figure maschili in Elena Ferrante ... 20

1.1. Figure di padri ... 23

1.2. Mariti e compagni ... 41

1.2.1. Violenza plebea e violenza borghese: da Stefano a Pietro ... 41

1.2.2. Maternità e paternità ... 62

1.2.3. Sopraffazione del talento femminile e virilità ... 70

1.3. Altri personaggi maschili ... 72

1.3.1 Il cliché virilista nella Figlia oscura ... 72

1.3.2 Rino e la smarginatura ... 74

1.3.3 Solara e Carracci: il tema del denaro ... 79

1.3.4. Alfonso Carracci: il femminiello ... 83

1.3.5. Enzo Scanno ... 86

CAPITOLO II – La violenza sessuale ... 89

CONCLUSIONE – Una concezione negativa dei rapporti tra sessi ... 107

(3)

2

INTRODUZIONE

Maschilità e femminismo

Il termine maschilità indica una «partecipazione a caratteri fisiologicamente o tradizionalmente

maschili»1 e non va confuso, invece, con “mascolinità”, più comune nel linguaggio italiano e più

simile al termine anglofono, che, però, indica «il complesso delle caratteristiche (aspetto fisico esterno, psicologia, atteggiamento e comportamento, gusti, ecc.) che sono proprie dell’uomo in

quanto si differenzia dalla donna, o che a lui tradizionalmente si attribuiscono»2. Ciò significa che

essere uomini non vuol dire necessariamente essere virili, possenti, maschi.

Soprattutto in ambito statunitense si sono sviluppati studi che hanno al centro proprio il tema del

dominio maschile e le sue declinazioni: i così detti men’s studies o masculinity studies, che si interrogano sull’identità maschile e sulle rappresentazioni della maschilità.

Sotto l’influenza decostruzionista si comincia a percepire l’identità non fondata su coppie oppositive, come, per l’appunto quella uomo-donna,ma come qualcosa di fluido e instabile. Non

è un caso, quindi, che accanto al femminismo degli anni Settanta-Ottanta, che si è concentrato sullo smascheramento dell’oppressione del dominio maschile, e che tendeva a mettere a fuoco

l’identità delle donne, promuovendone i diritti e l’emancipazione, siano emersi dei movimenti

maschili: movimenti filo-femministi, per cui gli uomini contribuiscono alla lotta contro il sistema patriarcale e riconoscono l’esistenza di ruoli sociali e ideali che sono obbligati ad assumere, ma,

soprattutto, movimenti che presuppongono un recupero di una maschilità forte e di un potere

patriarcale compatto e unitario3.

1 DEVOTO-OLI, 1990, p. 671. 2 ENCICLOPEDIA TRECANI. 3 DE BIASIO, 2010, pp. 10-13.

(4)

3

Come scrive Simonetta Piccone Stella nel suo saggio Gli studi sulla mascolinità, i men’s studies

si svilupparono in particolare secondo due traiettorie: il primo filone di ricerca è impegnato nell’analisi della mascolinità e delle sue caratteristiche; la seconda traiettoria si concentra nel

riconoscere «l’impronta che l’azione e la presenza del genere maschile hanno lasciato nei

mutamenti sociali»4.

Quando si parla di men’s studies, inoltre, bisogna riconoscere l’esistenza di due diversi approcci

metodologici. Il primo, quello essenzialista, postula la presenza di «qualità e caratteristiche

intrinseche, invarianti, di un’essenza che preesiste all’esistenza e alla cultura».5 Gli studiosi che abbracciano tale approccio sono convinti quindi dell’esistenza di comportamenti, inclinazioni e

strutture caratteriali irriducibili degli uomini e delle donne. L’approccio essenzialista si concentra, quindi, sulla ricerca di «tratti specifici dell’identità maschile sulla base di teorie psicologiche e

psicoanalitiche»6.

Il secondo approccio metodologico, quello culturalista, ha insistito sul concetto di mascolinità

come dato storico profondamente mutevole, ma allo stesso tempo presente in tutti gli ambiti sociali

e quindi assolutamente necessario alla ricerca storica. In questa prospettiva troviamo le ricerche

compiute dalla sociologa australiana Raewyn Connell, fondamentale nello smantellare l’assioma che guardava alla mascolinità come ad un’essenza monolitica e unitaria7.

Nel suo saggio Masculinities Connell tenta di fare un bilancio sulla conoscenza della maschilità

condotta da psicanalisti, scienziati e sociologi8, elaborando, in questo modo, una vera e propria «storia dell’“organizzazione sociale” del genere e della maschilità moderna»9.

Il merito di Connell è quello di aver intuito l’impossibilità di intendere la maschilità come un

oggetto coerente che possa dar luogo a generalizzazioni scientifiche, considerandola, invece, come

4 PICCONE,2001, p. 82. 5 Ivi, p. 84. 6 FIORINO, 2006, p. 384. 7 PICCONE,2001, p. 84. 8 CONNEL,1996, pp. 7-8. 9 DE BIASIO, 2010, p. 14.

(5)

4

qualcosa di mutevole, soggetta a contraddizioni interne e a sconvolgimenti storici, nella stessa

misura della femminilità10.

Negli studi internazionale si è poi molto insistito sulla lunga durata delle varie forme del

predominio maschile, sul suo radicamento nelle istituzioni, nelle forme di potere, nei

comportamenti sociali11.

In questa direzione si collocano anche gli studi di Pierre Bourdieu, sociologo francese collocabile anch’egli all’interno della tradizione culturalista proprio per le sue riflessioni «sul carattere

storicamente costruito […] della divisione sociale dei ruoli di genere»12. Nella lettura di Bourdieu

emerge una visione della mascolinità schematica e compatta, coerente13, diversamente da Connell

che individua diverse tipologie di maschilità suddivise in ordine gerarchico14. Bisognerà, dunque, parlare di maschilità multiple, poiché non tutte le società intendono quest’ultima con la medesima

accezione. Di conseguenza, anche la così detta “maschilità egemone” risulta essere solo un’illusione, perché non si può considerare un tipo caratteriologico fisso, uguale sempre e

dovunque, ma è, invece, la maschilità che occupa una posizione di egemonia in un dato modello

di rapporti fra generi:

La maschilità egemone può definirsi come quella configurazione della prassi di genere che incarna la risposta, in quel dato momento accettata, al problema della legittimità del patriarcato, e che garantisce (o che si presume garantisca) la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne. […] Ma il predominio di qualsiasi gruppo di uomini può anche essere contestato da donne. L’egemonia è dunque una relazione storicamente mobile15.

10 CONNELL, 1996, pp. 63-65. 11 FIORINO, 2006, p. 383. 12 Ibidem. 13 BORDIEU, 1998, p.7. 14 CONNELL, 1996, p. 67. 15 Ivi, pp. 68-69.

(6)

5

Connell e Bordieu sono convinti che la maschilità sia un fenomeno storico, socialmente costruito

e quindi soggetto a mutamento16. In questa direzione si pone anche lo studioso George Mosse, che

nel suo libro Sessualità e nazionalismo traccia una cronologia precisa dell’evolversi dell’ideale

virile17, che si diffonde e consolida fino alla fine dell’Ottocento per poi entrare in crisi alla fine del secolo in seguito all’affermarsi di movimenti femministi e culturali nuovi18. Tuttavia, proprio

quando attaccato, il virilismo sarebbe stato rinvigorito dalla forte ondata nazionalistica che attraversò l’Europa in questi cruciali decenni. Più che di una crisi sarebbe opportuno parlare,

dunque, di una trasformazione del modello maschile19.

In Italia, la riflessione sulla maschilità sconta il medesimo ritardo che ha segnato la riflessione sulle identità, ma con l’aggravante che il soggetto maschile, da sempre in posizione di superiorità,

è spesso parso secondario agli occhi del femminismo, accanto al quale questi studi si sono

sviluppati.

Maschile e femminile sono trattati come costruzioni sociali legate a contingenze storiche e culturali. Domina, quindi, un’ottica descrittiva che privilegia la ricostruzione dei rapporti tra i due

generi, ma esclude l’esplorazione dei turbamenti nel loro aspetto binario20.Questi studi cercano di

esplorare la maschilità in determinati contesti sociali e culturali che hanno prodotto una crisi all’interno del dominio maschile.

Il lavoro di Sandro Bellassai ha lo scopo di tratteggiare alcuni passaggi essenziali di una storia del virilismo e della continua costruzione e ricostruzione dell’identità maschile in Italia.

Sulla scia di Connell (anche se Bellassai non utilizza il termine maschilità), lo studioso riconosce l’esistenza di «virilità reali, assolutamente plurali» espresse, adottate, praticate dai singoli uomini

che vengono fortemente influenzate dalla realtà empirica, dalle costruzioni della cultura e dalle rappresentazioni dell’immaginario collettivo. L’approccio scelto per questo libro tende, appunto,

16 BALDASSELLA 2018, p. 9. 17 MOSSE, 1996, pp. 1-2. 18 FIORINO, 2006, p. 385. 19 BELLASSAI, 2011, p. 10. 20 DE BIASIO, 2010, pp. 29-31.

(7)

6

a mettere in evidenza queste rappresentazioni e a privilegiare una «dimensione simbolica della

mascolinità»21.

Entrambi gli studiosi ritengono che la posizione gerarchicamente privilegiata del genere maschile

è sempre stata una sorta di eredità storica che era impossibile mettere in discussione e si saldava

profondamente con la politica, che era (ed è) per definizione fatta per la maggioranza da persone

di sesso maschile22. Ma nell’Ottocento cominciano a intravedersi delle crepe all’interno di questa

posizione a causa del crescente protagonismo delle donne in ambito sociale e politico, ed è proprio

in questo secolo che il concetto di virilità, rafforzata nei suoi attributi simbolici di forza, coraggio e vocazione al dominio, si avviò a rivestire un’importanza sempre maggiore come elemento

simbolico delle retoriche pubbliche.

Già a fine Ottocento si parlava di femminilizzazione della società a causa delle rivendicazioni

civili e politiche delle donne, che sembravano segnare il punto di non ritorno nella parabola

declinante del potere patriarcale. Questo crescente protagonismo femminile era giudicato una

tendenza sciaguratamente moderna, una sorta di effetto collaterale del progresso, per questo i

concetti di femminilizzazione e modernizzazione cominciarono a richiamarsi a vicenda come elementi che toglievano quell’aura di sacralità agli equilibri di potere ormai consolidati nei secoli.

Gli uomini erano spaventati da questa donna nuova, che usciva dagli ambiti tradizionali che Dio o

la Natura sembrava avergli attribuito, e la rappresentavano come un essere mostruoso, un’aberrazione della natura23.

L’idea dominante era quella di una modernità che aveva indebolito il dominio maschile e la

conseguenza fu quella di rilanciare la virilità conferendole un’enorme valenza ideologica24,

attraverso ciò che Connell chiama «dividendo patriarcale» cioè «il vantaggio che gli uomini in

generale ottengono dalla generale subordinazione delle donne». Secondo lo studioso, infatti, il

21 BELLASSAI, 2011, pp. 10-13. 22 CONNELL, 1996, p. 149. 23 BELLASSAI, pp. 44-45. 24 BELLASSAI, 2011, p. 18.

(8)

7

numero di uomini che si attiene rigorosamente al modello egemonico è molto piccolo, tuttavia, la maggior parte degli uomini trae vantaggio da quell’egemonia, per questo motivo non viene messa

in discussione25.

È ciò che succede nella lotta al femminismo: si tende all’esclusione di un soggetto rappresentato

come diverso, in questo caso la donna, che sortiva l’effetto di un rafforzamento dell’appartenenza

al genere maschile, rilanciando, di conseguenza, un interesse al dividendo patriarcale come

«ragione sociale della propria identità di uomini»26.

Uno dei comportamenti maggiormente rafforzati è quello della violenza, che invade anche la

sfera sessuale, per cui il sesso diviene una mera questione fisiologica di riproduzione che ha strettamente a che fare con una questione d’onore maschile.

Secondo Bellassai, negli anni sessanta si concluse definitivamente quella fase storica in cui i modelli di mascolinità erano ispirati dalla forza e dalla violenza, l’idea che una virilità collettiva

fosse necessaria per ristabilire un equilibrio sociale, di certo, non scomparve: fino agli anni novanta riemersero, continuamente, le inquietudini legate alla “crisi del maschio”, ma divenne presto

chiaro che era impossibile ricacciare indietro il protagonismo femminile, per cui si cercò, piuttosto,

di conferirgli un profilo sinistro stigmatizzando il successo delle donne27.

Si faceva leva sui sensi di colpa che molte donne erano chiamate a provare nel momento in cui

decidevano di non rinunciare alle proprie aspirazioni personali né ai propri impegni familiari,

dipingendole come donne che toglievano tempo alla famiglia per scopi puramente egoistici. Lo

stereotipo della donna in carriera, notevolmente diffuso negli ultimi due decenni del Novecento,

suggeriva una pericolosa deriva innaturale del femminile, che contaminava spazi della sfera pubblica da sempre attribuiti agli uomini, e d’altra parte anche lei stessa veniva contaminata dalla

25 CONNELL, 1996, p.70. 26 BELLASSAI, 2011, p. 44. 27 Ivi, pp. 125-126.

(9)

8

maschilità che è propria di quegli ambienti. Questa donna rappresenta una sorta di virago moderna,

che dotata di attributi maschili, viola una legge eternamente valida, quella della diversità28.

Molte di questi comportamenti maschili si ritrovano nella narrativa di Elena Ferrante, in cui il

dominio patriarcale è una costante, anche se spesso non viene approfondito.

Questo lavoro si concentrerà, appunto, sull’analisi dei personaggi maschili nella quadrilogia dell’Amica geniale e nei tre romanzi che la precedono, L’amore molesto, I giorni dell’abbandono

e La figlia oscura, raccolti nel volume intitolato Cronache del mal d’amore.

Nel primo capitolo verranno analizzate due delle principali categorie della società patriarcale: i

padri e i mariti. Successivamente verranno prese in esame alcune figure maschili secondarie che

gravitano intorno alle protagoniste e offrono a Ferrante interessanti spunti sociali e antropologici.

Il secondo capitolo riguarda, invece, la forma più feroce di dominio maschile: la violenza sessuale.

Questo tema viene analizzato a partire dalla tradizione classica per giungere allo studio dei testi

contemporanei e alle innovazioni attuate da Ferrante.

Maschilità e femminismo non possono prescindere l’una dall’altro. È chiara dunque l’importanza

di comprendere quanto e come il femminismo abbia influenzato la scrittura di Elena Ferrante.

Il tema della differenza di genere domina tutta la quadrilogia dell’Amica geniale («Tu sei la mia

amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine» [AG 309]): due amiche,

Elena e Lila, rappresentate narrativamente come donne che hanno dovuto subire la violenza fisica e simbolica del dominio maschile, ma che hanno cercato, in un modo o nell’altro, anche di

elaborare forme di resistenza creativa a questo dominio. Come scrive Tiziana de Rogatis, «la

sopravvivenza di Elena e Lina non è solo una forma creativa di lotta rispetto a uno stato di fatto o

di dominio ma è anche una dolorosa riflessione sulle parti colonizzate del proprio stesso

immaginario»29.

28 Ivi, p. 139.

(10)

9

L’amicizia è un evento centrale, anche se spesso non è individuato come tale, nella formazione

di molte donne; se finora, però, è stata significativamente poco raccontata dalle stesse autrici, che

la subordinano spesso a uno schema triangolare per cui due amiche si innamorano dello stesso uomo fino a quando una delle due si ritira dalla competizione (l’amicizia è raccontata quindi a

partire da un personaggio maschile), nella Ferrante diventa la forza tematica di tutti e quattro i

romanzi.

Nonostante le storie d’amore non manchino, il fulcro è la storia dell’amicizia di Elena e Lila e la sua evoluzione nel corso degli anni, dall’infanzia, vissuta nella miseria del rione di Napoli, fino

alla maturità30.

La loro è un’amicizia dai tratti sororali, uno dei nodi focali del dibattito femminista della seconda

metà del Novecento, che ha adottato il concetto di sorellanza con il significato di unità e

solidarietà31.

La psicanalisi ha riconosciuto il ruolo fondamentale giocato dalle sorelle e da quelle figure sororali

lato sensu, come per l’appunto le amiche, nel percorso verso l’età adulta. Soprattutto

nell’adolescenza le coetanee acquisiscono una maggiore centralità nella formazione dell’identità

e dei successivi rapporti sociali32. Ma tutto ciò non presuppone solo momenti di identificazione,

alleanze e consonanze, ma anche rivalità e competizione33.

Il merito di Ferrante sta proprio nell’aver inserito tutti questi elementi nella costruzione del rapporto tra le due protagoniste, smontando dall’interno alcuni stereotipi dell’amicizia femminile

che vuole le donne o incapaci di instaurare tra di loro rapporti leali e limpidi, depurati da sentimenti torbidi come la gelosia e l’invidia34, o, viceversa, come coloro che stabiliscono tra di loro rapporti

utopici fatti solo di sentimenti positivi.

30 Ibidem.

31 CAO-GUGLIELMI, 2017, p. 24. 32 Ivi pp. 14-15.

33 Ivi p. 13.

(11)

10

L’amicizia che la scrittrice mette in scena è reale poiché imperfetta, nella quale invidia e

riconoscimento si mescolano, e proprio questa imperfezione diviene l’elemento fondativo del

legame tra Elena e Lila, che è precario, ma mai debole35.

A Ferrante interessa «esplorare la sregolatissima amicizia femminile» così da «mettere da parte

ogni idealizzazione letteraria e ogni tentazione edificante» (FR 283).

Anche all’interno dei rapporti d’amicizia, infatti, si può individuare un atteggiamento molto diverso tra uomini e donne: l’amicizia maschile si fonda su un legame di reciproca lealtà che

scaturisce anche in un’alleanza pubblica e politica, mentre «l’amicizia femminile è stata lasciata

senza regole. Non le sono imposte nemmeno quelle maschili, ed è tuttora un territorio con codici

fragili dove amare (la parola amicizia ha a che fare, nella nostra lingua, con amore) trascina con sé di tutto, sentimenti elevati e pulsioni ignobili» (FR 231). La scrittrice non giudica quest’ultime

negativamente, ma come qualcosa di inevitabile, a patto che non prevalgano sull’affinità e sull’affetto 36.

Tiziana de Rogatis definisce il legame tra le due protagoniste secondo due principi: quello della

pratica della differenza, poiché il legame di reciproca lealtà, liberamente stabilito tra pari, è un

privilegio tutto maschile, che ha storicamente presupposto un dominio sul femminile e le due

amiche, in quanto donne, impersonano proprio la disparità di genere su cui si fonda quel patto37, e

quello dell’identificazione proiettiva, inteso come bisogno reciproco di mettere aspetti si sé nella

vita dell’altra38.

Lila, infatti, è sin da subito un modello per Elena, che durante l’infanzia le attribuisce un ruolo di

vera e propria guida: «Decisi che dovevo regolarmi su quella bambina, non perderla mai di vista,

anche se si fosse infastidita e mi avesse scacciata» (AG 42).

35 Ivi, p. 59. 36 Ivi, p. 57-59. 37 Ivi, p. 57. 38 Ivi, p. 65.

(12)

11

Così facendo Elena accetta un ruolo di subalternità rispetto all’amica, si sente rassicurata a

muoversi nell’ombra dell’altra e per questo ne emula i comportamenti39:

Lila s’arrampicava fino alla finestra a pianterreno della Signora Spagnuolo, […] ed io lo facevo subito dopo a mia volta, pur temendo di cadere e farmi male. Lila si infilava sotto la pelle la rugginosa spilla francese che aveva trovato per strada […] e io osservavo la punta di metallo che le scavava un tunnel biancastro nel palmo, e poi, quando lei l’estraeva e me la tendeva facevo lo stesso (AG 23)

È però Lila ad investire Elena dello statuto di amica geniale attribuendole il compito di affermarsi

in campo scolastico40, proprio perché a lei non è stato permesso («voglio che tu faccia meglio, è

la cosa che desidero di più, perché chi sono io se tu non sei brava?» SCF 247). In tal senso non le

fa mai mancare il suo aiuto: le paga i libri di scuola, le permette di studiare nella sua nuova casa e

le fa promettere, dopo una promozione stentata, di non passare mai più con meno della media dell’otto.

La guardai in imbarazzo. Non avevamo parlato della mia promozione stentata, credevo che nemmeno lo sapesse, e invece era informata e ora mi stava rimproverando. Non sei stata all’altezza, stava dicendo, hai preso voti scadenti. Pretendeva da me ciò che avrebbe fatto lei al posto mio. (SNC 93)

Addirittura minaccia di riprendere a studiare e di prendere la licenzia insieme e anche meglio dell’amica. All’idea, Elena, che da sempre ha usato la sua istruzione come un modo per far sentire

Lila esclusa da un «privilegio che lei aveva perso per sempre» (AG 255), prova desideri

contrastanti: se da un lato il pensiero è insopportabile, poiché è convinta che, grazie alla sua

intelligenza, avrebbe recuperato tutti gli anni di scuola perduti e se la sarebbe «trovata accanto, gomito a gomito, a far l’esame di licenza liceale» (SNC 100), invadendo, così, l’unico campo in

39 SOTGIU, 2017, pp. 62-63. 40 DE ROGATIS, 2018, p. 65.

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12

cui si sente libera dalla sua influenza, dall’altro non può non provare una «rinnovata ammirazione

per lei» e pensare che «sarebbe stato bello se si fosse rimessa a studiare. […] Ridare senso allo

studio perché lei sapeva dargli senso» (SNC 101).

Successivamente, Lila cerca di colmare il divario che sente essersi creato con Elena, proprio a

causa degli studi: concepisce il progetto delle scarpe artigianali insieme al fratello Rino,

compensando, con questo esperimento creativo e imprenditoriale, la sua esclusione dalla scuola, ma, soprattutto, utilizza l’arte della seduzione per sottolineare la condizione di inadeguatezza di

Elena, svalutando, sotto il suo nuovo status di fidanzata e successivamente di moglie benestante, qualunque discorso culturale proposto dall’amica41.

Questa continua tensione competitiva che caratterizza il loro rapporto può essere inclusa in quello

che Girard chiama desiderio triangolare per cui l'uomo è incapace di desiderare prescindendo da

un modello, consapevole o inconscio. L'oggetto o lo scopo del suo desiderio gli è proposto o

imposto da un terzo, definito mediatore, che involge soggetto e oggetto42.

In altre parole desideriamo un oggetto o perché è desiderato da altri, e proviamo soddisfazione

quando questi ultimi non riescono ad ottenerlo, o perché invidiamo la persona che lo possiede e

questo genera, di conseguenza, rivalità e conflitti.

La struttura del desiderio triangolare si riconosce in molti episodi all’interno del ciclo dell’Amica

geniale: quando Lila parte per la luna di miele, Elena si apparta con il fidanzato Antonio nella

vecchia fabbrica di conserve, per tentare un rapporto sessuale, che, invece, non avverrà, solo perché non sopporta che l’amica possa in qualche modo lasciarla indietro (“quello che fai tu faccio

io, non riuscirai a lasciarmi indietro” [SNC 27]), oppure quando Elena riceve dalla maestra

Oliviero La fata blu, il racconto che Lila aveva scritto a nove anni, e si rende conto,

drammaticamente, che esso è il nucleo del suo primo romanzo.

41 Ivi, pp. 67-68.

(14)

13

Ma questo sistema è ancor più evidente in rapporto a un altro personaggio: Nino, il grande amore

di Elena fin dalle elementari. Sia Lila che Elena intratterranno con lui una relazione che avrà un’evoluzione stranamente simile:

Lila si innamora di lui durante l’estate del 1961 passata ad Ischia con l’amica e la cognata, ma il

rapporto continuerà anche una volta tornata nel rione. Decide di lasciare il marito Stefano quando

scopre di essere incinta, convinta che il bambino sia di Nino, e andrà a vivere con lui fino a quando

il ragazzo scompare, lasciandola completamente da sola. Solo, allora, torna a casa, spinta dall’amico Enzo Scanno, che diventerà, successivamente, il suo compagno, e grazie al quale

riuscirà a scappare dal marito che diventa sempre più violento.

Anche Elena, in età adulta, inizierà con Nino una relazione extraconiugale, lascerà il marito e avrà

da lui una figlia, ma anche in questo caso, la relazione non avrà un esito felice. Senza contare che

in lei, il fantasma dell’amore tra Nino e l’amica tornerà spesso a tormentarla («Sono brutta, bassa,

ho troppo petto. Dovrei aver capito da tempo che non gli sono mai piaciuta, non a caso ha preferito

Lila a me» SCF 30; «Probabilmente era ancora innamorato di Lila. Probabilmente nel corso della vita avrebbe amato solo lei, come tanti che l’avevano conosciuta» SCF 367).

Con questo la Ferrante infrange altri tabù sul femminile: l’astenersi dal desiderare e dal sedurre gli

uomini prescelti dalle amiche e quanto questo non vada inevitabilmente ad intaccare il rapporto con l’altra. Difatti, la competizione per Nino, pur svelando una radice rivaleggiante nell’amicizia,

non pregiudicherà mai in maniera definitiva il legame tra Elena e Lila, che è indissolubile43.

Come abbiamo detto, durante l’infanzia Elena è sempre guidata da Lila, che è stata definita (e in

questa precisa fase, forse, lo è) una sorta di madre simbolica44, richiamando esplicitamente alcune

delle maggiori esponenti del femminismo degli anni Sessanta e Settanta - quali Muraro e Irigaray

- che hanno portato al centro della loro riflessione il ruolo materno45.

43 DE ROGATIS, 2018, pp. 63-64. 44 SOTGIU, 2018.

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14

La madre biologica diventa, invece, un’estranea per Elena, che, come dice Lucamante, «non esita

a parlare della madre come di un “problema” e di come, anche fisicamente, provasse per lei

sentimenti di repulsione»46:

Mi repelleva il suo corpo, cosa che probabilmente lei intuiva. Era biondastra, pupille azzurre, opulenta. Ma aveva l’occhio sinistro che non si sapeva mai da che parte guardasse. E anche la gamba destra non le funzionava, la chiamava la gamba offesa. Zoppicava e il suo passo mi inquietava, specie di notte, quando non poteva dormire e si muoveva per il corridoio, andava in cucina, tornava indietro, ricominciava. (AG 40)

La narratrice insiste spesso su queste formule e sulla paura di assomigliarle, ma non fa mai alcuno

sforzo per capirne il punto di vista né lascia intuire un qualche attaccamento che, invece, mostra

per Lila. Anche quando registra sulla pagina alcuni gesti della madre, che sembrerebbero dettati dall’affetto, si limita a darne notizia evidenziando la propria sorpresa davanti al comportamento

materno, senza mai interpretarlo e senza mostrare segni di gratitudine, per esempio: quando

Immacolata la incoraggia a studiare per l’esame di riparazione (AG 101), le cuce il costume da bagno e l’accompagna al vaporetto per Ischia (AG 204), le lascia 5000 lire sul tavolo per andare a

Pisa per l’esame di ammissione alla Normale (SNC 325), quando esprime soddisfazione per i

successi della figlia (SNC 395-396). Perfino quando, durante la malattia, Immacolata ammette di

aver considerato Elena la sua unica vera figlia e la copre di complimenti, il commento della voce

narrante è negativo47: «Stetti a sentire e mi sembrò che ormai contassi, ai suoi occhi, solo perché

ero in buoni rapporti con quella nuova autorità del rione [Lila]» (SBP 140).

In questo senso il vuoto lasciato dalla madre viene colmato dal rapporto sororale con Lila e questo

ha portato gran parte della critica a includere il legame tra le amiche sotto quel che Luisa Muraro

chiama pratica dell’affidamento, che, però va rivisitata in senso di legame tra donne della stessa

46 Ivi, p. 318.

(16)

15

generazione 48, e non come una relazione verticale tra una donna più forte e una più debole, che

riproduce un immaginario legame madre-figlia49. Si intende, piuttosto, un rapporto paritario, all’interno del quale una è l’amica geniale dell’altra50, e in cui entrambe cercano di costruire la

loro identità, sentita sempre come troppo debole.

Anche se Lila sembra la più forte, in realtà tutte le sue debolezze e fragilità emergono

inevitabilmente nel corso dei quattro libri. Ne sono un esempio le sue relazioni amorose, che

finiscono sempre male: il matrimonio con Stefano, anche se non è certo un matrimonio d’amore, la relazione con Nino e anche quella con Enzo non avranno un lieto fine, seppure quest’ultimo è,

all’interno dell’universo ferrantiano, l’unico personaggio maschile non condannabile per i suoi

comportamenti.

Lila è, difatti, un’incoerente, incapace di organizzare la sua esistenza secondo disegni duraturi, né

è in grado di domare la sua interiorità che le risulta incomprensibile, è sempre un personaggio fuori

posto e questa sua inadattabilità assume, di volta in volta, forme diverse: quella della ribellione

con il tradimento del marito, quella della rivolta eroica attraverso la denuncia delle condizioni in fabbrica, fino ad arrivare all’autodistruzione con l’abbandono a se stessa dell’azienda informatica

fondata con il compagno Enzo.

Non a caso la più grande paura di Lila è quella di “smarginarsi”, cioè quella sensazione per cui la

realtà perde i suoi contorni e si sfalda, ed è il terremoto del 1980 che la spinge a confessare per la prima volta all’amica questa percezione:

Usò proprio il termine smarginare. Fu in quell’occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo […]. Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come un filo di cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. […] Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva […]. (SBP 161-162)

48 CAO-GUGLIELMI, 2017, p. 318. 49 SOTGIU, 2017, pp. 68-69. 50 Ivi, p. 76.

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16

Elena ha, invece, un’identità più ambigua, sembra avere una maggiore stabilità rispetto all’amica,

nonostante sia totalmente dipendente dal giudizio degli altri di cui ricerca l’approvazione: da Lila,

innanzitutto, e di volta in volta dagli uomini cui si lega e dagli ambienti cui chiede riconoscimento.

È ossessionata dal desiderio di trovare una sua collocazione nel mondo, ma sbaglia nell’individuazione dei suoi modelli e fallisce51: il matrimonio con Pietro Airota, per esempio,

sembra più che altro un modo di riuscire a entrare e ad appartenere a quel mondo altolocato e

intellettuale dal quale si è sempre sentita esclusa.

Se il destino di Lila sarà quello di sparire (la scomparsa della figlia nell’ultimo libro preannuncia

la sua)52, quello di Elena è la comprensione della sua identità, riconoscendone a Lila i meriti53.

La narratrice, proprio attraverso la scrittura della loro amicizia, comprende come una dia forma all’altra, come riescono a generarsi reciprocamente54: «Adesso ero una donna matura con una

fisionomia consolidata. Ero ciò che Lila stessa, ora per scherzo, ora sul serio, aveva spesso ripetuto: Elena Greco, l’amica geniale di Raffaella Cerullo» (SBP 438).

Una dimensione strutturalmente precaria del femminile55 è alla base del pensiero della Ferrante;

ed è una costante anche nelle Cronache del mal d’amore il cui titolo potrebbe definire l’intera scrittura dell’autrice, leggibile come un unico discorso sulla soggettività femminile56.

Le tre protagoniste, Delia, Olga e Leda sono donne di origine napoletana che devono fare i conti

con una fase drammatica della loro vita, dovuta ad una perdita: la morte della madre nell’Amore

molesto, l’abbandono del marito nei Giorni dell’abbandono, la separazione dalle figlie ormai

cresciute nella Figlia oscura. Questa situazione le porta a una graduale perdita dell’autocontrollo

51 DONNARUMMA, 2019, p. 143. 52 SOTGIU, 2017, p. 76. 53 CAO-GUGLIELMI, 2018, p. 333. 54 SOTGIU, 2017, p. 76. 55 DE ROGATIS, 2018, p. 103. 56 Ivi, p. 100.

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17

che si sono sempre imposte57 (proprio come Elena durante gli anni pisani che impara a controllare

i suoi gesti e il suo accento napoletano, e come Lila che passa tutta la vita a tenere sotto controllo

la smarginatura).

In altre parole sono donne che, per l’appunto, si “smarginano”: i loro involucri di sicurezza, le

false armature del loro io si lacerano58, e tutto ciò avviene secondo meccanismi molto simili a

quelli della quadrilogia: da un iniziale imbarbarimento del loro comportamento attraverso l’uso

del dialetto e, a volte, anche della violenza fisica, per cui Olga arriva a picchiare il marito quando lo incontra in un negozio con la nuova compagna ventenne e si accorge che quest’ultima indossa

i suoi orecchini, fino al senso di perdita di tutto ciò che sembra certo e duraturo: Delia è pervasa

dal terrore di non riuscire a definire un proprio confine corporeo e di rimanere intrappolata nel

corpo materno e Leda sente di poter scivolare nel putridume che ha rovesciato dal ventre della

bambola che ha rubato59.

Delia, Olga, Leda, ma anche Elena e Lila, come scrive de Rogatis, «vivono sul “bordo del caos”

(FR 367), sono costantemente nauseate e quindi decentrate a causa di una smarginatura del proprio

corpo, della propria psiche, del proprio comportamento e del proprio linguaggio»60.

Attraverso le loro storie si possono delineare alcuni dei tratti tipici delle identità femminili

contemporanee: un «io femminile, con la sua lunghissima storia di oppressione e repressione» che

riesce ad elaborare i vari stadi della frammentazione fino a «ricomporsi in un modo sempre

imprevisto» (FR 312).

La principale differenza tra i primi tre romanzi e la quadrilogia sta nel fatto che le Cronache del

mal d’amore riservano una concentrazione assoluta sull’io della protagonista, sulla sua psiche,

rivelando al lettore i suoi pensieri, anche quelli più indicibili e condannabili, mentre L’amica

geniale è un’opera marcata da una narrazione polifonica, in cui il punto di vista di Elena ingloba

57 Ivi, pp. 101-102. 58 Ibidem.

59 Ivi, p. 106. 60 Ivi, p. 112.

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18

inevitabilmente anche quello di Lila, e l’unica, secondo de Rogatis, che possa «dare vita a un punto

di vista femminile in grado di nominare la ferocia cui le donne sono sottoposte senza ridurle al

ruolo stereotipato di vittime, senza fare della narrazione che le racconta una vicenda patetica e

lacrimevole»61. Ferrante usa la metafora di due teste che urtano e da cui scaturiscono immagini e

parole («Le nostre teste urtarono - a pensarci, per l’ultima volta - l’una contro l’altra, a lungo, e si

fusero fino a diventare una sola» [SBP 294]) proprio come Luce Irigaray, madre del femminismo

della differenza, usa quella delle labbra, in Quando le nostre labbra si parlano, per indicare uno

spazio in cui è possibile un parlare comune, fluido e femminile62.

Se molta della critica si è concentrata sul femminismo come premessa ideologica ai romanzi della

Ferrante, il movimento sessantottino e quello femminista entrano in parte nella narrazione e

rappresenteranno un punto di svolta nella vita di Elena.

La protagonista fa sua la prospettiva femminista grazie alla coltissima cognata Mariarosa, che

proprio attraverso quel linguaggio sboccato che Elena ha tanto faticato a dimenticare, le fa capire

che quei modelli di comportamento e quel modo di parlare che ha adottato sono indice della sua

subordinazione a una scala di valori connotata come maschile63:

Avevo ecceduto, m’ero sforzata di darmi capacità maschili. Credevo di dover sapere tutto, occuparmi di tutto. Cosa mi importava della politica, delle lotte. Volevo fare bella figura con gli uomini, essere all’altezza. All’altezza di cosa.Della loro ragione, la più irragionevole. Tanto da accanirmi a memorizzare frasari in voga, fatica sprecata. Ero stata condizionata dallo studio, che mi aveva modellato la testa, la voce. A quali patti segreti con me stessa avevo acconsentito, pur di eccellere. (SFR, 256).

E se l’istruzione aveva allontanato Elena dalle sue origini, la decostruzione femminista la riporta

a vivere prima a Napoli, poi nello stesso rione in cui è nata. Un ritorno al punto di partenza che è,

soprattutto, un ritorno a Lila («Lila non aveva mai cessato di parlare così; e io cosa dovevo fare,

61 Ivi, p. 45.

62 SOTGIU, 2017, pp. 71-72. 63 Ivi p. 73.

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19

ridiventare come lei, tornare al punto di partenza?» SCF p. 231), l’autodidatta per eccellenza che

non si allontana mai da Napoli, che parla in dialetto pur padroneggiando un ottimo italiano e che

sembra incarnare quel modello femminista che la narratrice sostiene64.

Nonostante tutto ciò, però, la Ferrante non abbraccia mai un’ideologia del femminismo, piuttosto

il pensiero post- femminista le consente di situare le sue narrazioni in una zona che Lucamante

definisce di «non-prossimità», in cui rimane possibile risalire alle voci più influenti per la sua

scrittura, ma senza ridurre le molte sfaccettature delle protagoniste a un modello teorico65.

64 SOTGIU, 2018. 65 SOTGIU, 2018, p.70.

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CAPITOLO I

Figure maschili in Elena Ferrante

Il dominio maschile è un elemento costante nelle opere di Elena Ferrante: tutte le sue protagoniste

sono costrette a subire la violenza degli uomini, tuttavia riescono spesso a combatterla

coraggiosamente66.

Forse il caso più emblematico è quello di Elena e Lila dell’Amica geniale che riescono a inserirsi

in spazi pubblici da sempre attribuiti agli uomini, diventando l’una una nota scrittrice e l’altra

affermandosi in campo imprenditoriale con la fondazione di un’azienda informatica. È indicativo

il fatto che riescano a farlo a partire da un contesto come quello del rione di Napoli, intriso di pregiudizi sessisti per cui all’uomo spetta lavorare e la donna viene confinata tra le mura

domestiche o, al massimo, le è concesso aiutare il marito nell’attività di famiglia.

Tutte le protagoniste di Ferrante (Elena, Lila, Delia, Olga e Leda) hanno vissuto l’infanzia a

Napoli, rappresentata come il luogo della violenza per eccellenza: la violenza dei morti ammazzati,

ma anche della vita quotidiana, dei rapporti fra individui e delle passioni «che non possono essere

vissute solo privatamente e che sono sempre sottolineate da un più di enfasi»67; di conseguenza lo

stesso dialetto napoletano viene percepito come la lingua della violenza68, da cui tutte cercano di

allontanarsi, allo stesso modo in cui cercano di allontanarsi da Napoli.

I libri di Ferrante mostrano vari strati del dominio e della violenza da un punto di vista femminile

storicamente subalterno, ma anche vite di donne che cercano di resistervi e di emanciparsi. Inoltre

i suoi scritti mettono in discussione le gerarchie interne al campo letterario, oltrepassando i limiti

di ciò che è tradizionalmente concesso alle scrittrici69. La stessa autrice, in un’intervista a

66 DE ROGATIS, 2018, p. 16. 67 DONNARUMMA, 2019, p. 144. 68 Ivi, p. 34.

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«Repubblica», afferma che la sua generazione ha «smesso di pensare che per scrivere grandi libri

bisogna essere un uomo. Oggi possiamo pensare con serenità che è possibile uscire dal gineceo

letterario in cui si tende a incasellarci, e che possiamo accettare la comparazione»70. Non vi è più,

o meglio, si cerca di superare quel conflitto interno che le scrittrici provano fin dal Settecento: da un lato il bisogno di approvazione da parte dei “padri letterari” e dall’altra il loro bisogno di

autodeterminazione71.

Il tentativo di uscire da una millenaria subalternità è regolato dalla violenza, che diventa una sorta

di sistema correttivo predisposto dal potere maschile per difendere le proprie prerogative, messe in discussione dall’emergere delle volontà e delle soggettività femminili, da sempre ignorate.

La virilità viene concepita come una sistematica sopraffazione degli uomini sulle donne che comincia proprio all’interno dell’ambito familiare. Come sottolinea la scrittrice i padri, i mariti e

i fratelli sono il veicolo primario della violenza fisica e contribuiscono alla sua normalizzazione:

«sono cresciuta in un mondo in cui sembrava normale che gli uomini (padri, fratelli, fidanzati)

avessero il diritto di picchiarti per correggerti, per educarti come donna, insomma perché volevano il tuo bene» (FR 339). Nel codice del rione, infatti, l’abuso è rappresentato come una forma di

protezione e di amore che gli uomini esprimono nei confronti della donna72.

Non solo, le vittime imparano la violenza e ne diventano complici e perpetuatrici, facendosi esse

stesse carnefici e diventando peggiori degli uomini:

Le donne combattevano tra loro più degli uomini, si prendevano per i cappelli, si facevano male. Far male era una malattia. Da bambina mi sono immaginata animali piccolissimi, quasi invisibili, che venivano di notte nel rione, uscivano dagli stagni, dalle carrozze in disuso dei treni oltre il terrapieno, dalle erbe puzzolenti dette fetienti, dalle rane, dalle salamandre, dalle mosche, dalle pietre, dalla polvere, ed entravano nell’acqua e nel cibo e nell’aria, rendendo le nostre mamme, le nonne, rabbiose come cagne assetate. Erano contaminate più degli uomini, perché i maschi diventavano furiosi di continuo ma alla fine si calmavano,

70 AGUILAR, 2015. 71 SAPEGNO,2018, p. 27.

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mentre le femmine, che erano all’apparenze più silenziose, accomodanti, quando si arrabbiavano andavano fino in fondo alle loro furie senza fermarsi più. (AG 33-34)

Queste parole fanno riferimento a un episodio in particolare dell’Amica geniale: Melina Caputo,

una lontana parente di Lila, rimane vedova e viene molto aiutata da Donato Sarratore, che vive nell’appartamento proprio sopra il suo. Egli si prodiga così tanto per lei che Melina se ne innamora

(«la gratitudine si mutò, dentro il suo petto di donna desolata, in amore, in passione» [AG 34]).

Questo porta a vari screzi con la moglie di Donato, Lidia, finché un giorno le due donne arrivano

addirittura alle mani e la famiglia Sarratore decide di trasferirsi.

Ma si possono registrare anche altri episodi di violenza femminile: Lila, con una freddezza disarmante, dà uno schiaffo all’amica Marisa Sarratore, figlia di Donato, perché ha insultato

Melina in sua presenza ed Elena schiaffeggia una sua compagna d’università perché l’ha accusata

di averle rubato dei soldi.

Inoltre, questa violenza femminile non si riversa solo su altre donne, ma, a volte, anche sugli

uomini: Lila minaccia Marcello Solara puntandogli un trincetto alla gola, perché ha osato afferrare Elena per un polso e romperle il braccialetto e Delia, nell’Amore molesto, durante i viaggi in tram

si sente prendere dal violento desiderio di proteggere la madre dalle attenzioni maschili,

esattamente come faceva il padre.

Allora mi prendeva la smania di proteggere mia madre dal contatto con gli uomini, come avevo visto fare a mio padre in quella circostanza. […] Lui la proteggeva dagli altri maschi con una violenza che non sapevo mai se avrebbe schiacciato soltanto i rivali o gli si sarebbe anche rivolta contro uccidendolo. (AM 63).

All’inizio di tutta questa catena di violenza si può collocare, appunto, la figura del padre, che è il

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1.1. Figure di padri

Già nell’Ottocento si assiste a una riaffermazione della virilità in tutti gli ambiti sociali, ma è il

Novecento ad essere definito come «l’epoca più gloriosa del virilismo»73, e non è un caso che

Elena Ferrante, con i suoi romanzi, ripercorra la storia d’Italia a partire dal secondo dopoguerra,

rappresentando diverse figure paterne. La maggior parte di esse ha una cosa in comune: sono dei

patres familias a cui si deve obbedienza e rispetto, a questi personaggi vengono riconosciute le

caratteristiche tipicamente maschili della forza, della fermezza, e della violenza, proprio secondo

il binomio paternità-maschilità.

Nell’Amica geniale è Fernando, il padre di Lila, a incarnare maggiormente questi ideali di virilità:

è il così detto padre-padrone, tipico nelle famiglie meridionali, che pretende una completa

obbedienza da parte dei figli, ma, soprattutto, dalla moglie e dalla figlia, e che condanna con

decisione ogni loro iniziativa. Lila però non ha niente della subalterna: è e sarà, nel corso della

quadrilogia, l’indomabile per eccellenza, che sin da bambina tenta di ribellarsi all’autorità paterna. L’episodio della violentissima lite tra Lila e il padre per il proseguimento degli studi è quello che

meglio mette in luce queste dinamiche di violenza e ribellione. Quando la maestra Oliviero si

accorge delle impressionanti capacità di Lila convoca la madre Nunzia per convincerla a far sostenere alla bambina l’esame per accedere alle scuole medie. Nunzia è altrettanto consapevole

delle qualità della figlia, ma è completamente succube del marito e spiega che sarà impossibile che

il padre accetti di farle continuare gli studi:

A Lila invece i genitori dissero di no (riguardo la possibilità di proseguire gli studi). Nunzia Cerullo fece qualche tentativo poco convinto, ma il padre non volle neanche discutere e anzi diede uno schiaffo a Rino che gli aveva detto che sbagliava. I genitori propendevano addirittura per non andare dalla maestra, che però li fece chiamare dal direttore. E allora Nunzia dovette andare per forza. Di fronte al nitido ma netto

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rifiuto di quella donna spaurita, la Oliviero, arcigna ma calma, sfoderò i temi meravigliosi di Lila, le soluzioni brillanti di problemi ardui e persino i disegni coloratissimi che in classe, quando si applicava, ci incantavano tutte perché, rubacchiando pastelli Giotto, tratteggiava molto realisticamente principesse con pettinature, gioielli, vestiti, scarpe che non s’erano mai visti in nessun libro e nemmeno al cinema parrochhiale. Quando però il rifiuto fu confermato, la Oliviero perse la calma e trascinò dal direttore la madre di Lila come fosse un’alunna indisciplinata. Ma Nunzia non poteva cedere, non aveva il permesso del marito. (AG 60).

Da quel momento Lila diviene nervosa, e comincia a tormentare i genitori sul fatto che avrebbe

voluto studiare il latino, proprio come Elena, la quale racconta le grida e gli insulti sentiti fin dalla strada quando l’amica litigava con il padre.

Un giorno, assiste a un episodio che l’«atterrì» (AG 77) :

Dalle finestre arrivava un napoletano sguaito e il fracasso di oggetti spaccati. […] Fernando urlava, rompeva cose, e la rabbia si autoalimentava, non riusciva a calmarsi, anzi i tentativi che faceva la moglie per bloccarlo lo rendevano più furibondo. […] Insistevo, quindi, nel chiamare Lila anche per tirarla fuori da quella tempesta di grida , di oscenità, di rumori, di devastazione. Gridavo: «Lì, Lì. Lì» ma lei – la sentii- non smise di insultare suo padre.

Avevamo dieci anni, a momenti ne avremmo fatti undici. Io stavo diventando sempre più piena, Lila restava piccola di statura, magrissima, era leggera e delicata. All’improvviso le grida cessarono e pochi attimi dopo la mia amica volò dalla finestra, passò sopra la mia testa e atterrò sull’asfalto alle mie spalle. Restai a bocca aperta. Fernando si affacciò continuando a strillare minacce orribili contro la figlia. L’aveva lanciata come una cosa. La guardai esterefatta mentre provava a risollevarsi e mi diceva con una smorfia quasi divertita: «Non mi sono fatta niente». Ma sanguinava, si era spezzata un braccio. I padri potevano fare quello e altro alle bambine petulanti. (AG 78)

Sebbene venga sottolineato che Fernando alza spesso le mani sui propri familiari, appena sente

messa in discussione la sua autorità (ogni volta che il figlio Rino, anche solo involontariamente,

gli manca di rispetto, oppure quando Nunzia cerca di calmarlo durante le litigate), non viene

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ma dalla mente chiusa. Semplicemente, per lui è inconcepibile che la figlia prosegua gli studi

(«perché deve continuare a studiare tua sorella che è femminina?» [AG 65]).

Ma, dopo aver, letteralmente, lanciato la figlia dalla finestra, sembra provare quasi un senso di

colpa per quello che ha fatto, per cui diventa «più lavoratore del solito» (AG 77) e finchè Lila

porta il gesso, non riesce più neanche a guardarla.

Elena sospetta che Lila, nonostante tutto, non abbia mai odiato veramente suo padre, come invece

lei odia sua madre:

Non me l’aveva mai detto, ma a me è sempre rimasta l’impressione che mentre io odiavo mia madre, e la odiavo davvero, profondamente, lei malgrado tutto non ce l’avesse affatto con suo padre. Diceva che era pieno di gentilezze, diceva che quando lui doveva fare i conti se li faceva fare da lei, diceva che l’aveva

sentitto dire agli amici che sua figlia era la persona più intelligente del rione, diceva che quand’era il suo onomastico le portava lui stesso la cioccolata calda a letto e quattro biscotti. (AG 65)

Inoltre, la violenza di Fernando viene, sotto un certo punto di vista, normalizzata («Certo, il padre,

Fernando, quando gli prendevano i cinque minuti diventava cattivo. Ma a tutti i padri venivano le

furie». [AG 77]) ed è giudicata poca cosa in confronto ai brutali episodi diffusi in tutto il rione: al

bar Solara a causa dell’alcool, del caldo e delle perdite al gioco si arriva spesso alle botte e anche

il proprietario, Silvio Solara, ha un bastone dietro il banco e non esita a colpire chi non paga le

consumazioni, chi ha chiesto prestiti e non li restituisce o chi faceva patti di qualsiasi genere ma

non li manteneva. In questo è spesso aiutato dai figli Michele e Marcello, che colpivano ancora

più duramente del padre.

La violenza, insomma, è considerata una cosa del tutto normale, e già da bambina Elena se ne

rende conto:

Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era

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così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione. (AG 33)

È chiaro come nella famiglia di Lila i ruoli siano precisamente stabiliti: l’autorità è attribuita al

padre e la sfera emotiva alla madre, che vediamo in più casi prendere le difese della figlia contro

il padre e il fratello, anche se non è in grado di imporsi. Nunzia è un genitore costretto a vivere nell’ombra e rappresenta la difficoltà di essere madre in un contesto come quello rionale di Napoli,

fra gli anni Cinquanta e Sessanta, dove a dominare sono povertà e ignoranza.

La famiglia di Elena è speculare a quella di Lila: è una famiglia matriarcale, in cui la madre ha un

ruolo dominante. Immacolata acquisisce quei comportamenti maschili che abbiamo visto essere

attribuiti alla figura paterna, e così facendo si sostituisce ad essa. Quest’ultima viene descritta

arcigna e severa, il padre, invece, è un uomo dai modi cordiali, ma sostanzialmente debole e, dal

punto di vista narrativo, piuttosto assente: gli accenni a questa figura sono piuttosto pochi nel corso

della quadrilogia e, comunque, non è mai protagonista di eventi significativi per Elena.

Ci salutavamo appena, ma la cosa non mi sembrava anomala. Con lui avevo sempre avuto pochi contatti,a volte affettuosi, spesso distratti, in qualche caso di sostegno contro mia madre. Ma erano stati quasi tutti superficiali. Mia madre gli aveva dato e tolto ruolo a seconda della convenienza e specialmente quando si trattava di me – a fare e disfare la mia vita doveva essere solo lei – lo aveva cacciato sullo sfondo. (SBP 194)

Anche la morte del padre viene solo accennata per giutificare il ritorno della protagonista a Napoli,

mentre gli ultimi mesi di vita della madre vengono descritti minuziosamente, e segnano Elena

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agli anni della sua infanzia. Questo porta Elena a modificare il suo atteggiamento: si preoccupa

per la madre e decide di chiamare la terza figlia Imma, in suo onore.

La stessa Elena nota la differenza tra il comportamento di suo padre e quello di Lila:

All’apparenza non era niente di diverso da quello che accadeva in casa mia quando mia madre di arrabbiava perché i soldi non bastavano e mio padre si arrabbiava perché lei aveva già speso la parte di stipendio che le aveva dato. In realtà c’era una differenza sostanziale. Mio padre si conteneva persino quando era furioso, diventava violento in sordina, impedendo alla voce di eplodere anche se gli si gonfiavano ugualmente le vene del collo e gli si infiammavano gli occhi. (AG 78)

Nella sua famiglia è piuttosto la madre a utilizzare la violenza tipica di quel contesto sociale: sgrida

e, a volte, picchia la figlia, è lei ad essere contraria al fatto che Elena continui a studiare, soprattutto

perché questo prevede ulteriori spese di cui farsi carico, ma grazie alla mediazione del padre

cambia idea, e, alla fine, sarà lei a lasciare i soldi alla figlia per l’esame di ammissione alla Normale

di Pisa.

La conflittualità, quindi, riguarda Elena e la madre, la sua paura di somigliarle e diventare come

lei. Questo, specifia de Rogatis, «significa precipitare in una caverna oscura quanto lo scantinato

in cui erano cadute le bambole di Elena e Lila: in entrambi i casi luoghi oscuri in cui una millenaria disuguaglianza e violenza di genere occulta le donne. […] La caduta nella caverna è un crollo

inarrestabile che fa ritrovare alla figlia un mondo ctonio, prelinguistico, abitato da matriarche primordiali». Quest’ultime non sono altro che delle antenate umiliate e oppresse che hanno

composto e compongono tutt’ora la «la non-storia del genere femminile»74.

Diventare come la madre significa, quindi, diventare parte della catena di queste donne spodestate e subalterne: per questo la figlia esprime la propria “matrofobia” come terrore e resistenza alla

minaccia della’assimilazione.

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28

Ma quest’assimilazione spesso avviene. Per esempio in Elena che, durante la gravidanza, inizia a

zoppicare proprio come Immacolata e sente che anche i brutti modi della madre cominciano a

invaderla:

Ero diventata come mia madre, ma non quella di adesso, che era una vecchietta esile, atterrita;assomigliavo piuttosto alla figura astiosa che avevo sempre temuto e che ormai esisteva solo nella mia memoria. Quella madre persecutoria si scatenò. [SBP 169]

La stessa cosa succede a Delia, che, nell’Amore molesto, è pervasa dal terrore di non riuscire a

definire il proprio io corporeo e di essere invasa dalle forme della prorpia madre Amalia, ma nel

finale accetta questa simbiosi:

Il sole cominciò a scaldarmi. Mi frugai nella borsetta ed estrassi la mia carta d’identità. Fissai la foto a lungo, studiandomi di riconoscere Amalia in quell’immagine. Era una foto recente, fatta apposta per rinnovare il documento scaduto. Con un pennarello, mentre il sole mi scottava il collo, disegnai intorno ai miei lineamenti la pettinatura di mia madre. Mi allungai i capelli corti muovendo dalle orecchie e gonfiando due ampie bande che andavano a chiudersi in un’onda nerissima, levata sulla fronte. Mi abbozzai un ricciolo ribelle sull’occhio destro, trattenuto a stento tra l’attaccatura dei capelli e il sopracciglio. Mi guardai, mi sorrisi. Quell’acconciatura antiquata, in uso negli anni Quaranta ma già rara alla fine degli anni Cinquanta, mi donava. Amalia c’era stata. Io ero Amalia. (AM 171)

Un’altra figura paterna nell’Amica geniale è Donato Sarratore, padre di Nino, il primo (e forse

unico) grande amore di Elena. Come vedremo, Sarratore padre sarà una figura chiave non solo

nella vita del figlio ma anche in quella della voce narrante.

Così nel primo romanzo viene descritto per la prima volta:

Donato era un frequentatore assiduo della parrocchia della Sacra Famiglia. […] Era un uomo cordialissimo ma molto serio, casa, chiesa e lavoro, faceva parte del personale viaggiante delle Ferrovie dello stato, aveva uno stipendio fisso con cui mantenere dignitosamente la moglie Lidia e cinque figli, il più grande si

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29

chiamava Nino. Le volte che non era in viaggio sulla tratta Napoli-Paola e ritorno, si dedicava ad aggiustare questo e quello in casa, andava a fare la spesa, portava a passeggio in carrozzina l’ultimo nato. Cose molto anomale nel rione. A nessuno veniva in mente che Donato si prodigasse a quel modo per alleviare le fatiche della moglie. No: tutti i maschi delle palazzine, mio padre in testa, lo consideravano un uomo a cui piaceva fare la femmina, tanto più che scriveva poesie e le leggeva a chiunque. (AG 34-35).

A un primo impatto, quindi, Donato sembra un’eccezione tra i tipi di uomini che si trovano nel

rione: un uomo sensibile e cortese, un intellettuale dai modi gentili. È sostanzialmente un piccolo

borghese che vive tra i plebei e intreccia la sua vita a quella del quartiere, ostentando un distacco

travestito da filantropia paternalistica verso i suoi abitanti75.

Quando Elena passa l’estate ad Ischia, presso Nella, la cugina della maestra Oliviero, dove

trascorre le vacanze anche l’intera famiglia Sarratore, rinnova queste prime impressioni su di lui:

era sempre pieno di attenzioni non solo per la famiglia, ma anche per lei.

In realtà il quadro si fa più completo e complesso attraverso gli occhi di Nino: il figlio ha un rapporto molto teso con il padre, tanto che resta sull’isola in modo da passare con lui il minor

tempo possibile.

Se la figlia Marisa lo adora e lo ritiene l’uomo più buono e intelligente del mondo, Nino non lo

sopporta e, una sera, confessa questi suoi sentimenti ad Elena:

«Dedicherò la mia vita» disse come se si trattasse di una sua missione, «a cercare di non assomigliargli». «è un uomo simpatico».

«lo dicono tutti». «E allora?».

Fece una smorfia sarcastica che per qualche secondo lo imbruttì. «Come sta Melina?»

Lo guardai stupita. Io ero stata ben attenta a non menzionare mai Melina in quei giorni di chiacchiere fitte, e lui ecco ne parlava.

«Così».

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«È stato il suo amante. Lo sapeva benissimo che era una donna fragile, ma se l’è presa ugualmente, per pura vanità. Per vanità farebbe male a chiunque e senza sentirsene responsabile. Poiché è convinto di far felice tutti, crede che tutto gli vada perdonato. Va a messa ogni domenica. Tratta noi figli con riguardo. È pieno di attenzioni per mia madre. Ma la tradisce continuamente. È un ipocrita, mi fa schifo». […] «Ha giurato fedeltà a mia madre davanti a Dio» esclamò di colpo sopratono. «Non rispetta né lei né Dio». (AG 216-217)

Donato, invece, sembra stimare particolarmente il figlio più grande: si dispiace di non trovare il

figlio ad Ischia quando torna dal lavoro, elogia più volte la sua bravura negli studi, e lo difende

dalle critiche della moglie Lidia che definisce Nino «sempre nervoso». (AG 220)

Per tutto questo, Elena sembra propendere per Donato e sente troppo severe le parole con cui il

figlio lo descrive:

Donato Sarratore, per quel che avevo visto coi miei occhi, sentito con le mie orecchie, non aveva niente di così repellente, era il padre che ogni ragazza, ogni ragazzo varebbe voluto, e Marisa infatti lo adorava. Per di più, se il suo peccato era la capacità di amare, non ci vedevo niente di particolarmente malvagio, persino di mio padre mia madre diceva con rabbia che chissà quante ne aveva combinate. Di conseguenza quelle frasi sferzanti, quel tono tagliente mi sembrarono terribili. (AG 217)

In realtà, Elena scoprirà presto che Nino non ha tutti i torti: dopo aver ricevuto una lettera dell’amica Lila, in cui le racconta che il padre e il fratello insistono perché sposi Marcello Solara,

decide di tornare a Napoli per rimanerle vicino. Durante l’ultima notte a Ischia Donato si introduce

nella sua stanza e la molesta:

Poi sentii dei passi.Vidi entrare in cucina l’ombra di Sarratore, scalzo, col suo pigina blu. Mi tirai addosso il lenzuolo. Andò al rubinetto, prese un bicchiere d’acqua, bevve. Restò in piedi per qualche secondo davanti al lavandino, posò il bicchiere, si mosse verso il mio letto. Mi si accucciò di lato, con i gomiti appoggiati sul bordo del lenzuolo.

«Lo so che sei sveglia» disse. «Sì».

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31 «Non ci pensre alla tua amica, resta».

«Sta male, ha bisogno di me».

«Sono io che ho bisogno di te», disse, e si protese, mi baciò sulla bocca senza la leggerezza del figlio, schiudendomi le labbra con la lingua.

Restai immobile.

Lui scostò appena il lenzuolo seguitando a baciarmi con cura, con passione, e mi cercò il petto con la mano, me lo accarezzò sotto la camicia. Poi mi lasciò, scese tra le mie gambe, mi premette forte due dita sopra le mutandine. Non dissi, non feci niente, ero atterrita da quel comportamento, dall’orrore che mi faceva, dal piacere che tuttavia provavo. I suoi baffi mi pungevano il labbro superiore, la sua lingua era ruvida. Si staccò dalla mia bocca piano, allontanò la mano.

«Domani sera ci facciamo una bella passeggiata io e te sulla spiaggia» disse un po’ roco, «ti voglio molto bene e lo so che anche tu ne vuoi tantissimo a me. È vero?».

Non dissi niente. Lui mi sfiorò di nuovo le labbra con le labbra, mormorò buonanotte, si sollevò e uscì dalla cucina. Io seguitai a non muovermi, non so per quando tempo. Per quanto cercassi di allontanare la sensazione della sua lingua, delle sue carezze, della pressione della sua mano, non ci riuscivo. Nino aveva voluto avvisarmi, sapeva che sarebbe successo? Provai un odio incredibile per Donato Sarratore e disgusto per me, per il piacere che mi era rimasto in corpo. Per quanto oggi possa sembrere inverosimile, da quando avevo memoria fino a quella sera non mi ero mai data al piacere, non lo conoscevo, sentirmelo addosso mi sorprese. Restai nella stessa posizione non so per quante ore. Poi, alle prime luci, mi riscossi, raccolsi tutte le mie cose, disfeci il letto, scrissi due righe di ringraziamento per Nella e me ne andai. (AG 227-228).

L’idea di Donato fedifrago viene, quindi, confermata. Elena non parlerà mai a nessuno di questo

episodio e neanche lo rievocherà nel corso della quadrilogia. È significativo, invece, che riporti spesso alla mente un’altra esperienza che farà seguito a questa: la perdita della verginità proprio

con quest’uomo, che è anche il padre del ragazzo di cui è innamorata.

Due anni dopo Elena torna a Ischia con Lila, che nel frattempo si è sposata con Stefano Carracci;

durante questa vancaza Lila inizia una passionale relazione extraconiugale proprio con Nino.

Il rapporto sessuale con Donato Sarratore sarà per Elena una sorta di ripicca e di compensazione

per ciò che le due persone che lei ama di più al mondo stanno nel frattempo vivendo, ma da quest’esperienza farà una scottante scoperta di sé:

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Avevo una me nascosta – capii – che dita, bocca, denti, lingua sapevano scovare. Strato dietro strato, quella me perse ogni nascondiglio, si espose in modo inverecondo, e Sarratore mostrò di conoscere il modo per evitare che sfuggisse, che si vergognasse, seppe trattenerla come se fosse la ragione assoluta della sua motilità affettuosa, delle sue pressioni ora leggere ora frenetiche. (SNC 291)

Ciò che Elena sperimenta è anche lo svincolamento dalla morale sessuale condivisa dal mondo popolare e da quello borghese: il disciplinamento dell’eros femminile nel matrimonio e nella

subordinazione morale.

Se da un lato, spiega de Rogatis, la padronanza sessuale di Sarratore consente a Elena di

sperimentare il codice erotico della «vergine passiva, suscitatrice di una intensa passione fisica»

(«non pretese nessun mio intervento, non mi prese mai una mano perché lo toccassi, ma si limitò

a convincermi che tutto di me gli piaceva e si applicò sul mio corpo con la cura, la devozione, la

fierezza del maschio tutto preso dalla dimostrazione di come conosce a fondo le femmine» [SNC 291]), dall’altro questo abbandono al piacere maschile non implica la sua sottomissione

intellettuale e morale76. Questo è un elemento particolarmente importante, perché rende quest’esperienza completamente diversa da quelle che Elena vivrà in futuro e influenzerà

profondamente il suo rapporto con gli uomini e il suo modo di vivere la sessualità. Inoltre, segnerà anche l’avvio della sua carriera di scrittrice, poiché questo evento sarà il nucleo centrale del suo

primo romanzo, e proprio per questo il suo libro sarà molto criticato, non solo da chi lo recensisce,

ma anche da alcuni abitanti del rione stesso e soprattutto dal fidanzato del tempo, Pietro Airota,

che trova quelle pagine troppo spinte.

Elena, in realtà, prova disprezzo per Sarratore, per il «liricume» linguistico che usa per nascondere

la fame di sesso, ma è proprio questo disprezzo che, svincolandola dalla tutela maschile, le apre lo spazio dell’iniziazione sessuale.

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Subito dopo l’atto, infatti, ciò di cui Elena si preoccupa è di trovare la giusta «tonalità della

minaccia» per dissuadere l’uomo dal cercarla di nuovo:

Lungo tutta la strada del ritorno continuai a minacciarlo un po’ perché tornò alla carica con frasette mielose

e volevo che capisse con chiarezza i miei sentimenti, un po’ perché ero meravigliata di come la tonalità della minaccia, che fin da piccola avevo messo in atto solo in dialetto, mi venisse bene anche in lingua

italiana. (SNC 292).

L’essere riusciuta ad esprimere la minaccia in italiano la fa sentire autentica77 e le rivela la banalità

e la goffaggine del modo di parlare di Sarratore, che fino due anni prima l’aveva incantata, per il

fatto che avesse scritto un libro di poesie e scrivesse per i giornali. Questo è la conferma di ciò che

Elena e Lila hanno sempre affermato che lo studio e le abilità intellettive sarebbero state uno

strumento di emancipazione e di fuga dalla miseria in cui hanno sempre vissuto.

Un’altra la figura paterna molto interessante è il padre di Delia nell’Amore molesto, che per molti

aspetti è simile a Fernando: è un uomo che pur di ottenere obbedienza si arroga il diritto di usare la violenza sulla moglie, ma con l’aggravante che questa violenza non si lega alla realtà, ma al

puro sospetto del tradimento:

Si comportavano con quell’uomo come mio padre si immaginava che si comportassero le donne, come

s’era immaginato che si comportasse sua moglie appena lui girava le spalle, come anche Amalia forse aveva fantasticato per tutta la vita di comportarsi. (AM 69)

Al contrario che per il padre di Lila, di questa figura non viene descritto nessun elemento positivo:

addirittura ne viene taciuto anche il nome, rendendolo sentimentalmente estraneo alla figlia.

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