Maria Teresa Berlendis nel 1743 Si trattava di una relazione tra un giovane e
MATRIMONI CLANDESTIN
Il «gagliardo impulso delle proprie passioni»
Nel silenzio sonnacchioso delle prime ore pomeridiane di una fredda giornata di febbraio del 1739 risuonarono seccamente alcuni colpi alla porta del parroco di S. Cancian. La sorella del prete corse ad affacciarsi al balcone e riferì al fratello che di sotto stava il figlio del nonsolo, accompagnato da una persona bisognosa di conferire con lui.
«Che salgano pure», possiamo immaginare abbia detto alla sorella. Apertasi la porta della camera, i due uomini non apparvero però soli: all’uscio si affacciava subito dopo una giovane donna avvolta in uno
zendale e altre due persone facevano capolino. Il piovan cominciò ad
agitarsi. Confidò in seguito che «alla comparsa di Donna ed Uomo ed alli moti che fecero in casa mia, m’accorsi e mi insospettij, che questi volessero celebrare avanti di me qualche matrimonio clandestino e dannato».
Se ne sentivano ormai ogni giorno di questi fatti e bisognava essere assai circospetti.
Il timore si fece più fondato quando riuscì a intravedere il volto della giovane e a riconoscerla. Ammise infatti che sul suo conto «avevo qualche antecedente sospeto». Il parroco decise di mettere in atto immediatamente una strategia difensiva: «cominciai a gridare che partissero, cercai di fuggire da loro, mi otturrrai le orecchie mostrando di non voler ascoltare» ma tutto questo suo agitarsi non fu in grado di interrompere l’azione. Tentò allora di uscire dalla stanza, ma la giovane donna «afferratomi nelle mani e negli abiti» lo costrinse a fermarsi. Obbligato a rimanere dov’era, il parroco continuò a urlare per coprire ogni emissione di voce ma non poté evitare di guardare la scena che gli si prospettava dinnanzi: «viddi tanto l’Uomo che la Donna inginocchiati davanti avanti a me». Si rifiutò poi di ammettere di aver compreso le parole da loro pronunciate, specie la fatidica formula usata in queste situazioni, in genere declinata in veneziano: questo xe me marìo, questa
xe me mugièr. Si mostrò invece fiero della rapidità con cui aveva reagito
poco dopo. Quando lo sconosciuto, che si era genuflesso con la giovane, gli aveva consegnato una carta, in cui era riportato il suo nome, quello della donna e dei due testimoni, e se ne era partito tutto soddisfatto ripetendo «l’è fatta, l’è fatta», lui aveva gettato subito la scrittura fuori della finestra1.
No, non è una scena tratta da un romanzo o da una sceneggiatura di una commedia di Goldoni o di Chiari e neppure la trama di un dramma musicale, anche se a prima vista potremmo essere tentati di crederlo: si tratta invece della vicenda del tutto reale intercorsa tra il patrizio
1
Domenico Capello2 e Angiola Zandonà e che si risolse - dopo il
processo per verificare la validità del consenso scambiato tra i due, la necessaria separazione temporanea e le penitenze imposte - con la benedizione del matrimonio.
Il fattaccio era successo il 7 febbraio e alcuni giorni dopo i due si presentavano in Curia, obbedendo all’ordine del Tribunale Ecclesiastico3,
e consegnavano una supplica con cui giustificavano il loro gesto, con una motivazione che val la pena di ascoltare:
[...] il nobil huomo. Domenico Capello q. K. Pieri e la signora Angiola Zandonà giugali e pentiti del loro trascorso, confermando pur troppo vero il matrimonio clandestino da medesimi celebrati alla presenza del signor don Antonio Casella paroco della sposa e de’ testimoni dallo stesso accennati nella sua riferta. Come però la loro colpa non è provenuta da altro mottivo, che dalla loro fragilità, e da troppo gagliardo impulso delle proprie passioni, così ne sperano dalla di lei Pastorale Clemenza perdono e compatimento genuflessi per tanto innanzi la giustizia di V. S. Illustrissima e Reverendissima umilmente implorano non dover permettere che corra più a lungo la separazione sudeta sopra un matrimonio già consumato.4
In quello stesso anno altre due coppie furono spinte dal troppo
gagliardo impulso delle proprie passioni a superare a piè pari ostacoli e
disparità con un matrimonio a sorpresa e si può pensare che il successo dell'azione di Domenico Capello e di Angiolà Zandonà abbia rappresentato un esempio da seguire. Infatti qualche mese dopo, il 27 maggio, il patrizio Stefano Guerra5 e Gaetana Fumani sorprendevano a
letto il parroco di San Biagio, dichiarandosi marito e moglie e la stessa
2
Domenico Capello, del ramo di S. Giovanni in Laterano, era nato l'11 gennaio 1718 da Pietro e Orsola Morosini; non risulta registrato un suo matrimonio, P. 1778, p. 48.
3
La denuncia del parroco avviava il procedimento di giustizia ecclesiastica di «foro esterno» episcopale che riguardava, come in questo caso, le materie civili, oltre ai reati morali e sessuali e quelli di opinione, e che era fondato su un ‘monitorio’ di citazione. Si richiedeva cioè la comparizione degli accusati, che, se non eseguita, dava corso alla scomunica, cfr. Elena Brambilla, Alle origini
del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 32-52; Eadem, I reati morali tra corti di giustizia e casi di coscienza, in I tribunali del matrimonio, pp. 521-575.
4
ASPVE, SA, CMC, fasc. 11; il corsivo è mio. Dopo il periodo di separazione e l’attestazione del parroco di essersi confessati, il 17 aprile il Capello veniva condannato a pagare 25 ducati, e dopo il versamento veniva dato il mandato di benedizione al parroco e di registrazione del matrimonio con la stessa data, 7 febbraio.
5
Stefano Guerra, del ramo S. Girolamo, di Andrea e Elisabetta Dolfin, era nato il 25 giugno 1708; è registrato un suo assai tardivo (secondo) matrimonio con Giulia Santorio nel 1770, P. 1792, p. 141. Matrimonio clandestino in Ivi, fasc. 12. Dopo la separazione, la condanna al pagamento di 25 ducati destinati all’istituto delle Penitenti, il matrimonio fu benedetto. Goldoni, che gli dedicò
La buona madre, lo ricorda come un gran viaggiatore e così Casanova, III, pp.
74-5. Il matrimonio non diede eredi, che invece nacquero con le seconde nozze. Il figlio, Stefano Dolfin, non registrò il suo matrimonio segreto, Hunecke, Il patriziato veneziano, p. 292.
procedura veniva utilizzata, nel cuore della notte del 23 novembre, dal nobil uomo Pietro Emo e da Cornelia Gera6.
A Venezia le notizie viaggiavano veloci, era difficile sfuggire agli occhi attenti del vicinato. Fatti di tal sorte, poi, riscuotevano un particolare interesse proprio perché riguardavano, come si è visto, la libertà personale, il conflitto tra genitori e figli, l'affermazione individuale contro i legami imposti dalle famiglie e dal ceto. Talvolta erano gli stessi interessati a volerne fare motivo di pubblico dominio, ricercando il consenso popolare: Pietro Emo, dopo il matrimonio clandestino, aveva affisso in vari punti della città e sulla porta del Palazzo Patriarcale un proclama che rivendicava il suo amore e la legittimità delle nozze7. Il suo manifesto aveva certamente dato adito a
un numero infinito di conversazioni, di prese di posizione, di mormorii passati di bocca in bocca; ne avranno tratto beneficio i giovani, che avevano orecchie ben aperte per questi temi e che erano, come si è già visto, assai più lesti nell’agire in tal senso, specialmente a partire dalla metà del Settecento.
La documentazione conservata presso la Curia Patriarcale ce ne offre una conferma. Vi rintracciamo 50 processi per nozze a sorpresa8: il
primo si riferisce a una vicenda di fine Cinquecento in cui era protagonista un nobile Querini, 4 sono registrati nel Seicento, per la metà coinvolgenti dei borghesi, infine ben 45 sono attestati per il Settecento. Non c’è che dire: nel secolo di cui ci occupiamo, assistiamo a un’esplosione del fenomeno e, se guardiamo con attenzione i dati, siamo in grado di circoscriverne più precisamente la dinamica. Sono 11 i matrimoni clandestini avvenuti nella prima metà del diciottesimo secolo, contro i 34 della seconda parte. Osserviamo la curva dell'incremento: riscontriamo 9 casi negli anni ‘50, 6 negli anni ‘60, ben 9 negli anni ‘70, 7 negli anni ’80, e tre nei successivi. Le nozze a sorpresa sono pertanto un'emergenza della seconda metà del secolo e Venezia dimostrava di allinearsi a quando succedeva in tutta l’Europa9.
6
ASPVE, SA, CMC, fasc. 11 bis. Cornelia Gera, figlia di Giovanni, ragionato alle Rason e della Contessa Maria Vimes, il 9 dicembre per ordine del Tribunale degli Inquisitori fu portata all’istituto del Soccorso mentre Emo veniva ristretto nella fortezza di Palmanova anche per la richiesta del Patriarca Correr al Consiglio dei Dieci: i due infatti non avevano obbedito al monitorio di separazione «continuando a coabitare con la pretesa moglie», ASVe, IS, A, b. 532, c. 51r.; liberato il 24 maggio del 1740, il 4 luglio 1740 presentava una nuova supplica con «la dovuta rassegnazione» al Patriarca richiedendo la riunione. Il matrimonio, assolta la condanna a pagare ducati 50 in elemosina al Pio Loco delle Penitenti e dopo attestato di confessione del parroco di S. Zulian, in assenza di altri impedimenti, veniva benedetto.
7
ASPVE, SA, CMC, b. 95, fasc. 11 bis, 1739. Cfr. Plebani, Ragione di Stato e
sentimenti nel Settecento, pp. 5-6; Gaetano Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini (metà sec.16.-metà sec.18.), in Id., La società veneta e il suo diritto,
p. 58.
8
ASPV, SA, CMC, b. 95 e b. 96.
9
Sulle concezioni in Europa: Cozzi, Il dibattito sui matrimoni clandestini. Sul matrimonio clandestino prima di Trento: Beatrice Gottlieb, The Meaning of
I tre casi del 1739, tutti caratterizzati dall'unione di uomini patrizi con donne non aristocratiche, potrebbero indurci a credere che il matrimonio clandestino nella città lagunare fosse un monopolio nobiliare, ma le cose non stanno in questi termini. Sino al 1750 sembrano contendersi il primato sia i borghesi che gli aristocratici: troviamo 4 coppie di borghesi, 3 composte da un aristocratico non veneziano e una donna borghese, e 4 coppie che presentano l’unione di un membro della nobiltà veneta, per l’esattezza tre uomini e una donna, con un patner d’altro ceto. Nell’altra metà del secolo le proporzioni appaiono radicalmente mutate: tra le 34 nozze clandestine registrate, riscontriamo 28 casi in cui i protagonisti sono entrambi borghesi e i restanti 8 evidenziano disparità esistenti per lo più tra uomini del patriziato o dell’aristocrazia veneta e donne borghesi10.
Non siamo al cospetto di grandi numeri e non si può certo parlare di una pratica di massa, tuttavia il fenomeno è un buon indicatore della pressione e dell’energia dei sentimenti che favorivano l’aumento di atti trasgressivi tesi a imporre la legittimità di un’unione tra un uomo e una donna e il protagonismo assoluto dei due sposi. Inoltre dobbiamo prendere con cautela questi dati e ritenerli solo parziali testimoni. Infatti se confrontiamo la documentazione esistente presso gli Esecutori contro la Bestemmia11, incaricati di perseguire tali reati nella popolazione non
nobile, denunciando al Consiglio dei Dieci quelli che coinvolgevano patrizi, otteniamo un riscontro limitato: vi sono 6 processi per matrimonio clandestino avviati da tale magistratura solo nel tardo Settecento e di queste vicende appena due trovano corrispondenza anche nelle carte della Curia12: degli altri quattro matrimoni, due si
French History, edited by R. Wheaton and T.K. Hareven, Philadelphia:
University of Pennsylvania Press, 1980.
10
Gaetano Cozzi ha interpretato questo numero ridotto di clandestini di patrizi come una prova dell’efficacia dell’azione repressiva messa in atto nel secondo Settecento, Padri, figli e matrimoni clandestini, p. 59; si potrebbe però pensare che i giovani aristocratici preferissero strategicamente puntare su altre strade, nozze segrete o all’insaputa dei genitori o ancora convivenze, mentre le famiglie cercavano di agire preventivamente, bloccando i possibili clandestini con le correzioni.
11
Sugli Esecutori cfr. Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia: vicende
della magistratura degli esecutori contro la bestemmia. Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '500-'600. Gli Esecutori contro la bestemmia in
Gaetano Cozzi, Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV -
XVIII), I. Roma, Jouvance, 431-528; Madile Gambier, La donna e la giustizia penale veneziana nel XVIII secolo, in Ivi, pp. 529-575; Scarabello, Esecutori contro la bestemmia.
12
Il matrimonio clandestino era un crimine che interessava sia i tribunali ecclesiastici che quelli civili e in cui valeva il principio di concorrenza: il caso era attribuito al tribunale che si avviava per primo, cfr. Brambilla, Alle origini
del Sant’Uffizio, pp. 284-5. La Chiesa tese a esercitare, specie dopo Trento, un
monopolio della materia matrimoniale che in molti stati si realizzò pienamente, ma non del tutto a Venezia. Magistrature secolari presiedevano ai reati sessuali, morali, alle doti e alle questioni legate al matrimonio, specie dei patrizi, configurando un rapporto complesso con la Chiesa e i suoi tribunali, specialmente a partire dalla fine del Seicento, cfr. Silvana Seidel Menchi, I
riferiscono a casi degli anni ‘70, facendo pertanto incrementare il numero dei clandestini in quell’arco di tempo a 11; dei due rimanenti, uno appartiene agli anni ‘80 e un altro agli anni ‘90. Il numero delle nozze a sorpresa riguardante i contesti borghesi sale dunque a 3213.
L'aumento del ricorso a questa strategia si fa dunque evidente nel secondo Settecento e mette al centro della scena in particolare gli anni ’70 del secolo: anni cruciali nella società veneta, anni di riforme, di stimoli, caratterizzati da una rottura generazionale14.
Altri indizi ci convincono che i dati restituiti da queste fonti non siano peraltro pienamente esaustivi: non abbiamo alcuna indicazione sui matrimoni clandestini avvenuti fuori Venezia o in altri stati15; qualche
caso di forestieri che sorprendevano i parroci veneziani è presente tra i processi del Foro ecclesiastico e ci avverte della necessità di contemplare questa casistica. Nel 1721 la cantante romana Agata Morelli e il conte ferrarese Carlo Bottazzi esprimevano il loro mutuo consenso davanti al parroco di S. Angelo, dopo aver tentato invano di sposarsi regolarmente a Ferrara, impediti dall’opposizione del padre dell’aristocratico16.
Allontanarsi dalla città, in cui si era conosciuti e in cui riusciva difficile mettere in opera una vera ‘sorpresa’ al parroco, poteva dare maggiori speranze di successo. Era la via che avevano deciso di intraprendere la giovane patrizia Giustiniana Gussoni e il suo innamorato, il conte bergamasco Francesco Tassis, raggiungendo rocambolescamente Mantova e lì congiungendosi clandestinamente nel dicembre del 1731; nel 1758 il nobiluomo Ferigo 4° Girolamo Priuli e Maria Evangelisti, figlia di un maestro di ballo, fuggivano a Bologna, dove, senza rispettare i dettami tridentini, si dichiaravano marito e moglie davanti a un prete17.
Italia dal XII al XVIII secolo, a cura di Silvana Seidel Menchi e Diego
Quaglioni, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 25-6.
13
ASVe, ECB, Processi, b. 35: matrimonio clandestino di Giovanni Salvadori e Regina Armati, 1779; b. 36: matrimonio clandestino di Modesto Madalena da Vicenza con Cattarina Jaxih, 1779 e di Dorigo Cente e Caterina Nissa, 1779; b. 38: Sante Manzato con Giustina Rosada; b. 52: Catterina Businari e Paolo Craveri, 1788: b. 43: di Domenica Cevolin e Gio.Batta Barbarigo, 1790. I processi, sinora riscontrati, significativamente appaiono concentrati negli anni ’70 e ‘80 quando lo Stato iniziava a voler intervenire nella materia matrimoniale cfr. Gaetano Cozzi, Note e documenti sulla questione del «divorzio» a Venezia, pp. 275-301.
14
Piero Del Negro, Introduzione, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta
della Serenissima, 8. L’ultima fase della Serenissima, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, 1998, pp. 56-8.
15
Una fuga con matrimonio a Trieste, per superare la contraddizione paterna, in Scarabello, Esecutori contro la Bestemmia, pp. 79-80.
16
ASPV, SA, CMC, b. 95, fasc. 7.
17
Il matrimonio clandestino che, per essere avvenuto fuori Venezia, non trova riscontro nelle carte del Patriarcato bensì in quelle degli Inquisitori è quello di Giustiniana Gussoni e Francesco Tassis : il processo avviato dal Consiglio dei Dieci per la fuga e il matrimonio Gussoni-Tassis, in ASVe, CX, Criminali, r. 148, 1731, cc. 51r- 53; sulla fuga del Priuli le annotazioni degli Inquisitori in ASVe,
Se i casi che coinvolgevano patrizi rimanevano impigliati nelle carte del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori, altrettanto non avveniva per borghesi e popolani e ciò ci deve rendere cauti nell’affidarci totalmente ai numeri emersi. Le carte della Curia patriarcale, quelle degli Esecutori contro la Bestemmia, degli Inquisitori o del Consiglio dei Dieci, lungi dal disegnare l’intero quadro, ci segnalano più propriamente l'apertura di un processo da parte del Tribunale Ecclesiastico o, ben più raramente, di quello civile oppure di entrambi.
Non troviamo traccia infatti di tutti quegli attentati ai parroci avvenuti durante la messa che sono invece narrati nelle suppliche dei padri agli Inquisitori e che generavano per lo più una ‘correzione’ dei giovani coinvolti. Ne abbiamo già incontrato alcuni, come quello del patrizio Augusto Zacco e di Catterina Miel nella chiesa di Santa Marina nel 1749, oppure quello avvenuto nella cappella maggiore di S. Raffaele Arcangelo il 14 novembre 1775 da parte del nobiluomo Francesco Maria Badoer e di Eleonora Baret, ma l’elenco è piuttosto corposo.
Nel 1772 il conte Giovanni Carlo Savorgnan si rimetteva nelle mani degli Inquisitori affinché allontanassero la minaccia che incombeva sulla sua famiglia, a causa di uno dei suoi figli, Girolamo. Non solo viveva «in un continuo concubinato con Anna Givelli vagante d’abitazione, stando il giorno in una casa in calle delle Rasse nella corte riguardante il Rio detto del Vin e la notte in altra casa nella calle detta Santa, dietro l’Ospital de Mendicanti, in casa di detto Isidoro Giampalade maestro di maniere dell’Ospedaletto» ma aveva fermamente manifestato l’intenzione di sposarla. Infatti, «tratto dagl’allettamenti di detta femina a procurare ogni mezzo per unirsi secco lei in matrimonio», e riuscendogli difficile la via ordinaria, si era risolto a mettere in atto una strada alternativa. Giovanni Carlo Savorgnan rivelava così al Tribunale che «vari furono gli attentati presso il Pievano di San Gio. Novo, per sortire l’intento». Per il Savorgnan c’era di che preoccuparsi seriamente: «a fronte dell’insidie che tutto dì corrono verso i figlioli di famiglia temo la buona riuscita»18.
Non erano bizze di un padre ossessivo: erano le parole di chi viveva, dalla propria prospettiva, una lotta tra ragioni differenti, quelle dei padri e quelle dei figli, e lo scontro era ampio e senza esclusione di colpi. Ne sono testimoni le ‘correzioni’ che il Tribunale degli Inquisitori infliggeva su richiesta dei genitori: delle oltre trecento che sono annotate nei loro registri, un centinaio serviva a bloccare preventivamente un matrimonio all’orizzonte, fosse a sorpresa, segreto o pubblico.
Oltre a quel gruppo di clandestini documentati, bisogna dunque tener conto delle mancate registrazioni, dei casi sfuggiti, dei numerosi attentati non denunziati o passati sotto silenzio, che forse facevano parte della quotidianità: per il nostro punto di vista le nozze tentate sono valide quanto quelle strappate ai parroci19. Non interessa qui infatti seguire le
figli e matrimoni clandestini, pp. 59-60. Sulla vita di Giustiniana Gussoni, Aldo
Parenzo, La fuga di Giustiniana Gussoni, Venezia, Visentini, 1897.
18
ASVe, IS, S, b. 723, 1772.
19
Bisogna inoltre considerare una certa perdurante labilità nella registrazione dei matrimoni: «non pochi parroci veneziani continueranno fino a fine
logiche della legittimazione né quelle della repressione, bensì rilevare la forza del sentimento, la volontà di decidere il proprio destino, le strade e i saperi necessari per agire.
Gli attentati riusciti o meno conducono a una figura centrale in queste storie: il parroco. Dal 1739, dopo la legge emanata dal Consiglio dei Dieci, era compito del parroco rendere partecipe lo Stato: non solo dunque avvertire dell'avvenuto ‘attentato’ il Vicario Patriarcale bensì anche stilare una relazione per gli Esecutori o il Consiglio dei Dieci così da avviare il processo civile o criminale20. I decreti tridentini, del resto,
lo avevano fatto divenire l’essenziale testimone dell’espressione della volontà degli sponsali: era la sua sola presenza, ma non il suo consenso, che trasformava una semplice dichiarazione orale - la consueta formula pronunciata dai due soggetti - in un matrimonio valido. Questo aspetto, insieme alla decisione di considerare validi, seppur criminali, i matrimoni clandestini, gli attirarono l’interesse dei giovani o comunque di coloro che, per sposarsi, avevano bisogno di stornare opposizioni o difficoltà di vario genere21.
Non conosciamo se ci fossero chiese a Venezia, nello Stato veneto o al di fuori, in cui ci si sposasse con maggiore disinvoltura e protezione, anche se alcune notizie di tal sorta erano trapelate: si era scoperto che il parroco di S. Aponal tra il 1744 e il 1754 aveva assistito alla dichiarazione a sorpresa di ben 14 coppie ed è lecito supporre che quanto meno non si preoccupasse troppo di disincentivare tale pratica22.