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181 ministri (quali titolari dei singoli dicasteri)802 e «per piegare alla propria volontà una

maggioranza consiliare a lui eventualmente ostile su punti particolari dell‟indirizzo politico»803: a condizione, però, che i partiti che con il loro sostegno mantengono in vita il Governo considerino «maggior danno l‟insorgere di una crisi anziché la realizzazione di un fine politico dal quale dissentano parzialmente»804.

In assenza di meccanismi sanzionatori atti a reprimerne l‟eventuale violazione, le direttive emanate dal Presidente del Consiglio avrebbero, insomma, una loro cogenza esclusivamente nella misura in cui i ministri, come delegati al Governo dei partners della coalizione, le reputassero necessarie al mantenimento dell‟unità di indirizzo fissato nell‟accordo di governo.

In caso di inosservanza, infatti, non si porrebbe tanto un problema di irrogazione di misure sanzionatorie – sempre più improbabili – da parte del Presidente del Consiglio, quanto piuttosto di ricerca dei modi di soluzione del dissidio così insorto: anche mediante il ricorso ad appositi

«vertici» interpartitici ove apportare, se possibile, delle modificazioni al patto originario tali da consentire il superamento delle direttive già emanate (o, meglio, la loro completa disapplicazione) senza implicazioni di sorta805.

Le conseguenze del mancato adempimento di una direttiva politica si risolverebbero, pertanto,

«sul piano dei rapporti di forza (politica) intercorrenti tra i diversi organi costituzionali, senza sconfinare sul terreno delle valutazioni giuridiche, cioè della legittimità-illegittimità dell‟atto o comportamento posto in violazione della direttiva stessa»806.

2.5.4. Conclusioni

Secondo parte della dottrina, tuttavia, neppure l‟ipotesi della «terza via» avrebbe del tutto risolto le incertezze derivanti dal quadro costituzionale sull‟assetto di governo, dal momento che essa –

802 P.A. Capotosti, Accordi di Governo, op. cit., p. 217; Id., Presidente del Consiglio, op. cit., p. 149.

803 E. Cheli, Il coordinamento delle attività di governo, op. cit., p. 9 s. Il potere di dimissioni rappresenterebbe, dunque, «l‟unico strumento formale (sia pur estremo) che ha il Presidente per far valere la sua funzione di direzione della politica generale del Governo, non essendo prevista alcuna possibilità di imporre la propria direzione nei confronti dei ministri inadempienti»: così E. Catelani, Il Governo (art.

95), in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione (artt. 55-100), Torino, 2006, p. 1849.

804 Così A. Mannino, Indirizzo politico, op. cit., p. 106.

805 P.A. Capotosti, Accordi di Governo, op. cit., pp. 185, 219 s.; Id., Presidente del Consiglio, op. cit., p.

148; Id., Governo, op. cit., p. 10. «L‟unica ed effettiva garanzia dell‟attuazione della direttiva presidenziale» consisterebbe, pertanto, «nel consenso dei ministri che ne costituiscono i destinatari», in qualità di «rappresentanti» dei partners della coalizione in seno al gabinetto: così G. Pitruzzella, Il Presidente del Consiglio, op. cit., p. 228.

806 Così E. Cheli, Atto politico, op. cit., p. 152 s.

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si è fatto rilevare – offrirebbe essenzialmente una mera indicazione di principio, senza escludere in assoluto l‟occasionale prevalere del modello monocratico o di quello collegiale807.

Il «modello» alla fine accolto, cioè, non avrebbe assegnato né all‟organo Presidente del Consiglio, né all‟organo Consiglio dei ministri funzioni tali da sancire la prevalenza dell‟uno sull‟altro808, di fatto limitandosi a mettere «in linea l‟uno accanto all‟altro» tre principi organizzatori – quello collegiale, quello monocratico e quello della competenza ministeriale – contraddittori e scarsamente compatibili fra loro (anche perché corrispondenti a situazioni storiche ed a forme di governo profondamente diverse)809.

Di conseguenza, la ricostruzione del ruolo del Presidente del Consiglio e dei rapporti interni al Governo sarebbe rimessa per intero alla prassi politica, a cui – secondo una suggestiva dottrina – avrebbe fatto rinvio lo stesso Costituente.

Accogliendo nell‟art. 95 Cost. sia il principio monocratico che quello collegiale, infatti, questi non avrebbe né posto all‟interprete un problema di alternative, né inteso incardinare l‟istituzione del Premier in uno schema rigido, né inteso proporre all‟operatore giuridico (e politico) un modello da cui trarre puntuali indicazioni, ma avrebbe istituzionalizzato la «elasticità funzionale» del Presidente del Consiglio, ovvero la «poliedricità» della sua posizione giuridica810.

Alla formula secondo cui il Presidente del Consiglio «dirige la politica generale del Governo»

sarebbero, quindi, riconducibili scenari tra loro fortemente differenziati, suscettibili di cambiare a seconda:

 degli equilibri complessivi del sistema politico;

 del grado di compattezza della coalizione e della maggioranza;

807 Di «una certa pendolarità» fra i due principi organizzatori, ciascuno dei quali avrebbe la possibilità di

«praticamente inverarsi di volta in volta, con le inevitabili soste a metà del raggio della corsa del pendolo» parla S. Bartole, Governo italiano, op. cit., p. 638 a parere del quale la dottrina della «terza via»

sarebbe «ben lungi dal costruire un punto fermo, un tracciato inescapabile». Concorde F. Donati, La responsabilità politica dei Ministri, op. cit., p. 98; Id., Unità di azione del Governo, op. cit., p. 358.

808 A. D‟Andrea, Accordi di governo, op. cit., pp. 141, 148.

809 S. Merlini, Presidente del Consiglio, op. cit., p. 16 s.; Id., Autorità e democrazia, op. cit., p. 97; Id., Il Governo, op. cit., p. 212; Id., Il governo parlamentare in Italia, op. cit., p. 97.

810 Così J. Buccisano, Premesse per uno studio sul Presidente del Consiglio, op. cit., p. 43 ss. Concorda con la tesi della «elasticità funzionale» L. Ventura, Il Governo a multipolarità diseguale, op. cit., p. 65 s.

seppur con alcuni distinguo: a suo avviso, infatti, tale l‟elasticità funzionale dipenderebbe «dal libero giuoco delle forze politiche» che volontariamente non si lascerebbero «imbrigliare» dal dato normativo costituzionale; il fatto che la posizione del Presidente del Consiglio sia «oggi affidata alla prassi politica, a regole convenzionali» sarebbe, dunque, dovuto non tanto al «carattere ambiguo e compromissorio della norma costituzionale», quanto alla volontà delle forze politiche di «disciplinare i rapporti politici, pur a livello istituzionale, in modo informale, non rigido, riservandosi la possibilità di mutamenti anche continui, resi possibili proprio dalla mancanza di particolari procedure che possano rendere meno “libero”

il giuoco delle forze in campo».

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 del prestigio personale del Primo Ministro811;

 dell‟esistenza di più correnti nell‟ambito dello stesso partito politico, ed in via specifica di quello di maggioranza relativa;

 del ruolo condizionante eventualmente esercitato da gruppi di pressione esterni al Governo, ma capaci di influenzarlo in vario modo812;

 dello spazio che i partiti concedono, o sono obbligati a concedere al Presidente del Consiglio813.

In conclusione, la ricostruzione dell‟esatto ruolo del Presidente del Consiglio e dell'esatta qualificazione dei rapporti interni alla compagine governativa non dovrebbe basarsi sulla sola esegesi del dato normativo (suscettibile – come già si è rilevato – di ricevere diverse attribuzioni di significato)814, ma anche fondarsi sulla prassi «che origina da norme non scritte, di natura consuetudinaria o convenzionale, le quali sembrano non solo disporre secundum Constitutionem, cioè come specificazione dei precetti costituzionali, ma anche praeter Constitutionem, cioè come integrazione-sviluppo di principi costituzionali, il cui disegno di fondo, per così dire, a maglia larga, può consentire diverse linee di sviluppo»815.

811 R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, op. cit., p. 169.

812 E. Spagna Musso, Valutazioni di ordine generale, op. cit., p. 475.

813 L. Ventura, Il Governo a multipolarità diseguale, op. cit., p. 64.

814 G. Pitruzzella, Il Presidente del Consiglio, op. cit., p. 184. Esegesi che, «condotta con cura e avvalendosi delle più corrette tecniche interpretative dalla dottrina, perviene solitamente ad approdi insoddisfacenti» perché le disposizioni costituzionali sul Governo e sulle attribuzioni del Presidente del Consiglio «mal si adattano alla mutevolezza della prassi, e non sempre tengono conto della incidenza sostanziale del sistema dei partiti sulla disciplina del Governo, organo attivo dell‟indirizzo politico»: così S. Labriola, Il Governo della Repubblica, op. cit., p. 42.

815 Così P.A. Capotosti, Presidente del Consiglio, op. cit., p. 140 ad avviso del quale si tratta di

«riempire» con il contenuto della prassi politico-parlamentare gli schemi normativi dell‟art. 95 Cost. (cfr.

Id., Accordi di Governo, op. cit., p. 209).

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Capitolo 3

La prassi repubblicana

Sommario: 3.1. Il quinquennio «degasperiano» (1948-1953). – 3.2. L‟evoluzione del sistema: forma di governo a multipartitismo estremo e polarizzato (1953-1992). – 3.2.1. La prassi del «governo per ministeri» o «a direzione plurima dissociata». – 3.2.2. Le prime presidenze «laiche» e l‟istituzione del Consiglio di Gabinetto. – 3.2.3. La legge 23 agosto 1988, n. 400. – 3.2.4. La crisi dei partiti, i governi «di transizione» ed il Regolamento interno del Consiglio dei ministri. – 3.3. Il referendum elettorale del ‟93 e le prime esperienze del maggioritario. – 3.4. Il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303. – 3.5. Il consolidamento del «bipolarismo» e la riforma elettorale del 2005. – 3.6. Leggi elettorali e forma di governo: una «transizione» incompiuta. – 3.7. Il Presidente del Consiglio nell‟era del bipolarismo

«imperfetto».

3.1. Il quinquennio «degasperiano» (1948-1953)

Nel corso della I legislatura repubblicana (1948-1953) numerosi fattori avrebbero concorso – secondo parte della dottrina – a rendere le dinamiche della forma di governo italiana simili a quelle del parlamentarismo britannico: in primis, il successo elettorale della Democrazia cristiana che nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948 (pur non raggiungendo, in termini percentuali, la maggioranza assoluta dei voti) conquistò la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei deputati (avrebbe conseguito la maggioranza assoluta anche al Senato senza la presenza di numerosi senatori di diritto)816.

I risultati elettorali sembrarono, dunque, smentire la previsione (comune a tutti i costituenti) di una prassi politica italiana a lungo caratterizzata da governi di coalizione, rendendosi numericamente possibile la formazione di un governo monocolore Dc di maggioranza.

Com‟è noto, però, questo evento non si realizzò: anzi, De Gasperi presentò in maniera solo formale le dimissioni del suo V ministero a Luigi Einaudi (eletto Capo dello Stato dalle nuove Camere riunite in seduta comune), respinte le quali fu lo stesso governo quadripartito (Dc, Pri, Pli, Psli) formato da De Gasperi l‟11 dicembre 1947 a rimanere in carica con pochi, anche se significativi mutamenti817.

La formazione di un governo di coalizione non fu, pertanto, una necessità istituzionale ma una

«libera scelta» politica di De Gasperi818, in parte dettata dalla preoccupazione – ormai accertata – di non ricreare «storici steccati» fra cattolici e laici, nonché dall‟intenzione dello stesso

816 R. Cherchi, Il governo di coalizione, op. cit., p. 359.

817 S. Merlini, Struttura del governo, op. cit., p. 159 e nt. 45.

818 R. Cherchi, Il governo di coalizione, op. cit., p. 359.

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Presidente del Consiglio di «scaricare» le tensioni e le contraddizioni interne alla Dc sui partiti con i quali collaborava nell‟azione di governo, di volta in volta limitando:

 il moderatismo di certe correnti di destra con la contrapposizione della linea politica di partiti laici e progressisti (quali il Psdi ed il Pri);

 il riformismo di certe correnti di sinistra con la contrapposizione della linea politica di partiti laici e conservatori (quali il Pli)819.

Con esclusivo riferimento alla I legislatura repubblicana si registrò, poi, la presenza di uno dei tratti caratteristici del regime bipartitico, ossia la coincidenza tra leadership di partito e premiership di governo nella persona del Presidente del Consiglio De Gasperi820.

Le sue dimissioni da segretario della Democrazia cristiana (carica lasciata il 22 settembre 1946 e successivamente riassunta, per breve tempo, in occasione delle elezioni politiche del 1953) non scossero, infatti, il prestigio personale dell‟uomo né indebolirono l‟autorevolezza della sua leadership politica che, con il controllo del partito per «interposta persona», si protrasse senza soluzione di continuità (e senza neppure grossi contrasti) fino al termine della legislatura stessa821.

Ad accrescere la forte leadership di De Gasperi (fatta non soltanto di autorevolezza carismatica, ma anche della titolarità del dicastero che la congiuntura politica rendeva, volta per volta, più rilevante)822 giocarono, peraltro, altri fattori come la situazione internazionale ed il prestigio guadagnato con la conclusione del trattato di pace, nonché lo scarso «peso contrattuale» degli

819 P.A. Capotosti, Accordi di governo, op. cit., p. 46 s.

820 Una constatazione – questa – non «invalidata dalla circostanza che, durante il detto periodo, De Gasperi sia stato prevalentemente a capo di un governo di coalizione e non monocolore, poiché, in realtà, il ricorso a formule governative pluripartitiche non fu dettato da esigenze di rafforzamento dell‟Esecutivo, ma piuttosto da esigenze di stabilità democratica, che, d‟altronde, affondavano le loro radici nei primi governi del periodo della Liberazione» (ivi, p. 42). Di un Presidente del Consiglio De Gasperi quale

«unico vero esempio, in tutto l‟arco della Prima Repubblica, di una premiership che può condurre il suo gabinetto» parla, a sua volta, C. Barbieri, Dentro il Cabinet: novità istituzionali nei rapporti tra Ministri, in C. Barbieri, L. Verzichelli (a cura di), Il Governo e i suoi apparati: l’evoluzione del caso italiano in prospettiva comparata, Genova, 2003, p. 137 e nt. 47: nei decenni successivi, infatti, nessun altro Primo Ministro italiano godrà «di un consensuale conferimento di potere da parte degli altri ministri paragonabile a quello goduto da De Gasperi, sia per estensione, sia per persistenza» e ciò non fosse altro

«perché i gabinetti divengono più eterogenei, e in particolare lo divengono le fila del partito di maggioranza, rendendo sempre più difficile esprimere una leadership in grado di coagulare un consenso di fondo su basi così frammentate».

821 E. Cheli, V. Spaziante, Il Consiglio dei Ministri, op. cit., p. 113 s.

822 S. Ristuccia, Amministrare e governare (Governo, Parlamento, Amministrazione nella crisi del sistema politico), Roma, 1980, p. 65.

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