Vi sono alcuni tratti comuni tra i fomentatori e i ribelli. Sul finire del Cinquecento il tedesco Conrad Braun nel Tractatus de seditiosis, paragonerà i traditori a pugnali acuminati, sfuggenti, subdoli e doppi329, offrendo una visione chiara e determinante di come politicamente fossero un pericolo per la pace sociale (quietis publicae
pertubatio).
Come ha ben illustrato Sbriccioli nella sua opera, la «ribellione e tradimento, proprio perché integranti un comportamento che nega la soggezione e la fedeltà, costituiscono l'indiscussa base comune di tutta la problematica dottrinale in tema di diritto penale politico»330. La rottura del patto sociale, in tali termini, incarna i moduli repressivi del crimen laesae maiestatis. Il delitto proditorio, che si materializza nella disobbedienza
allo Stato è un fatto lesivo della maiestatis che lo proietta all’interno della categoria giuridica della rebellio331. Ciò che oggi risulta rientrare nel delitto contro la sicurezza
dello Stato e che negli stati dell'Età moderna diventano reati contro il principe, dalla moralità alle sedizioni. Si noti che a Venezia proditio e rebellio sostituivano nella documentazione la locuzione crimen lese maiestatis, pur mantenendo del tutto inalterato il senso giudiziario.332 Nel Settecento, quando all’interno del rito del
Consiglio di Dieci le pratiche processuali erano inclini ad accogliere le istanze degli avvocati e della difesa, anche se formalmente esclusi dal processo,333i «nemici dello stato» non possedevano tale facoltà.
Come abbiamo visto nella pratica criminale di Lorenzo Priori334 il delitto di lesa maestà temporale si commetteva anche mettendo sedizione nel popolo ed «è tanta l’enormità di
329 C. Braun, Tractatus de seditiosis, I cap. 13, Venetiis, 1584, lib. II. Chap. 16, nn. 1-4. 330 Sbriccoli, Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 149.
331 Ibid., p. 690.
332 M. Magnani, « La risposta di Venezia alla rivolta di San Tito a Creta (1363-1366): un delitto di lesa maestà?», Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge [En ligne], 127-1|2015, mis en ligne le 27 mars 2015, consulté le 5 décembre 2018. URL: http://journals.openedition.org/mefrm/2490. 333 M. Simonetto, L’alibi nel processo penale veneziano: teoria e prassi, in C. Povolo (a cura di ),
Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, Bologna 2007, pp. 211- 247.
334 Per un’analisi del testo si veda: C. Povolo, Retoriche giudiziarie, dimensioni del penale e prassi processuale nella Repubblica di Venezia: da Lorenzo Priori ai pratici settecenteschi in G. Chiodi e C. Povolo, L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, Verona, vol. I, (pp. 19-170).
questo delitto, e così odiosa alle leggi, ed a i Prencipi, che per la cospirazione si punisce la volontà sola, o l’affetto tanto come fosse seguito l’effetto, pur che questa volontà sia provata, e spezialmente che il delinquente sia devenuto a qualche atto prossimo.». Aggiungendo «né i quali casi si procede summariamente de plano, e senza strepito, o figura di giudizio.»335 Il Priori sottolinea ulteriori due aspetti fondamentali: il primo che coloro che non erano sudditi di Venezia sarebbero stati trattati alla pari. Il secondo che l’assenza per molti delitti non può condannare a morte, tranne in questi casi nei quali la sola contumacia è sufficiente. Anche i fomentatori, con le loro parole, potevano far nascere tumulti e sedizioni. Troviamo una distinzione formale tra fomentatori e ribelli sul rito della punizione. I ribelli e traditori subivano un rito pubblico, sebbene questo non si declinasse sulla base di un rigido protocollo giuridico, bensì si appoggiasse a delle prassi che potevano variare sensibilmente. Vi era una componente della pena infamante, che fin dal medioevo aveva assunto delle caratteristiche ben definite. Basti pensare alle pitture infamanti336con l’esposizione al pubblico dominio dell’immagine dei rei o l’annegamento pubblico, come avvenne nel 1373 quando il prete Zane di Lugignano a Torcello, che aveva ordinato una ribellione contro il governo, fu annegato nelle acque della laguna serrato in una gabbia337. Un rito che, come vedremo in seguito, sarà ripreso per gli eretici e i banditi.
All’interno della prassi veneziana nel Settecento per la condanna di chi commetteva ribellioni e sedizioni vi erano due momenti distinti, che ritroviamo distinti anche nei registri di cassa degli inquisitori per il pagamento al ministro di giustizia: il primo segreto, nascosto agli occhi del popolo, eseguito tra le mura del carcere. Il secondo con l’esposizione del cadavere in un luogo pubblico, mero feticcio ideologicamente spoglio di qualsiasi elemento se non quello di monito e che riprende la pratica penale della pittura infamante. Esemplificativo il cartello posto ai piedi della vittima con la scritta per colpe contro lo Stato.
Nel caso dei fomentatori la condanna a morte avveniva tramite assassinio segreto. Quando i tre Inquisitori di Stato invieranno al Provveditore Generale in Dalmazia e Albania una cassetta di veleni per «togliere dal mondo il noto Vescovo Vassilié», sentiranno la necessità di aggiungere la motivazione per rafforzare il messaggio,
335 Priori, Prattica criminale, cit., p. 123.
336 Si veda il contributo di G. Ortalli, La pittura infamante. Secoli XIII-XVI, Roma, Viella, 2015. 337 E. Orlando, Altre Venezia. Il dogado veneziano nei secoli XIII e XIV (Giurisdizione, territorio,
offrendoci in tal modo la possibilità di comprendere il peso politico di questa scelta: «Tutti li riguardi di Dignità, d’interesse, e di Stato chiamandoci à fissar questa massima, quelli poi di predetta di Politica, e di tranquillità di Dominio chiamano ad eseguirla ne modi più secreti, più avveduti, e più cauti»338. La dignità ovvero quella nobiltà morale insita nella Repubblica, l’interesse e lo stato stesso, sono i principi superiori. La politica e la tranquillità di Dominio richiedono che sia segreta, che non si possa collegare l’evento alla Repubblica di Venezia. Quel termine “politica” che potrebbe essere sostituito con “ragion di Stato”. I fomentatori sono soggetti che avrebbero potuto creare delle ribellioni o attuare una politica di disequilibrio negli interessi della Repubblica, ma si trovano di frequente al di fuori del confine dello Stato e non sono cittadini della Repubblica. In particolare in quelle aree che ricoprivano un’importanza strategica. Il Montenegro è quasi sempre protagonista: dal 1711 al 1768 abbiamo il caso dei Petrovic, dal 1767 al 1768 riguarda Stefano il piccolo detto impostore, nel 1767 Marco Vuco. Abbiamo alcuni esempi anche nei pressi Udine in territorio austriaco con il prete Polzer nel 1717. Gli ultimi due casi riguardano persone itineranti, come il missionario greco Cosmà che a Cefalonia ha un seguito di quindici- sedicimila adepti e Giovanni Momiti, detto Palatino, una «infesta persona» che cerca di indurre i sudditi veneti alla rivolta e organizza l’emigrazione verso Aquileia339. Ad occuparsi materialmente dell’organizzazione di queste operazioni è il provveditore generale in Dalmazia e Albania340 o il Provveditore Generale da Mar341.