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Hans Naumann, Deutsche Nation in Gefahr

Nel 1932 Naumann, germanista e collega di Curtius all’università di Bonn, pubblica il volume Deutsche Nation in Gefahr come risposta al Deutscher Geist in

Gefahr. L’accesa reazione di Naumann allo scritto di Curtius si rivela tanto più

significativa se si tiene presente che egli è un convinto sostenitore del partito nazionalsocialista, di cui entra a far parte ufficialmente il 1 maggio 1933. Le idee che egli oppone al Deutscher Geist in Gefahr dimostrano la grande ostilità che il partito nutre nei confronti di questa opera e del suo autore. Wolfgang Jacobeit e Leonore Scholze-Irrlitz sottolineano il fatto che in Deutsche Nation in Gefahr Naumann veda nel sistema statale fascista il promotore della rinascita delle virtù germaniche custodite nel popolo tedesco; egli si augura che Hitler e il partito nazista possano dare nuovo vigore all’idea di obbedienza e unire il pensiero nazionale e sociale abbandonando le strade sbagliate del passato e indicando una via per la salvezza della nazione.1 Nel 1932 Naumann sottoscrive

sul «Völkischer Beobachter» insieme ad altri professori un appello (Tübinger Aufruf) in cui si invita la borghesia colta a votare per il partito nazista in nome del risanamento della vita pubblica e della salvezza del carattere nazionale tedesco. Naumann rimane uno zelante e convinto nazionalsocialista anche negli anni successivi, quando cade in disgrazia per aver polemizzato contro la revoca del dottorato a Thomas Mann e la rimozione di Karl Barth dalla cattedra di teologia a Bonn e per la sua teoria del gesunkenes

Kulturgut che verrà osteggiata con decisione dagli organi di controllo del regime.2

Il 10 maggio 1933 Naumann tiene un discorso in occasione del rogo di libri organizzato a Bonn, nel quale invita gli studenti ad affrancarsi da «un dominio straniero […] da un’occupazione dello spirito tedesco». Egli denuncia il fatto che negli ultimi due decenni le biblioteche pubbliche siano state inondate da opere di «razza straniera» e di «paesi stranieri» che corrompono la Weltanschauung e il costume tedeschi e che costituiscono la continuazione della guerra contro la Germania con «mezzi più raffinati e

1 W. Jacobeit, L. Scholze-Irrlitz, Volkskundliche Kulturwissenschaft, in Kulturwissenschaften

und Nationalsozialismus. Herausgegeben von J. Elvert, J. Nielsen-Sikora, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2008, pp. 337-58, qui pp. 348 s.

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infami e in punti ancora più vulnerabili».3 Naumann rifiuta la figura del «letterato» ed

esalta «il poeta» «responsabile», che si fa «coscienza viva del nostro stato, della nostra nazione, del nostro popolo, del Reich tedesco, nel nostro nuovo sacro Reich»4 e conclude il suo intervento sostenendo che «l’arte tedesca» sia estranea al «freddo intelletto» del «letterato della Zivilisation», poiché «viene da motivi più irrazionali».5

La posizione culturale di Naumann è del tutto allineata alla rivoluzione conservatrice. Vi trovano infatti spazio l’esaltazione del carattere nazionale tedesco e soprattutto germanico, il rifiuto di ogni dimensione internazionale, l’accesa contrapposizione verso la Francia, la distanza rispetto alla cultura classico-mediterranea, il rifiuto della democrazia e delle manifestazioni della modernità, come le metropoli, il capitalismo, la massa proletaria, il lavoro nelle grandi industrie, il lavoro della donna. Naumann vede nell’Illuminismo (e nel conseguente liberalismo) il responsabile della catastrofe che ha distrutto il perfetto equilibrio della Germania delle piccole città, dei villaggi contadini, dei boschi e delle montagne. Ai Lumi si contrappone il Romanticismo, da cui hanno origine due fasi di rinascita della nazione: la prima, «romantico-tedesca» (romantisch-deutsch), si verifica all’inizio del XIX secolo, mentre la seconda, «nazionale-germanica» (völkisch-germanisch), è quella portata avanti nel Novecento dal partito nazionalsocialista e da tutti coloro che nel mondo contadino ritrovano gli antichi tratti germanici e li diffondono al resto della nazione.

L’atteggiamento nazionale di Naumann sembra dunque essere opposto a quello del Deutscher Geist in Gefahr e del suo autore. Curtius infatti giudica di vitale importanza non separare mai la Germania dalla storia e dal destino europeo a cui essa appartiene da quasi due millenni. Nonostante le numerose e consistenti riserve che egli esprime (e ribadisce di voler sentirsi libero di esprimere) rispetto all’Illuminismo, alla cultura e alla politica francese del presente, alla democrazia e alle manifestazioni della modernità postbellica, Curtius ritiene che per il bene di tutti i tedeschi sia indispensabile mantenere sempre aperto il dialogo e il confronto con la realtà del proprio tempo e con le altre nazioni dell’Europa occidentale.

3 H. Naumann, E. Lüthgen, Kampf wider den undeutschen Geist, Bonn, Bonner Universitäts- Buchdruckerei Gebr. Scheur, 1933, qui p. 4.

4 Ivi, p. 6. 5 Ivi, p. 7.

157 Deutschland e Germanien

Naumann ricostruisce nel suo volume la storia della «nazione» tedesca. Il popolo originario era costituito dai Germani (indicati con i termini Germanen, Germanentum,

Germanien), una gente molto unita e animata da eroismo ed elevate doti morali. Essa

abbracciava in sé anche una componente primitiva (aggettivo da intendersi in senso pienamente positivo, Naumann lo ripete spesso) legata ai ritmi della natura e a una percezione magica della vita. Con l’occupazione romana si diffondono la cultura antica e poi il Cristianesimo. Il mondo propriamente «tedesco» (deutsch, Deutschtum,

Deutschland) nasce dall’inclusione nel mondo germanico della cultura greco-romana e

della religione cristiana.6 In questo processo di inclusione quasi tutte le doti dei Germani vanno perse. Tuttavia in forma di «macerie» sopravvivono dei resti di quel «popolo perduto da cui abbiamo origine» e in questo senso continua a esistere una «Germania eterna».

Naumann dice, per esempio, che non è solo una qualità tedesca, ma era già un atteggiamento tipicamente germanico, fare una cosa solo «in virtù di se stessa», riportare una idea al suo nucleo centrale, cercare l’essenza ultima delle cose e la loro grandezza estrema, spogliandole di tutti quegli accessori che esse accumulano nella loro vita.7 La

prova che questo atteggiamento derivi direttamente dai germani risiede nel fatto che i tedeschi nobilitano e approfondiscono tutte le «materie prime» provenienti dalle sfere culturali a loro estranee. I tedeschi infatti fanno propri con grande serietà il principio cristiano, la cultura di corte (con espressioni liriche ed epiche talvolta superiori agli originali francesi), la mistica, il gotico, l’Illuminismo, il darwinismo, il socialismo, il naturalismo e infine lo sport, tutte cose queste che i tedeschi abbracciano «con un’energia religiosa e liturgica».

L’eroismo dei germani si trasferisce «nel nuovo Reich» sul lavoro quotidiano svolto con diligenza quasi esagerata e insensata. Questa diligenza nel lavoro infastidisce il resto del mondo, come l’eroismo dei germani due millenni prima era risultato intollerabile per i romani. Si ripete dunque il medesimo stile di vita chiaramente «basato

6 H. Naumann, Deutsche Nation in Gefahr, Stuttgart, I. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1932, pp. 6 sgg.

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sulla legge»: «Pensare fino in fondo, perseguire qualcosa fino in fondo è la nostra legge. L’Allemagne travaille trop!».8

L’atteggiamento di obbedienza tipicamente germanico non è scomparso ma è sublimato dai tedeschi nella sfera metafisica. L’eroe germanico si fa carico del proprio destino e del proprio onore e questa responsabilità verso se stessi implica la fatica, l’arebeit, a volte anche la morte tragica. Egli non fa affidamento sui miracoli perché risponde a un modello maschile impostato in maniera talmente «pedagogica» da non poter concepire la possibilità di un soccorso straordinario proveniente dall’esterno. 9 Questi

tratti costituiscono l’escatologia innata del carattere nazionale (Volkstum) tedesco e sono testimoniati dai miti, dalle leggende e perfino dall’attualità politica del presente.10 Anche

a livello statale e sociale sono attivi resti tipicamente germanici. È germanica la concezione dello stato come somma e articolazione di stirpi e neppure l’impero romano e lo stato democratico parlamentare sono riusciti a cancellare questi antichissimi tratti federalistici.11

Per Naumann la scienza tedesca manca purtroppo di sottolineare che le componenti culturali straniere rappresentate dalla classicità greco-romana e dal Cristianesimo non sono rimaste immutate una volta venute a contatto col mondo germanico, ma hanno subito una «trasformazione sacra», una specie di «transustanziazione». La scienza si limita sempre a indicare gli elementi forestieri senza invece mettere in luce la sacra trasformazione a cui essi sono andati incontro una volta entrati in contatto con la «legge di pensiero» germanica e con lo stile di vita a essa legato.12

8 Ivi, pp. 9 s. Sono presenti ancora fra i tedeschi ulteriori tracce del modo di vivere germanico. Naumann le scorge nella concezione del matrimonio, che ancora oggi è caratterizzato dal cameratismo tra uomo e donna, nell’ambito del quale la moglie ha il ruolo di vera e propria compagna di vita, e non di femmina a disposizione dei desideri maschili come nel mondo latino e orientale (ivi, p. 10); nel modo di concepire la guerra solo come attacco e mai come difesa, l’unico che i tedeschi hanno di combattere da Tacito fino al presente se non vogliono perdere; in alcuni «miti che rimangono come sogni ostinati», come l’idea che da qualche parte dorma nascosto un uomo fatato da risvegliare, l’eroe e il salvatore del popolo; o come l’idea che via sia qualcuno che arruola un esercito di guerrieri scelti in vista di un giorno che verrà (ivi, p. 11). 9 La riformulazione del mito classico di Meleagro nel mito germanico di Nornagest è un chiaro esempio di questo processo. Meleagro non sa cosa lo aspetti, la sua esistenza è nelle mani della madre Althaia e delle cieche forze del destino. Nornagest invece conosce la sorte che gli è assegnata, vuole esserne padrone e decide autonomamente di sé e della propria vita e morte (ivi, pp. 14-17).

10 Ivi, p. 11. 11 Ivi, p. 13. 12 Ivi, p. 14.

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Naumann aveva già elaborato la definizione di Deutschtum e Germanentum nel saggio Ritterliche Standeskultur um 1200, da dove Curtius la riprende per citarla nel

Deutscher Geist in Gefahr. Curtius si augura che un nuovo incontro con il Medioevo e

con l’Umanesimo permetta di collegare in modo profondo l’idea umanistica e l’idea nazionale e di applicare in futuro al carattere tedesco del XX secolo «le belle frasi» che Naumann dedica alla cultura del ceto cavalleresco del 1200:

Così hanno concorso Antichità, germanesimo e Cristianesimo a costruire l’idea cortese e ad aprire la strada all’epoca della specifica cultura cortese. Solo ora appare che da germanico più cristiano più classicistico sia risultato davvero ‘tedesco’ in una indissolubile fusione, che getta il suo riflesso su tutti i secoli seguenti.13

Curtius intende queste parole di Naumann come il riconoscimento dell’appartenenza della cultura tedesca alla tradizione mediterranea e occidentale, e come conferma del proprio punto di vista che rifiuta qualsiasi forma di autosufficienza e isolamento culturale della Germania («solo di propria sostanza lo spirito tedesco non può vivere»).14 Tuttavia in

Deutsche Nation in Gefahr la prospettiva di Naumann è profondamente diversa. Egli

individua la salvezza della nazione tedesca nel recupero della «sostanza» culturale germanica, che reputa «la più venerabile», mentre l’apporto classico e cristiano, se pur importante, rimane ai suoi occhi un elemento estraneo all’autentica essenza nazionale.15

I tedeschi non sono cives romani

Per Naumann un aspetto fondamentale sia dello stato germanico sia di quello tedesco fino al XIX secolo è l’articolazione basata sui ceti. Questa articolazione è fondata sul «gradualismo» che vede la nobiltà come strato superiore e i contadini come strato inferiore. Nel basso Medioevo si aggiunge il ceto della borghesia; il suo inserimento avviene in modo armonico senza che si verifichino crepe nella struttura della nazione. Naumann dice che questo gradualismo è lo specchio terreno di quello metafisico con cui sono ordinate le creature rispetto a Dio.16 È quindi naturale che in questo tipo di

13 H. Naumann, Ritterliche Standeskultur um 1200, in H. Naumann, G. Müller, Höfische Kultur, Halle (Saale), Max Niemeyer, 1929, pp. 1-77, qui p. 29; E. R. Curtius, Deutscher Geist in Gefahr, cit., pp. 31 s.

14 Ivi, p. 50.

15 H. Naumann, Deutsche Nation in Gefahr, cit., p. 14. 16 Ivi, p.18.

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articolazione i ceti non possano godere degli stessi diritti politici. Naumann ammette che una moderata distribuzione dei diritti politici avrebbe rappresentato una soluzione più equilibrata, ma essa non si è realizzata, come le lotte tra artigiani, nobili, principi, cavalieri e contadini dimostrano. Il significato di quelle contese non va però esagerato, esse infatti non sono paragonabili agli scontri fra i partiti e le classi sociali del presente weimariano, poiché i ceti di allora non si volevano né distruggere né negare, ma intendevano ripristinare un loro diritto politico danneggiato oppure farsi largo quando le barriere politiche si presentavano un poco più permeabili.17 Questa rigida articolazione comporta una marcata distanza tra nobiltà, contadini e borghesia (ciascuno di essi infatti è portatore di un diverso ideale di popolo), ma è tuttavia fonte di una ineguagliabile ricchezza e profondità all’interno del popolo tedesco.18 Ogni ceto ha una coscienza orgogliosa di sé

e sa di aver bisogno dell’altro; in questo modo le grandi contrapposizioni vengono appianate «organicamente».19

Non è così in Francia, dove una grande comunità di vita e di civiltà è l’obiettivo e l’espressione del concetto di citoyen; lì ha infatti esercitato una decisiva influenza il modello statale del civis romanus, in cui il popolo si presenta come una compagine uniforme, composta da individui, i cives, dotati di pari diritti e posti tutti formalmente sullo stesso piano di fronte all’autorità e alla legge. Il popolo di impostazione romana è pertanto omogeneo e compatto, senza profonde spaccature nel modo in cui i cittadini concepiscono il loro ruolo nella compagine statale. I Galli si sono adeguati al modello romano e hanno abbracciato la lingua latina, divenendo in tal modo francesi. Naumann si chiede tuttavia quanta ricchezza e varietà abbia perso in questo processo l’originario popolo della Francia con la rinuncia all’articolazione in ceti e con l’assunzione del «livellamento» romano.

In Germania le cose sono andate diversamente. Gli abitanti autoctoni hanno solo in parte fatto propria la cultura romana e mantenuto l’originaria e rigida articolazione in ceti20 non divenendo così cives romani: «noi abbiamo continuato e portato la carica di cesare e l’imperium romanum per oltre un millennio, ma non siamo diventati cives romani».21 17 Ivi, p. 19. 18 Ivi, pp. 19 s. 19 Ivi, p. 21. 20 Ivi, pp. 19 s. 21 Ivi, pp. 20 s.

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Qui Naumann riprende alla lettera, ma per dire esattamente il contrario, le parole che Curtius pone in conclusione del suo contributo su Jorge Manrique. Nel 1931 Curtius sente la necessità di ribadire, un articolo di carattere strettamente filologico, l’appartenenza della Germania all’Europa romana. Ai tedeschi non è lecito dimenticare di essere stati i continuatori per mille anni dell’impero dei cesari, che ha rappresentato inoltre una vera e propria «patria» spirituale per i più grandi pensatori del continente, ed è molto significativo che l’ultima espressione letteraria dell'«idea imperiale di Roma» sia il Faust di Goethe:

Riflettere su questo simposio di cesari permetterà all’uomo tedesco di ricordarsi che la sua nazione ha portato per mille anni l’idea imperiale di Roma, che questa idea è stata la patria di Jorge Manrique, quella di Dante e quella di Goethe e che essa ha lasciato la sua ultima impronta classica in un poema tedesco, nel Faust, dove leggiamo: “la più alta virtù circonda come un’aureola la testa dell’imperatore…”.22

A Naumann inoltre non era forse sfuggito che dieci anni prima, nel libro su Maurice Barrès, Curtius aveva scritto che essere europei significa dedicare tempo ed energie alla conoscenza profonda delle diverse letterature d’Europa e cioè diventare cittadini di uno spazio vasto e multiforme come l’impero romano: «questo diritto di cittadinanza non si può acquisire se non si è soggiornato per lunghi anni in ciascuna delle province della letteratura europea, e passati molte volte dall’una all’altra. Uno diventa europeo quando diventa civis romanus».23

I ceti tedeschi

Naumann fornisce una descrizione idealizzata della nobiltà tedesca. Dice che assieme ai contadini essa incarna la componente germanica nel modo più puro. La nobiltà amministra le proprietà terriere non per profitto capitalistico ma come vasta base di sostentamento della familia; presta servizio armato in guerra a difesa della nazione e la rappresenta attraverso l’attività diplomatica. A una tale nobiltà terriera, e non alla falsa

22 E. R. Curtius, Jorge Manrique und der Kaisergedanke, in «Zeitschrift für Romanische Philologie», 52, 1932, pp. 129-151, qui p. 151.

23 E. R. Curtius, Maurice Barrès und die geistigen Grundlagen des französischen Nationalismus, Bonn, Cohen, 1921, p. 46; cfr. anche E. J. Richards, La conscience européenne chez Curtius et chez ses détracteurs, cit., p. 273.

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borghesia delle metropoli moderne o al proletariato, è collegata la autentica sostanza del popolo.24

Naumann delinea il ritratto della borghesia basandosi sui personaggi dei romanzi di Wilhelm Raabe (giudicato l’ultimo rappresentante dell’autentica borghesia tedesca), poiché ritiene che tali figure siano altamente rappresentative.25 Egli applica cioè quel procedimento che Curtius più tardi, nel 1948, riterrà del tutto infondato, negando che esista un carattere nazionale invariabile. I popoli cambiano col passare del tempo e così pure le loro caratteristiche. L’individuazione di presunti caratteri nazionali non è altro che l’artificioso riconoscimento nella letteratura di tratti che sono stati preventivamente e forzatamente estrapolati dal suo interno:

Siamo però in generale autorizzati, ad attribuire alle nazioni moderne un carattere che rimane uguale in tutte le epoche? Un millennio fa non esisteva neppure uno dei popoli dell’Europa di oggi. […] La fede in un carattere nazionale invariabile implica inoltre un circulus vitiosus ed è già per questo motivo inaccettabile. Da cosa conosciamo il carattere di una nazione? Lo intuiamo dalle sue creazioni spirituali. L’essenza di una nazione viene dedotta dalla letteratura e trasferita in forme concettuali. Poi i concetti vengono ipostatizzati e in questa forma utilizzati per l’interpretazione della letteratura. Si tira fuori il carattere nazionale da una scatola, nella quale lo si era nascosto prima. In questo modo non si è fatto nessun passo avanti nella conoscenza.26

Naumann assume un tono vagamente ironico nel descrivere la borghesia tedesca e la dipinge con tratti macchiettistici come un ceto in qualche modo non altrettanto nobile quanto l’aristocrazia e i contadini. Alla borghesia Naumann riconosce la tipica scrupolosità e ostinazione tedesca, la propensione alla meditazione interiore, una lenta costanza, una particolare serietà e profondità del sentimento, il senso di responsabilità e la coscienziosità nel lavoro.27 Naumann rievoca nostalgicamente la borghesia delle piccole città tedesche del XIV e del XV secolo, basata sulla solidità della tradizione

24 H. Naumann, Deutsche Nation in Gefahr, cit., pp. 21 s. Fra le ulteriori caratteristiche che fanno capo alla nobiltà tedesca vi sono il feudalesimo, la dittatura, la disciplina dell’obbedienza e del comando, il servizio senza salario. La nobiltà ingloba in sé la cavalleria e con essa si identifica, e quando la cavalleria tramonta la nobiltà ne conserva i tratti e continua a rispecchiarne, con attitudine conservatrice, il Deutschtum medievale del 1200. Fino all’età moderna questa nobiltà è l’origine del grande principato, di tutte le manifestazioni della creatività e dello spirito e dei loro migliori rappresentanti, come per esempio Wolfram von Eschenbach, Heinrich von Kleist, Fürst Blücher, Fürst Bismarck.

25 Ivi, p. 22.

26 E. R. Curtius, Antike Rhetorik und vergleichende Literaturwissenschaft, cit., pp. 18 s.; cfr. E. J.

Richards, Erich Auerbach und Ernst Robert Curtius: der unterbrochene oder der verpaßte Dialog?, cit., p. 56.

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familiare, sulle corporazioni, sulle gilde, sulle osterie, sui buoni rapporti di vicinato, quando non c’erano ancora i mostri della massa e del capitale, quando non c’era il movimento della gioventù, quando non c’era il femminismo e le donne invece che lavorare rimanevano in casa ad accudire i figli. Questo era per Naumann il vero ceto medio tedesco, quello di epoca prebismarckiana, delle piccole città e dei bottegai; in questo contesto le spinte liberali provenienti dall’Illuminismo e dalla Francia venivano arginate dal sentimento nazionale, dallo spirito romantico e dalla religione, e si consolidava così una borghesia «nazionale e liberale insieme […] un poco illuminata, e tuttavia rimasta nella morale cristiana».28

Un’altra caratteristica della borghesia tedesca è una certa avversione all’assolutismo e allo stato di polizia, che è comunque fortemente mitigata dalla spinta «eterna» a imitare la condotta di vita delle corti e della nobiltà e dalla nostalgia sempre viva per la subordinazione e per l’affidamento delle decisioni a un superiore o a una commissione, fossero anche solo gli amici dell’osteria (con intento scherzoso e insieme riduttivo Naumann osserva che il gruppo germanico maschile e l’obbedienza germanica di un tempo sono qui in una certa misura spostati dalle stirpi tedesche alle osterie).29

L’orgoglio per l’idea di progresso rivendicata nei confronti degli altri due ceti va