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IL NIDO VIOLATO DEGLI AVVOLTOI Guerra ‘giusta’ e ‘necessaria’ nell’Orestea

Nel documento MIMESIS / CLASSICI CONTRO (pagine 69-87)

Gli interventi militari che si sono succeduti recentemente sullo scena-rio internazionale, dalla guerra del Golfo, all’intervento della Nato nell’area balcanica (Bosnia 1991-1995 e Kosovo 1999), all’offensiva aerea in Libia e da ultimo alla crisi siriana hanno focalizzato l’attenzio-ne dell’opiniol’attenzio-ne pubblica sul problema dell’uso della forza da parte del-le potenze democratiche in nome della giustizia. Più recentemente l’e-mergenza planetaria innescata dal terrorismo internazionale e da guerre asimmetriche condotte da soggetti transnazionali e non governativi, illi-mitate nel tempo e nello spazio, ha riattivato il dibattito sulla legittimità di reazioni efficaci poste al di fuori del diritto. È una verità generale che le guerre ci sollecitano dibattiti morali, ma è particolarmente vero per questo tipo di conflitti, che per loro natura escludono l’interlocutore non solo dal confortevole mondo dell’accordo morale ma anche dalla più ampia dimensione dell’accordo o disaccordo sulla giustificazione e sul-la critica. Anche per quanti rifiutano l’idea, variamente declinata dalsul-la

Realpolitik, della guerra come strumento dell’azione

politico-diplomati-ca, le categorie di giusto e ingiusto costituiscono ancora la matrice teo-rica almeno della discussione se non della prassi politica, segnata sem-pre di più dalla crisi delle regole belliche tradizionali che è esplosa definitivamente dopo la fine della guerra fredda.

Con percorsi accidentati il tema della guerra ‘giusta’ ha attraversato secoli di storia a ondate successive permeate di istanze e preoccupazio-ni diverse, sollecitando un inesausto dibattito che tocca nei suoi esiti la sfera del diritto quanto i fondamenti etici e religiosi dell’agire umano. E se in passato la formulazione di una teoria politica e morale della guerra si era coagulata intorno a principi teologici e religiosi che si fondavano sulla fede cristiana o sui principi del diritto naturale nella riflessione di Agostino e Tommaso d’Aquino, rielaborata nel pensiero moderno da Ugo Grozio1, la prassi politica contemporanea ha trasfigurato la guerra

1 Per un’analisi di ampio raggio sullo sviluppo di queste tradizioni di pensiero si rimanda a Johnson 1975. Naturalmente ineludibili restano i lavori di Michael

in sanzione collettiva, in operazione di polizia internazionale come stru-mento per il mantenistru-mento della pace, senza tuttavia riuscire a elabora-re un’idea condivisa e omogenea di giustizia e di legittimazione etica e giuridica del ricorso alla forza in nome di valori dichiarati irrinunciabi-li, come il rispetto dei diritti umani o la promozione della democrazia. All’ombra della retorica trionfante della guerra ‘giusta’ sottesa in codici linguistici come ‘peace enforcing’, ‘peace keeping’ o ‘ingerenza umani-taria’ è stato legittimato dal diritto internazionale un interventismo mili-tare a distanza delle grandi potenze democratiche, che raggiunge senza rischi gli obiettivi strategici, svincolando di fatto l’atto bellico da ogni responsabilità e lasciando comunque aperta la partita sulle pesanti eredi-tà del post bellum2.

Al di là delle torsioni e ipocrisie verbali in cui lo scenario internazio-nale contemporaneo ha riscritto i confini tra pace e guerra, l’istanza di un modello normativo per il controllo della vis decertandi affonda le ra-dici nella cultura politico-giuridica romana, che per prima definì, attra-verso l’osservanza dello ius fetiale, le procedure atte a legittimare la guerra, per poi adattarne contenuti e ridefinizioni teoriche all’espansio-nismo imperialistico di Roma.

Preliminare a ogni considerazione sull’endiadi guerra-giustizia nel mondo greco è il definirsi della pace che, rispetto alla guerra, è conside-rata come uno stato transitorio di interruzione di uno stato naturale di conflitto, quasi una deviazione dalla norma3. La guerra come pratica pri-maria per l’acquisizione di forme basilari di ricchezza e forze di produ-zione (schiavi) investe anche ad Atene tutti gli ambiti dell’organizzazio-ne politica sin dai riti di integraziodell’organizzazio-ne socio-cittadina. La polis è la guerra, così come la cittadinanza è l’esercito e il singolo cittadino è un guerriero, cui la pervasività della retorica della guerra offre strumenti di verifica e definizione del proprio valore4.

Walzer, che in numerosi contributi a partire dal celebre saggio Just and Unjust

Wars (1977) in occasione dell’intervento statunitense in Vietnam ha

reintegra-to il concetreintegra-to di guerra giusta nella sfera della teoria politica e morale («la giu-stizia diventa una necessità militare» Walzer 2003, p. 79).

2 Vd. Colombo 2013, pp. 215-216.

3 Secondo Plat. Leg. 1.625e, la vita degli Spartani è organizzata nella consape-volezza che «c’è sempre la guerra contro tutte le città, continuamente, per tut-ta la loro vitut-ta».

4 È il caso di ricordare che nello spazio di tempo tra la rivolta ionica e l’egemo-nia macedone (c. 500-337 a.C.), accanto alle ben note grandi guerre (persiana e del Peloponneso), ebbero luogo non meno di 56 conflitti armati. La sola Ate-ne Ate-nel corso di un secolo e mezzo fu impegnata in una qualche attività

milita-Sulla scena teatrale il racconto della guerra in presa (quasi) diretta con il presente venne abbandonato da Eschilo dopo l’esperimento dei

Persiani, ma la riflessione sulla guerra, la sua retorica e legittimazione

morale, resta un nucleo semantico irriducibile nell’Orestea, unica trilo-gia tragica conservata, che incrocia con la materia troiana la cupa vicen-da degli Atridi inquadrandone le reciproche relazioni per approvicen-dare alla soluzione dell’impasse, che opprime in una vertiginosa, inestricabile se-quenza di colpa e vendetta il loro genos, nell’orizzonte delle contempo-ranee istituzioni civiche ateniesi. L’epopea troiana si avvia a legittimar-si come archetipo delle guerre perlegittimar-siane e di ogni conflitto futuro, con la conseguente proliferazione di cortocircuiti analogici con il presente, e come paradigma per ogni riflessione sulla conciliazione non sempre raggiungibile tra guerra e giustizia.

Nella prima tragedia, l’Agamennone, il Coro costituito da vecchi ar-givi rievoca l’origine della guerra (vv. 40-104), l’offesa arrecata a Me-nelao e Agamennone, concordi nell’esercizio della sovranità comune, dall’ospite Paride. A cominciare da un’immagine, che suggerisce insie-me potenza violenta, diritto oltraggiato5 e affetti feriti (vv. 48-54) 6:

levando dal cuore alto grido di guerra, come avvoltoi

che per il soverchio dolore dei figli altissimi volteggiano sul nido muovendo i remi delle ali perché vedono perduta la fatica di sorvegliare il nido per i piccoli.

re in media ogni due o tre anni: di modo che la città più importante della Gre-cia continentale dal punto di vista sia politico che culturale non visse nemmeno per 10 anni un periodo di pace (Garland 1985, pp. 15s.). Tucidide scelse di in-vestire gran parte della sua esistenza nel racconto della lunga e per molti versi paradigmatica guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) che egli giudicava esse-re stata la megiste kinesis, il «più grande sommovimento» che la Gesse-recia aves-se mai conosciuto. Sia pur estremizzando, la scelta tucididea implica che la storia — la storia dei rapporti tra Greci — è movimento, e che tale movimen-to coincide (in primo luogo, se non unicamente) con la guerra: la pace, in buo-na sostanza, non ha storiografia, perché non è storia: «quando non c’è guerra non c’è racconto», ricorda Diodoro Siculo (12.26).

5 La coppia regale viene definita avversaria di Priamo, con un termine, antidikos (vv. 40s.), che conserva una valenza propriamente giuridica, significando ‘av-versario in un processo’.

6 Seguo per l’Agamennone la traduzione di Enrico Medda e per le Eumenidi quella di Maria Pia Pattoni in Di Benedetto, Medda, Battezzato, Pattoni 1995.

Come uccelli cui sono stati uccisi i piccoli, i capi greci chiedono vendet-ta per il rapimento di Elena e un dio invia un’Erinni, un demone che alla fine punisce. È una questione di ‘giustizia’, lo stesso Zeus Xenios, protettore de-gli ospiti, è indicato come promotore diretto di una spedizione che punisce l’infrazione di una norma da lui stesso garantita: «contro Alessandro per una donna che ha molti uomini, volendo parimenti imporre a Danai e Troiani molte lotte che fiaccano le membra» (vv. 61-67). Inetti a combattere al fian-co del loro sovrano, lontani da Troia e dai fatti, i vecchi del Coro hanno tut-tavia custodito la memoria del passato e alla luce di quei segni ambigui ten-tano ora di interpretare le incertezze in cui brancolano. Ricordano con precisione – ché la persuasività e la capacità di convinzione ispirata dal dio (vv. 105s.) è intatta – il presagio che accompagnò la partenza dell’esercito per Troia: ai due re apparvero in cielo due aquile, una scura e una col dorso bianco, che da destra presso il palazzo regale si avventarono e infine sbrana-rono una lepre gravida, facendone strazio nella sua ultima corsa. La rassicu-rante similitudine dei volatili intenti a difendere a buon diritto il loro nido violato si disarticola ora mutando di segno. Nel pasto delle aquile Calcante, l’indovino del campo acheo, riconosce un presagio favorevole, una promes-sa di vittoria per l’imprepromes-sa dei due Atridi (v. 123), ma è la sua stespromes-sa atroce violenza a renderlo ambiguo e sinistro, tanto da far paventare al Coro che una collera divina possa ottenebrare l’esercito in armi prima ancora della partenza (vv. 131-133). L’avidità degli uccelli guerrieri che portano ai re la sanzione divina della loro impresa entra in conflitto con un’aspirazione di vita non meno potente, la fecondità della lepre sacrificata, totalità embriona-le dove il generatore si confonde col frutto generato. Il compimento del de-stino attraverso la Moira non può prescindere dalle azioni grazie alle quali si produce. Un’opera di distruzione così violenta oltraggia la dea protettrice non solo degli animali selvatici ma anche della promessa di vita ancora in crescita e non ancora concepita (vv. 134-138), che a difesa dell’integrità vio-lata del suo dominio si leva come ostacolo sul cammino della realizzazione del disegno di Zeus, esigendo come riparazione per consentire la navigazio-ne verso Troia la vita innocente della figlia di Agamennonavigazio-ne7. Ma il segno

7 Il motivo del sacrificio – com’è noto – non ricorreva nel racconto epico: nei

Canti Cipri (in Procl. Chrestomath. pp. 41, 42-49 Bernabé) si faceva

menzio-ne solo di un sacrificio propiziatorio di una cerva da parte di Agamennomenzio-ne, un motivo ripetuto in Esiodo (fr. 23.13-26 M.-W.) e in Stesicoro (fr. 217.25-28 Davies). Il tema sacrificale che offusca la legittimità della guerra e prepara ai disordini familiari postbellici comincia ad apparire proprio nel V secolo, con-diviso nella sintesi pindarica della Pitica 11.22-23a la cui datazione, al 474 o al 454, ha un peso decisivo nella ricostruzione delle reciproche influenze.

compensatorio si offre in tutto il suo paradosso: per ricomporre l’integrità del suo dominio, il sacrificio della lepre viene raddoppiato da quello di Ifi-genia, un atto contrario alle usanze (anomon), mostruoso (adaiton) e artefi-ce di laartefi-cerazioni insanabili nella casa di Agamennone (vv. 150-155). Esi-gendo il prezzo più esorbitante – l’unica parte di sé che Agamennone era contrario a sacrificare – come contropartita di una violenza messa in atto in nome del diritto, Artemide intende dimostrare che il diritto che tenta di argi-nare la violenza della natura si rivela più violento delle azioni a cui si è im-posto: la riparazione ha la stessa natura dell’offesa che le è stata fatta8.

Il conflitto creatosi è tale da giustificare lo sgomento dei vecchi Argivi: «Lugubre, lugubre canto intona, ma il bene prevalga» (vv. 121, 139, 159), ma l’impennata emotiva cede il passo allo sforzo con cui tentano di inqua-drare il problema nell’ordinamento complessivo del mondo, invocando il principio ordinatore (a cui dà il nome di Zeus, quale che sia la sua natura), come dispensatore e garante di saggezza che governa le sorti umane intorno a un semplice terribile principio: non c’è per gli uomini altra via per giunge-re alla conoscenza del dologiunge-re, nel quale si esercita «la grazia violenta» degli dèi (vv. 182s). Tale fondamento teorico e gnoseologico compone un para-digma che nella trama si rinnova convergendo nell’esperienza di cui diven-ta prodiven-tagonisdiven-ta Agamennone stesso con un «rimedio ancora più grave dell’a-mara tempesta» (vv. 198-200). L’intervento della dea spiega e condiziona il comportamento di Agamennone che – nel ricordo del Coro – non accoglie passivamente l’interpretazione profetica ma dà voce al travaglio interiore in un monologo che si dibatte soppesando conseguenze comunque rovinose (vv. 206s.). Soggetto al giogo di una necessità che lo rende «pronto a tutto osare» (v. 221), Agamennone sacrifica il legame naturale con la figlia all’im-perativo sociale, pur consapevole che quell’atto resta oggettivamente «em-pio, impuro, sacrilego», e dunque contrario al superiore concetto di divino (vv. 219s.). Il suo tentativo di avallare la volontà di immolare sua figlia con l’appello a themis (v. 217), un principio positivo di legittimità, sembra al Coro generato da una sventurata follia (vv. 222s.) che traduce l’obbligo di fedeltà di Agamennone alla sua funzione militare9. E se la sua decisione sot-trae l’esercito alla carestia causata dalla lunga sosta, impone nondimeno all’impresa una necessità diversa dal diritto per cui si battono, quella di Ate che li costringe paradossalmente a commettere l’eccesso, a traboccare di

8 Sulle cause dell’ira di Artemide e sul ruolo simbolico dei piccoli della lepre, una delle questioni più controverse dell’Agamennone, rimando alle eccellenti osservazioni di Bollack I 2, 1981, pp. 167-188.

violenza per conservare le istanze della giustizia. Nel doppio vincolo di ne-cessità contraddittorie in cui Eschilo avviluppa Agamennone, la colpa del sacrificio è inquadrata in una concezione ambigua della guerra in cui re-sponsabilità individuali e collettive, pur legittimate dal diritto, non risultano estinte neppure dall’apparenza trionfale della vittoria. Agamennone non ha scelta, ma non per questo può allontanare dal suo capo l’atrocità di ciò che ha commesso; il giustiziere si macchia di una hybris che è simmetrica a quella di chi si avvia a punire. È proprio sotto il segno di quel sacrificio con-sumato e non impedito (vv. 228-247) che Eschilo riorienta la guerra di Tro-ia e ne drammatizza gli esiti, dal difficile ritorno degli Achei alla vendetta di Clitemestra. Non presente agli avvenimenti seguiti alla partenza da Aulide, nell’epilogo della parodos il Coro non ha altri strumenti per decifrare il fu-turo se non la certezza che si vanno compiendo le predizioni di Calcante, rese inquietanti dalla stessa violenza del loro palesarsi. E d’altra parte la ri-flessione sulla natura di Dike, che si compie lenta per estendersi talora ben oltre la vita del singolo individuo nella spirale dell’ereditarietà della colpa10, ha indicato che la sua applicazione, pur necessaria a ristabilire l’ordine, non poteva limitarsi a investire solo Paride o i Troiani, ma era destinata ad intro-durre nuovi scompensi. L’avvenire dunque non è privo di minacce.

L’ingresso in scena di Clitemestra libera il Coro dall’angoscia per l’am-bivalenza complessa del futuro prefigurato dal responso. Le notizie sulla conquista di Troia trovano conferma nelle parole della regina stessa, che nella seconda parte del suo discorso evoca uno scenario della città conqui-stata assai ambiguo, in cui le pene della guerra sembrano unire vinti e vinci-tori e confonderne i destini in un quadro di precarietà e desolazione: se sul-lo sfondo si staglia il convenzionale dosul-lore dei vinti, nessun trionfo è immaginato per gli Achei che sbandati e confusi vagano alla ricerca di cibo per rifugiarsi dopo tanti anni di stenti al coperto nelle case dei vinti (vv. 326-337). Ambiguamente la regina esprime infine il timore che il viaggio di ri-torno potrebbe per gli Achei non risultare felice se dovessero macchiarsi di qualche colpa, augurandosi che risparmino nei loro saccheggi i templi e non vengano travolti dalla bramosia del bottino, per non dover poi pagare perso-nalmente la perdita inflitta con una propria perdita (vv. 338-340). Le imma-gini della conquista trapassano ad un’oscura minaccia che getta una luce li-vida sul loro ritorno: se pure torneranno innocenti nei confronti degli dèi e altre sventure inaspettate non si abbatteranno su di loro, il dolore dei morti è sempre pronto a ridestarsi (vv. 345s.).

10 Come riconosceva la sapienza arcaica (ad esempio Solone frr. 1.8 e 29 ss.; 3.16 G.-P.o Theogn. 199-208).

Nel suo canto successivo, il primo stasimo, (vv. 355-487), il Coro loda il colpo infallibile della giustizia di Zeus, riaffermando la sua condanna per il comportamento di Paride e per il suo desiderio invincibile (v. 385) che lo in-citò a rapire Elena e, attraverso quest’atto, per tutta la volontà espansiva del-la città di Priamo, che costituiva una negazione dell’ordine di Dike inteso come limite oltre al quale le cose perdono la loro identità (vv. 376-380). Ri-masto inerme ad Argo, il Coro non poteva disporre di informazioni per un racconto continuo degli eventi, così la sua narrazione risulta frammentaria, scandita da momenti distinti convergenti tutti sull’esperienza del vuoto che la spedizione lontana ha imposto alla città. Tornano nel ricordo la fuga di Elena, il muto sgomento di Menelao; ogni evocazione positiva – come la bellezza delle statue nella reggia (vv. 416s.) o la gloria degli Atridi (v. 468) – è contraddetta da un movimento contrario, come sgretolata da una contro-partita negativa. Così alla leggerezza con cui Elena se ne andò, «osando l’i-nosabile» (vv. 403 e 407s.) fa seguito l’immagine del dispiegamento mas-siccio della macchina bellica (vv. 404s.). La guerra come luogo in cui si rinsalda l’identità eroica e come mezzo di regolamento giuridico è causata da un avvenimento che li contraddice entrambi: l’impalpabile varco della soglia di un’adultera in fuga.

Simmetricamente il tema dell’assenza è declinato nella giustapposizione nella stessa strofe della nostalgia onirica di Menelao e dell’assenza dei guer-rieri che è restituita ad una realtà tangibile di urne e reliquie (vv. 433-449):

tutti ricordano bene chi accompagnarono, ma al posto di uomini

tornano adesso alla casa di ognuno ceneri e urne.

Il cambiavalute che scambia corpi umani,

Ares, che regge la bilancia nella mischia di guerra,

da Ilio rimanda ai parenti una polvere greve, bruciata sul rogo, che suscita amaro pianto,

riempiendo di cenere in cambio d’uomini i vasi, carico leggero.

Ed essi piangono, lodando ognuno il proprio caduto, l’uno perché buon combattente,

l’altro perché cadde da valoroso nella mischia per colpa della donna di un altro11.

11 Con modalità e da angolazioni diverse il Coro più volte ribadisce il reale mo-tivo di guerra – non Dike ma Elena – sottolineando lo scarto che separa l’eroi-smo al servizio dell’impresa e la trivialità della causa difesa, una sproporzione tra mezzi e fine (vv. 62ss., 448s.).

Ares, il cambiavalute di corpi, che tiene in bilico l’esito della mischia, è un mediatore subdolo che converte il peso di un uomo nel peso leggero della polvere in un’urna. La cremazione dei cadu-ti sul campo di battaglia con l’invio in patria delle spoglie risponde in effetti a un rituale funerario tipicamente ateniese invalso pochi anni prima della rappresentazione. Ma nel patente anacronismo converge un richiamo di impressionante attualità al presente, in un periodo in cui Atene aveva intrapreso molte guerre che doveva con-durre anche in paesi stranieri, con enorme spargimento di sangue12. Si data intorno al 459 o 458 a.C. l’epigrafe funeraria pubblica rela-tiva ai caduti della tribù Eretteide (IG I3 1147 = IG2 I 929)13 che ci dà conto in dettaglio dell’impegno militare sostenuto dagli Atenie-si Atenie-sia sul suolo greco (in Argolide, a Egina, nella Megaride) che fuori dalla Grecia (a Cipro e in Egitto, raccogliendo l’invito del re Inaro)14.

La morte in guerra è intesa come una sorta di metafora di carattere economico, una transazione nella quale a un dare corrisponde un riceve-re iniquo. Ariceve-res è il cambiavalute che non si limita a scambiariceve-re un metal-lo con un altro, ma fraudolentemente riceve oro per restituire polvere, «greve» solo per via traslata, per il peso del dolore nel cuore dei con-giunti15. E se pure vi è un esplicito cenno alla lode per i caduti (quasi si sviluppasse nella direzione dell’esaltazione della bella morte in batta-glia, come nelle elegie di Tirteo o Callino), tuttavia la cornice stessa del compianto lo svuota di significato: nell’elogio che deve assicurare la so-pravvivenza attraverso i discorsi, la gloria del defunto non è mai scissa dall’evocazione desolante della causa, assurda e sproporzionata: «per la donna di un altro», come qualcuno mugola in silenzio (v. 448). Non c’è luogo per la retorica dell’eroismo in questo stasimo, manca ogni

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