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PAROLE DI GUERRA NELLA PACE DI ARISTOFANE

Nel documento MIMESIS / CLASSICI CONTRO (pagine 87-105)

«Com’è stata dura arrivare dritto dagli dèi! Mi dolgono ancora le gambe! Dall’alto vi vedevo piccoli: dal cielo mi sembravate dei delin-quenti fatti, ma ora, visti da qui, sembrate molto peggio: delindelin-quenti all’ennesima potenza!» (vv. 819-23). In queste parole, con cui nella

Pace di Aristofane i Greci vengono apostrofati dal contadino Trigeo,

reduce dal ‘folle volo’ che lo ha condotto verso l’Olimpo alla ricerca della pace, si può trovare condensato il senso ultimo – e, paradossal-mente, tragico – del teatro comico: che nasce appunto dalla visione ‘ravvicinata’ dei difetti dell’uomo e dei mali che ne derivano ai singoli e all’umanità intera.

Da sempre la guerra è percepita come il male peggiore che il genere umano possa procurare a se stesso. E la riflessione tragicomica sulla guerra attraversa, com’è noto, l’intera produzione di un commediogra-fo politicamente engagé quale fu Aristofane tra gli ultimi decenni del quinto e i primi del quarto secolo a.C. Ma nella Pace, più che in altre sue commedie, questa riflessione assurge a una dimensione metapoeti-ca, filosofica e, potremmo dire, metafisica: poiché le rocambolesche avventure di cui sono protagonisti i personaggi – animati e inanimati – di questa commedia danno corpo e parola sulla scena teatrale alla follia della guerra: quella follia che in guerra dilaga al contempo tra vittime e carnefici.

«Il mio padrone è pazzo, di una forma nuova di pazzia. Non come lo siete voi1, ma in un modo del tutto particolare: se ne sta tutto il giorno a

1 Rispetto all’ipotesi, prospettata dallo scoliaste (Σ Tr 55 Holwerda), secondo cui Aristofane alluderebbe qui alla «mania giudiziaria» degli Ateniesi, ossia a quello specifico νόσος imputato a Filocleone dai suoi due servi nel prologo delle Vespe, ben più suggestiva pare a me l’ipotesi che la battuta valga, oltre che «as a generalized abuse of the audience», forse anche «as a proleptic allu-sion to the various reckless behaviours denounced in detail in 605-47, 665-9» (Aristophanes Peace, edited with introduction and commentary by D.S. Olson, Oxford 1998, p. 79, ad loc.), ossia come un’allusione a quella cieca e

genera-bocca aperta, così, a guardare il cielo, e se la prende con Zeus: “Zeus, cosa pensi di fare? Metti via la scopa, non spazzare via l’Ellade!”» (vv. 54-59). Con queste parole uno dei suoi due servi descrive lo stato di al-terazione mentale del padrone Trigeo, il quale infatti, dall’interno della sua casa, grida allarmato: «Zeus, che vuoi fare del nostro popolo? Non ti accorgi che stai riducendo in briciole le nostre città?» (vv. 62-63), mentre il servo commenta: «Ecco, questa qui è la malattia di cui vi dice-vo: potete ascoltare un saggio delle sue ossessioni; e sentite cosa disse quando fu colto dal primo accesso della malattia: “come faccio ad arri-vare direttamente da Zeus?”» (vv. 64-65). Dopo un maldestro e malriu-scito tentativo di fabbricarsi delle scalette sottili (vv. 69-71) per arram-picarcisi e scalare il cielo sino a Zeus (finché non è cascato di sotto spaccandosi la testa), Trigeo ha deciso infatti di intraprendere un τόλμημα νέον (vv. 92-94), una «nuova impresa», se possibile ancora più incredibile: ha pensato cioè di condurre la sua spedizione in groppa a uno scarabeo, nello sconcerto generale dei suoi due servi e delle sue due figlie. Lo stesso servo di prima (quello, dei due, più scandalizzato e spazientito) gli dice esplicitamente: «signore, padrone, ma sei impazzi-to?» (v. 90), e glielo ripete («ma quale volo? Perché vaneggi?», v. 95) quando quello gli chiarisce le sue vere intenzioni: alzarsi in volo in grop-pa a uno scarabeo stercorario e recarsi da Zeus per convincerlo a salva-re i Gsalva-reci, da dieci anni ormai in guerra tra loro; e se il padsalva-re degli dèi resterà sordo alla sua richiesta, non esiterà ad accusarlo di tradire l’Ella-de per conto l’Ella-dei Persiani (v. 108). Da vero mitomane, Trigeo vuol farsi dunque salvatore di tutta la Grecia, cioè, per l’uomo greco, di tutta l’u-manità2. Ma è anche uno che, molto più egoisticamente, spera di por fine alla miseria in cui la guerra ha precipitato la sua famiglia (vv. 129-33). Come Diceopoli, protagonista degli Acarnesi, la prima delle commedie cosiddette ‘pacifiste’ di Aristofane, Trigeo è un contadino, e, dunque, al-meno potenzialmente, un soldato. Da quando c’è la guerra, da bravo cit-tadino Diceopoli è – lo dice egli stesso – anche un combattente (vv. 595s.). Quanto al viticultore Trigeo, con la sua fantastica quanto vellei-taria azione di salvataggio non solo di Atene ma dell’intera Grecia, egli

lizzata furia bellicista con cui i Greci si sono condannati al loro destino di guer-ra incorrendo nell’iguer-ra e nello sdegno della Pace.

2 Come tale egli stesso si definirà ancora ai vv. 864-66, e come tale verrà poi ce-lebrato dal Coro, ai vv. 913-15; ma già al v. 150, con linguaggio probabilmen-te paratragico (cfr. Olson, Aristophanes Peace, cit., p. 97, ad loc.), Trigeo ri-vendicava meriti eroici nei confronti degli spettatori (… ὑπὲρ ὧν τοὺς πόνους ἐγὼ πονῶ), e dunque, per traslato, di tutti i Greci.

si sente persino un eroe di guerra3. Il legame tra proprietà terriera, citta-dinanza e funzione militare costituisce un fattore strutturale della polis ateniese: lo ribadisce di recente, ad esempio, Massimo Stella4, che ri-chiama la simmetrica condizione esistenziale dei protagonisti delle due commedie: strappati ai loro villaggi situati nei pressi di Atene, Acarne e Atmone, e inurbati forzatamente dopo lo scoppio del conflitto, tanto Di-ceopoli quanto Trigeo sono sempre passibili di essere chiamati o richia-mati alle armi senza preavviso (Ach. 1065, Pax 1178-86). Se Diceopoli è il contadino che null’altro ha da fare in città se non frequentare un’as-semblea sempre più deserta e inutile (vv. 19-26), dove ascolta insoppor-tabili menzogne sulla guerra ‘giusta’, Trigeo è la vera icona del grande trauma bellico, anche lui drammaticamente allontanato dai suoi campi e sfollato in città, dove è escluso dai giochi politici (vv. 676ss.), assillato dalla miseria al punto da non avere un tozzo di pane per sfamare le figlie (vv. 119-21), e usato all’occorrenza come ‘carne da cannone’. I due sol-dati-contadini coltivano dunque malesseri e frustrazioni che si traduco-no in vere e proprie follie maniacali (Ach. 1-3, 33; Pax 54s.) e sfociatraduco-no in iniziative clamorose e bizzarre: Diceopoli, in barba agli orientamenti della politica ateniese, stipula un’assurda pace tutta personale con gli Spartani; Trigeo, «per il bene di tutti i Greci» (v. 93), si alza in volo per … andar a cercare la pace su in cielo, con un gesto che conferisce plasti-ca drammatizzazione sceniplasti-ca all’irrealizzabile astrattezza delle sue aspi-razioni ireniche.

Per volare in cielo Trigeo si serve di uno scarabeo stercorario perché una favola di Esopo racconta che il κάνθαρος è stato l’unico animale alato cui sia riuscito di volare εἰς θεούς, quella volta che, intenzionato a rompere le uova che l’aquila, sua nemica, aveva covato nel nido fatto nel petto di Zeus, aveva lanciato una palla di sterco, colpendo però, invece che le uova, la testa di Zeus: e se l’impresa è riuscita allo scarabeo della favola, non si vede perché non possa ripeterla lui!5 A nulla serve

3 Sulla caratterizzazione squisitamente eroica del personaggio di Trigeo vd. dif-fusamente A. Camerotto, Come diventare un eroe. Le virtù e le imprese di

Trygaios Athmoneus, «Incontri triestini di filologia classica» 6, 2006-2007

(Atti della giornata di studio in onore di Laura Casarsa. Trieste, 19 gennaio

2007), pp. 257-87.

4 M. Stella, Cronache dalla città assediata. Aristofane e il teatro di guerra

(Acarnesi, Pace, Rane), «Dioniso» n.s. 1, 2011, pp. 46s., che qui parafraso

li-beramente.

5 Sulla funzione comica della favola esopica evocata in questa scena della Pace vd. S. Schirru, La favola in Aristofane, Berlin 2009, pp. 99-103.

che una delle sue due figlie protesti che la storia di una bestia maleodo-rante arrivata fin su dagli dèi non può essere che un μῦθος ἄπιστος, una leggenda inverosimile (v. 132), perché nei successivi vv. 137-39 Trigeo giustifica brillantemente la scelta di quell’insetto che lo fa sentire un novello Bellerofonte, e che invoca infatti come «nobile Pegaso alato» (v. 76): con qualunque altra cavalcatura avrebbe avuto bisogno di cibo per due, laddove con lo scarabeo potrà ‘riciclare’ i propri pasti, offrendoli all’animale sotto forma di escrementi.

E così la commedia si apre con un dialogo surreale tra i due servi di Trigeo, che, sulla scena, si affannano, imprecando, a impastare frettolo-samente focacce di sterco per uno scarabeo6: dialogo che si conclude con una macabra e non meno enigmatica boutade sul disgustoso Cleone, l’odiato demagogo ateniese che, caduto in battaglia ad Anfipoli nell’estate precedente alla rappresentazione della commedia, combattendo contro gli Spartani guidati da Brasida in Tracia, anche da morto continua a essere target privilegiato della satira politica del commediografo. Il suo nome, come evocato dagli Inferi, vien fatto da uno dei due servi di Trigeo in un breve ‘a parte’ squisitamente metateatrale (vv. 43-48): il servo si figura infatti un dialogo tra due spettatori particolarmente saccenti che s’interrogano sul significato dello scarabeo sulla scena, nel quale si conclude che lo scarabeo alluderà a Cleone, uno che, proprio come quello, «non si vergogna a mangiare lo sterco» (vv. 47s.)7. Più oltre, del resto, nella parabasi, Cleone verrà descritto come un τέρας, un mostro immane che puzza come una foca, ha testicoli sporchi e culo di cammello, e si comporta come un pervertito (vv. 754ss.), e as-surgerà a perfetta figurazione simbolica di quel sovvertimento dell’ordi-ne cosmico che ogni guerra comporta: uno sconvolgimento dei cicli na-turali della vita sulla terra ma anche, come si saprà più avanti, un generale impazzimento nell’establishment divino e nell’assetto dei rap-porti tra gli dèi sull’Olimpo.

Trigeo fa dunque il proprio ingresso in scena sulla μηχανή, la macchina del volo, a cavallo di un gigantesco scarabeo, ed enuncia il suo

6 A proposito dello straniante dialogo che si svolge tra i due servi nei primi qua-rantanove versi della commedia, Stephen Kidd (Nonsense and meaning in

an-cient Greek comedy, Cambridge 2014, p. 67) parla di «nearly fifty lines of

un-solved obscurity»: il soggetto della commedia sarà disvelato infatti solo nei successivi vv. 50-81.

7 Per la puntuale esegesi dei problematici vv. 47s. vd. ora G.F. Nieddu, Note alla Pace di Aristofane, «Lexis» 31, 2013, pp. 174-78.

originalissimo progetto: raggiungere in cielo Zeus per chiedergli quale destino abbia in mente per i Greci, in guerra ormai da tanti anni.

Ora, se il cielo è da sempre percepito quale luogo privilegiato di os-servazione delle miserie e delle mischie umane, e dunque anche della grottesca assurdità della guerra, è in particolare nella letteratura della Grande Guerra che la mistica del cielo, del volo e dell’aviazione offre al soldato una picaresca prospettiva di evasione, di auto-trascendenza e di individualismo eroico: in definitiva, quell’aspettativa di liberazione e di avventura che gli è stata negata dalla realtà della trincea8. E, come in molta narrativa della Grande Guerra – dove il ‘viaggio’ del soldato ri-flette aspirazioni liberatorie, è un percorso verso la realizzazione del sé e, al contempo, un tentativo estremo di preservare il bene comune9 –, analoga tensione tra genere picaresco e Bildungsroman si riconosce nel-la Pace di Aristofane10.

8 Come osserva E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità

per-sonale nella prima guerra mondiale, trad. it. Bologna 1985 (Cambridge

1979), «Il mito del volo, dell’avventura aerea come ultima sponda del com-portamento cavalleresco, è chiaramente un concetto compensatorio. Esso ser-viva infatti a mantenere aperto in qualche modo lo spazio di significato e fi-nalità attraverso il quale tanti erano entrati in guerra, essendo l’aviatore una figura reputata ancora in grado di destreggiarsi fra le aspettative annientate dalle condizioni della guerra di trincea: assumendo la prospettiva dell’aviato-re, il fante avrebbe potuto distanziarsi psichicamente dalle schiaccianti condi-zioni di guerra» (p. 179). Ed è per questo che «Gli aviatori apparivano come antichi cavalieri che, attraverso il loro rapporto privilegiato con le macchine, avevano riguadagnato l’antico status elitario e la loro superiorità sulla massa pidocchiosa delle trincee» (p. 181).

9 È il caso, per citare solo qualcuno degli esempi letterari più celebri, di Rivière, l’eroe nietzschiano del Vol de Nuit di Saint-Exupéry, o dei soldati de

L’equipa-ge di Joseph Kessel, veri e propri picari che affrontano prove ardue in un

mon-do ostile, o del Ferdinand Bardamu protagonista del Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline, che, arruolatosi, in uno slancio patriottico, come volontario, diviene presto un anarchico antipatriota, che rifiuta la guerra, le menzogne e le ipocrisie della propaganda ufficiale e pensa soprattutto a come sopravvivere.

10 Un aspetto rilevato con particolare attenzione da Carroll Moulton (Aristophanic Poetry, Göttingen 1981, pp. 82-107), a parere della quale «romance» e «pastoral» sono i due ingredienti fondanti della struttura narrativa e drammaturgica della Pace: se infatti la «festive imagery», connessa alla celebrazione della vita nei campi e delle gioie della pace, ed evocata dal forte contrasto città-campagna, garantisce alla trama della commedia una tina pastorale, d’altra parte il τόλμημα νέον di Trigeo, ossia il fantastico e pa-ratragico viaggio compiuto dall’eroe comico per salvare tutti i Greci dalla guerra, le imprime una forte connotazione romanzesca. E del resto, la

speran-La comicità della scena del volo di questo Trigeo aviatore ante litteram – un aviatore specialissimo, perché votato a una missione di pace – è alimentata dalla dimensione escrementizia, che, oltre ad avere un fondamento eziologico nella su evocata favola esopica, s’innesta naturalmente nella irrinunciabile componente scatologica della commedia attica antica. Prima di librarsi in volo, Trigeo ordina a tutti gli astanti di murare con uno strato di mattoni latrine e cessi e di tapparsi anche il sedere (vv. 101-3) e di non scoreggiare né defecare per tre giorni (vv. 150ss.): se lo scarabeo annusasse qualcosa mentre è in aria, potrebbe buttarlo giù per andare... ‘al pascolo’. E in effetti lo scarabeo è costantemente attratto dalla puzza di sterco che viene dalla terra, al punto che all’improvviso, dopo essersi sollevato da terra, si abbassa di nuovo: «che fai, che fai? Dove volgi le narici? Verso le latrine?» gli urla Trigeo, che grida poi a qualcuno del pubblico: «e tu, uomo, che fai? Stai cacando nei pressi dei bordelli del Pireo? Così mi ucciderai: sbrigati, seppelliscila (la tua cacca) e ricoprila di terra, piantaci sopra il timo e versaci del profumo [...], sennò morirò [...] per colpa del tuo culo!» (vv. 164-72); e lo stesso Trigeo, che teme sul serio di farsela addosso per la paura di cadere, rivolge uno straniante monito al tecnico di scena che lo sta tirando su: «macchinista, fa’ attenzione, ché un vortice di colica mi ruota attorno all’ombelico, e se non stai attento sarò io a dar da mangiare allo scarabeo! (vv. 173-76)». Quando poi, arrivato a destinazione, dinanzi alla porta di Zeus, Trigeo s’imbatte in Hermes, quest’ultimo non a caso dichiara subito: «da dove mi colpisce questo... odore11 di mortale? (v. 180)», ed è facile a questo punto intuire di quale cattivo odore si tratti, un odore divenuto evidentemente tratto distintivo del genere umano!

Come ha osservato Jeffrey Henderson, le oscenità che costellano la parte iniziale della commedia, sino al disseppellimento di Eirene, tutte

za del soldato per un mondo migliore è un’ambizione astratta, che assume spesso, nella letteratura della Grande Guerra, l’aspetto di una nostalgia per un’Arcadia perduta: come scrive Paul Fussell nel capitolo settimo (Ritorni

all’Arcadia, pp. 297-343) del suo fondamentale volume su La Grande Guer-ra e la memoria moderna, tGuer-rad. it. Bologna 1984, nuova ed. con introduzione

di A. Gibelli, Bologna 2000 (Oxford 1975), p. 297, «Se la pace è l’antitesi del-la guerra, per trovare il contrario delle esperienze di guerra si deve ricorrere al mondo pastorale».

11 In verità, a stare a uno scolio del Ravennate e dell’Aldina (Σ vet Tr 180c. α.β. Holwerda), il genitivo βροτοῦ potrebbe sottintendere qui tanto ὀσμή quanto φωνή: ma, considerato il contesto, il ‘non detto’ della divinità risulterebbe, credo, meno banale se inteso come reticenza relativa al peculiare cattivo odore che connota l’essere umano arrivato in cielo in groppa a uno scarabeo stercorario.

scatologiche, servono a caratterizzare «the corruption and the unnaturalness of wartime Athens»12: il mondo senza pace è un mondo di escrementi e cattivi odori, nel quale l’erotismo eterosessuale è assente, e che è perciò sostanzialmente sterile. Controfigura allegorica del disgustoso Cleone, lo scarabeo stercorario incarna scenicamente il rovesciamento dell’ordine corretto delle cose: la bestia immonda mangia escrementi, piuttosto che evacuarli, ha dunque una bocca nauseabonda simile a un ano, e ama ciò che gli uomini, e, per lo più, anche gli animali, aborrono naturalmente.

Come ricorda Antonio Gibelli, «confusione, promiscuità e lordura sono segnalate con sorprendente frequenza come connotati tipici dell’ambiente delle trincee e come fattori di destabilizzazione dell’equi-librio mentale»13. In Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, il reduce Beppe Fenoglio conduce una rabbiosa invettiva contro coloro che la guerra non l’hanno fatta, non ne hanno visto «il sangue, la merda e il fango» e che per questo riescono a parlarne, pur non avendone titolo. Ma dalle sue parole traspare anche «un moto di disgusto per ciò che la guer-ra ha fatto conoscere al soldato, iscrivendolo nel guer-raggio della sua quoti-dianità: la spaventosa mescolanza tra corpo e materia, la contaminazio-ne e il contagio tra materiale biologico (escrementizio, ematico, cerebrale), terra e fango». Anche Carlo Emilio Gadda – ricorda ancora Gibelli – denuncia «la ripulsa nevrotica e l’effetto di annientamento che desta in lui la sistematica mancanza di ordine»: nelle sue Giornate di

guerra e di prigionia, «elenca puntigliosamente l’urtante varietà delle

defecazioni dei soldati che circondano i ricoveri: “Merde: sono sparse, di tutte le dimensioni, forme, colori, di ogni qualità e consistenza, nei dintorni immediati degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, bronzine, liquide, solide, ecc.”». Analogamente, nel suo ‘taccuino’ sulla

Guerra del ’15, Giani Stuparich «segnala il “malessere della sporcizia”

e, meno rabbiosamente ma con altrettanta impotente disperazione, scri-ve: “È umiliante aggirarsi intorno ai ricoveri (…): da per tutto si pesta nella merda, che sprigiona un puzzo insopportabile”. La natura, la vita e la morte, ne risultano assediate e profanate: “E così questa collina rive-stita di teneri pini e profumata d’erbe e di resina, questa collina su cui si viene a morire, si spoglia a poco a poco e diventa un letamaio”. Si

direb-12 J. Henderson, The Maculate Muse. Obscene Language in Attic Comedy, New York-Oxford 19912, p. 63.

13 La questione è trattata in particolare in A. Gibelli, L’officina della guerra. La

Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino 20073, pp. 188-93. Questa e le citazioni immediatamente successive sono tratte dalle pp. 188s.

be anzi che per lui la disillusione, la caduta della tensione ideale prenda-no precisamente questa forma: della guerra come merda e fango. Quel-lo da cui è colpito è la confusione come inquinamento e violazione di un ordine naturale: ed è in tale esperienza che si consuma il passaggio da un universo ordinato di ideali a un universo disordinato di materia».

Ma se gli uomini che Trigeo sorvola nel suo viaggio verso il cielo sono prima immaginati e poi visti dall’alto come frequentatori di bordelli e latrine, le divinità non sono migliori: Zeus è σκαταιβάτης (v. 42), «bassitonante», o, più alla lettera, «uno che discende sulla terra sotto forma di sterco»14; lo scarabeo stercorario è la propria προσβολή (v. 39) e il proprio τέρας (v. 42), ossia la sua «maledizione» e il suo «prodigio», e ha addirittura sentenziato la condanna a morte per chi volesse dissot-terrare la Pace (vv. 371s.). E, in generale, gli dèi olimpici hanno perdu-to la loro omerica allure: abbandonata quella condivisione d’armi e d’intenti che li vedeva mescolati agli eroi nelle carneficine della guerra di Troia, sono divenuti, tanto quanto gli uomini, πορνοβοσκοί, tenutari di bordelli (vv. 849s.): è dal cielo, infatti, che Trigeo rimorchierà le due fanciulle, Opora e Teoria, con cui, una volta recuperata la Pace, soddi-sferà i bisogni sessuali propri e di tutti i membri della Boulé dopo le dure astinenze imposte dalla guerra; e, ancor più in generale, gli dèi, disgusta-ti dal comportamento degli uomini, i quali, per quante occasioni di tre-gua abbiano avuto, hanno sempre preferito proseguire la guerra, hanno traslocato dall’Olimpo andandosene a stare il più in alto possibile, ab-bandonando i mortali al loro destino, e anzi affidandoli a Polemos, il dio della guerra, perché faccia di loro quel che vuole (vv. 195-219).

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