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Storia di un eroe che non amava la guerra

Nel documento MIMESIS / CLASSICI CONTRO (pagine 191-200)

1. Romolo

Non mi riconoscete, vero? È comprensibile, è trascorso molto tempo. Sono Romolo. Romolo, certo, il gemello divino, il fondatore di Roma. Perché sono qui, volete sapere? Sono infastidito. Di più, indignato. Lo diceva già Omero, οὐκ ἀγαθὸν πολυκοιρανίη, «non è cosa buona che siano tanti a comandare». Come eroe fondatore di Roma bastavo tran-quillamente io: specie poi ora che sono salito in cielo, com’era giusto, e al mio nome mortale si è aggiunto quello di Quirino. Sono figlio di Mar-te: «e lui prese, lui prese mia madre sopra un bel prato», no, chiedo scu-sa, in un bosco sacro, mia madre era una Vestale, una sacerdotessa della dea del focolare, e la rese gravida di due gemelli – si sa come sono gli dèi, il loro seme non è mai sterile. Sento dire che Marte a quei tempi era un dio agricolo, protettore dei campi e dei raccolti, e che soltanto dopo è diventato il signore della guerra: sciocchezze, mia madre ricorda bene che era armato di tutto punto, lancia, corazza, schinieri e scudo. Sì, lo so, qualcuno ha insinuato che fosse il re Amulio, l’usurpatore, il signore abusivo di Alba Longa, ad essersi vestito così per fingere di essere Mar-te; ma lo si è visto, no?, che io sono davvero figlio del dio della guerra. Sotto il mio comando Roma, un minuscolo villaggio di pastori e banditi in cima al Palatino, è già diventata una potenza regionale, ho tirato su una città dal nulla e la lascio padrona di un bel pezzo di Lazio. Se dal frutto si vede l’albero, nessuno può dubitare che io sia figlio di un dio, anzi, di quel dio. Del resto, è proprio così che si ragiona a Roma: anche del mio discendente Cesare diranno un giorno che le sue conquiste, le sue eccezionali capacità militari, sono la prova della sua origine divina.

Spiegatemi allora da dove viene fuori questo Enea. Figlio di un dio anche lui, beninteso, anzi di una dea, chi vuole negarlo: ma di quale dea? Di Afrodite, come la chiamano i Greci, o Venere, come preferisco chia-marla io. Una dea dell’amore, del desiderio, della passione, del sesso. La

dea della primavera, la stagione in cui «a tutti imprimendo nel petto l’a-more suadente / fa sì che smaniosi diffondano la progenie secondo le specie». Amante di Marte, certo, anch’io ho letto Omero, cosa credete? Ma certo poco incline alle opere della guerra, quel suo figlio, Eros o Cu-pido che dir si voglia, è un ragazzino con le ali d’oro e gli occhi da mo-nello, che usa l’arco e le frecce per colpire i cuori e farli cadere nella smania d’amore, non certo per consegnare «molte anzitempo all’Orco alme d’eroi». Ed Enea è pur sempre fratello di Cupido, come ricorderà un giorno maliziosamente il poeta Ovidio. Uno così, eroe fondatore dei Romani? Capostipite dei futuri signori del mondo? Pensate che bastino i giochetti linguistici, far notare che Amor è il palindromo di Roma, per convincermi che vada bene così?

Ecco, sento qualche mormorio di protesta tra i giurati qui presenti. Forse sono prevenuto. I poeti più antichi di Roma diranno persino, mentendo, che Enea era mio padre, o mio nonno, e certo in una socie-tà patriarcale come quella di Roma non sta bene parlare male del pa-dre. Allora, signori della corte, chiamerò in causa dei testimoni d’ec-cezione. Gente che lo ha conosciuto bene, quell’Enea, che lo ha visto in azione laggiù, sulla pianura polverosa di Troia, tomba di eroi. Lui era lì, a combattere contro i Greci – o almeno, a dire di combatterli. Sentiamo Diomede, ad esempio. Diomede è un testimone importante, un guerriero che conta, accompagnò persino Odisseo nella sortita not-turna dentro le mura di Troia, di lui potete fidarvi. Diomede quel gior-no era scatenato: Atena combatteva dalla sua parte, gli aveva concesso persino il privilegio, rarissimo per un mortale, di poter vedere gli dèi, che di norma si aggirano sul campo di battaglia invisibili ai guerrieri. Per questo ignorò gli ammonimenti del suo scudiero Stenelo, che gli raccomandava di guardarsi dall’aggredire il figlio di Anchise e Afrodi-te, e colpì Enea con un macigno gigantesco. E lui, il grande eroe, si piegò sulle ginocchia, «una notte nera gli velò gli occhi»; Diomede si apprestava a vibrare il colpo fatale, e certo «sarebbe morto il capo d’e-serciti, se non se ne fosse subito accorta la figlia di Zeus Afrodite, sua madre, che cinse attorno al figlio le candide braccia, e spiegò davanti a lui un lembo del peplo splendente, che lo difendesse dai colpi, che nessuno dei Greci che hanno veloci cavalli gli piantasse il bronzo nel petto e gli togliesse la vita». Cuore di mamma. Come poi sia andata a finire, Omero lo sapeva bene, e non ne fa mistero: Diomede inseguì la dea stessa, la ferì al polso, e lei, Afrodite dall’aureo cinto, non seppe fare di meglio che abbandonare il figlio al suo destino e andare a pian-gere dalla madre Dione. Fortuna che Apollo prese al volo il corpo di

Enea e lo portò definitivamente in salvo. Bella forza, avere per guar-daspalle due divinità.

Non vi basta? State per snocciolare il vecchio adagio Unus testis

nul-lus testis? Ah, vi adoro quando parlate nella mia lingua. Allora adesso

chiamo in causa nientemeno che il Pelide, il piè veloce, Achille in per-sona. Vi prego di ascoltarlo con attenzione, è stato difficilissimo convin-cerlo a venire sin qui dalle Isole dei Beati per testimoniare. Anche lui si trovò un giorno di fronte ad Enea, laggiù a Troia. E si sa come sono i guerrieri omerici, è gente che non rinuncia mai a mettere insieme un bel discorso prima di impugnare le armi. I Greci sono sempre greci, alle pa-role non rinunciano mai, neppure mentre infuria la battaglia. Ecco allo-ra Achille allo-raccontare di quella volta che aveva sorpreso Enea da solo, sul monte Ida, mentre il Troiano sorvegliava le sue mandrie: Achille si lan-ciò all’inseguimento e l’altro giù a precipizio per le balze del monte, e continuò a scappare fino a Lirnesso, lasciando che l’eroe greco distrug-gesse quella città: quanto ad Enea, Zeus e gli altri dèi lo salvarono. Come al solito, verrebbe da dire. E del resto non è andata così anche la seconda volta? Finalmente, esauriti i discorsi di rito, Achille ed Enea stanno per scontrarsi, hanno già scagliato le lance e sguainato le spade, quand’ecco scendere dal cielo Posidone che versa nebbia negli occhi del Pelide e trasporta Enea nell’ultima fila, alle spalle dell’esercito troiano. Basta, niente duello, gli spettatori devono tornare a casa senza neppure il rimborso del biglietto, già, perché è in gioco una causa di forza mag-giore. Posidone spiega che Zeus ha preso in odio la discendenza di Pria-mo, il sovrano in carica, e che a Troia in futuro dovranno regnare «Enea e i figli dei suoi figli e quelli che verranno dopo». Versi, sia detto per in-ciso, che daranno un bel po’ di grattacapi ai poeti e agli storici quando i Romani pretenderanno che Enea fosse invece giunto nel Lazio e qui fos-se diventato il mio capostipite. Questi dèi omerici sono davvero impic-cioni, non basta loro scendere sul campo di battaglia, stendere un peplo qui, versare nebbia negli occhi lì, no: loro pretendono di ingerirsi anche nelle faccende politiche, nelle beghe dinastiche, di stabilire chi debba governare e chi invece debba perdere il potere, di dividere i sommersi dai salvati. La loro parola d’ordine è «Ce lo chiede l’Olimpo», e con questo slogan giustificano qualsiasi intromissione. Comunque il risulta-to non cambia, Enea non ha combatturisulta-to neppure quella volta, e Achille è rimasto con un palmo di naso.

Colgo segni di sconcerto nei presenti: ma aspettate di sentire il resto. Cosa? La sto facendo lunga? Mi sto dimenticando di essere un Roma-no tutta azione e poche chiacchiere e mi comporto invece come un

Gre-culo linguacciuto e logorroico? Fiat voluntas vestra, salterò un po’ di passaggi che avevo in mente, come si dice ai convegni per fare bella fi-gura. Arriviamo direttamente all’ultima notte di Troia. Gli Achei sono usciti dal cavallo di legno, hanno invaso le strade, ovunque «per l’am-pia oscurità» si vedono «scintille / balenar d’elmi e di cozzanti brandi, / fumar le pire igneo vapor, corrusche / d’armi ferree larve guerriere cercar la pugna». Enea, tanto per cominciare, interviene in ritardo, quando i nemici sono ormai ovunque e la partita è persa. Quel poverac-cio di Servio, il commentatore tardo-antico di Virgilio, cercherà di giu-stificarlo come può e spiegherà che la casa di Anchise era un po’ fuori mano rispetto al centro cittadino, e che quindi lì il frastuono della bat-taglia era arrivato solo dopo molto tempo, oltretutto c’era anche una cortina di alberi ad attutire i rumori, si sa com’è nei quartieri residen-ziali. Ora, i commentatori sono uomini d’ordine, cercano sempre di proteggere gli autori che commentano, però questa storia di Enea che vive in periferia, in un ameno quartierino in zona residenziale, e per questo non si accorge che l’intera città crolla tra le fiamme, è davvero buffa: la rovina di Troia legata al prezzo troppo elevato degli affitti in centro! Comunque passi, alla fine Enea si sveglia e vorrebbe combatte-re, vivaddio. Dico ‘vorrebbe’ perché prima gli compare in sogno Ettore che gli dice di prendere con sé gli dèi della città e di fuggire, giacché se una destra avesse potuto difendere Troia, sarebbe stata la sua (il che, lo dico tra parentesi, non è molto educato verso Enea, sentirsi definire un guerriero di serie B rispetto ad un altro che per di più è anche morto nuoce gravemente all’autostima); poi, come se non bastasse, ecco inter-venire anche Venere, che rincara la dose: combattere è inutile, fa al fi-glio, non vedi che gli dèi stessi stanno cooperando alla distruzione del-la città? E nel dirgli queste parole gli strappa dagli occhi il velo che impedisce ai mortali di vedere gli dèi, un po’ come era successo a suo tempo a Diomede, ed Enea può apprezzare lo spettacolo orrendo di Mi-nerva, Giunone, Nettuno che incitano i Greci, buttano giù le mura, in-somma partecipano volenterosamente alla distruzione della città. Vorrà lui, il pius, il devoto, il figlio della dea, combattere contro quel manipo-lo di guastatori divini? Ovvio che no. Ed eccomanipo-lo almanipo-lora tornare a casa (sempre quella a Troia Alta, nel quartiere residenziale), recuperare pa-dre, moglie e figlio e prendere la via dell’esilio – ma altri direbbero del-la fuga. Grande senso dell’immagine, non c’è dubbio, fiuto infallibile per la posa plastica, quella scena di Enea con Anchise sulle spalle ed Ascanio per mano è un’icona strepitosa e già me la immagino riprodot-ta all’infinito in dipinti, pitture vascolari, sculture e copertine di libri:

ma resta il fatto che Enea si allontana, mentre gli altri combattono e muoiono con le armi in pugno.

Poi non ci si può meravigliare se a farsi beffe di un uomo così basta un principe rutulo qualsiasi, come quel Turno che combatterà contro Enea quando il Troiano, giunto finalmente nel Lazio, desidererà la don-na e la roba d’altri: lo chiama «disertore dell’Asia», e desertor – perdo-nerete se io, Romolo, perdo un attimo per spiegarvi la mia lingua –

de-sertor, dicevo, è certo colui che si allontana da un luogo, ma è anche il

disertore, appunto, quello che si mette in salvo abbandonando al loro de-stino i propri compagni di sventura. Turno, non c’è che dire, sapeva come fare male. Per di più continua dicendo che lì nel Lazio non ci sa-rebbe stata nessuna Venere a proteggere suo figlio e a metterlo in salvo sul campo di battaglia con la sua «nebbia da femmina». Il Lazio è un po-sto di gente dura e decisa, e poi dalle parti di Roma la nebbia chi l’ha vi-sta mai, non è mica come lassù, dove abitano i Celti Insubri. Comunque Turno si esprime proprio così, nube feminea, volendo dire che quella ca-ligine che a Troia aveva salvato la vita di Enea veniva da una dea, ma al tempo stesso anche che evitare di combattere nascondendosi nel fumo è un trucco da donnette. Quanto è bello il latino, in cui una parola non si-gnifica mai solo una cosa, ma almeno due o tre insieme. Certo, a voler essere pignoli come un commentatore tardo-antico di Virgilio, Turno sta sbagliando: non fu affatto una nube, mascolina o femminea poco impor-ta, ad avvolgere Enea, semmai quella volta Afrodite, per proteggere il fi-glio dal colpo di grazia di Diomede, aveva disteso il suo vestito, lo ab-biamo già detto. Forse Turno ha avuto un lapsus memoriae, certo molto interessato, o forse non aveva letto attentamente l’Iliade di Omero: da un focoso principe rutulo attivo trecento anni prima della fondazione di Roma non si può pretendere che sia un fine letterato, e la vigilia di un duello non è il momento più confacente per le citazioni colte. E poi, se proprio vogliamo dirla tutta, in quella occasione fu in verità proprio Tur-no a sfruttare la protezione degli dèi, quando sua sorella, la ninfa Giutur-na, la quale invece Omero doveva averlo letto benissimo, plasmò un’im-magine del guerriero rutulo in tutto simile a Turno allo scopo di sviare e tenere lontano Enea, proprio come nell’Iliade Apollo modellava un

ei-dolon dello stesso Enea intorno al quale per lungo tempo «i Troiani e gli

illustri Achei si spezzavano gli uni contro gli altri sul petto lo scudo». Ringrazio dunque Turno per la sua testimonianza, sia pure viziata da qualche lieve imprecisione, e chiamo ora a deporre l’ultimo teste, quell’avvocato di Cartagine, come si chiama?, ah ecco, Tertulliano, vedi un po’ che nome. Tertulliano, lo dico subito, a me riesce piuttosto

anti-patico: un giorno sarà il primo autentico polemista cristiano in lingua la-tina, uno di quelli che si batteranno per cacciare me, Romolo Quirino, e tutti gli altri dèi dal cielo allo scopo di installarci il loro unico dio, e det-to fra noi temo proprio che ci riusciranno. Ma tant’è, le cose che quesdet-to pugnace pamphlettista punico racconta su Enea sono talmente godibili che passo sopra le sue inquietanti convinzioni religiose. Lui, Tertulliano, quando attacca non va per il sottile, non le manda a dire, aggredisce a te-sta bassa: però conosce bene i punti deboli dell’avversario – è un avvo-cato, del resto, l’ho già detto –, quindi sa bene dove e come colpire. Una volta, nella sua inarrestabile polemica contro le credenze dei Romani, chiama in causa anche Enea: i Romani, dice, «hanno creduto che il loro padre fondatore fosse proprio Enea, un soldato tutt’altro che baciato dal-la gloria, e perdipiù indebolito da una pietra» (lui chiama ‘pietra’ il ma-cigno che Diomede gli aveva lanciato addosso sulla piana di Troia: beh, è un avvocato, fa il suo mestiere). «E quanto più quest’ultima arma è volgare, e degna di essere usata per scacciare un cane, tanto più è me-schina la ferita che essa ha prodotto. Ma leggiamo che Enea è stato an-che traditore della sua patria: e se anan-che negano an-che questo sia vero, cer-to Enea abbandonò i compagni mentre la sua patria bruciava».

Chiedo scusa, signori della corte, mi accorgo adesso che di questa storia del tradimento non vi ho mai parlato sinora, e sì che sarebbe una bella freccia al mio arco; purtroppo però sono costretto a lasciarla da parte, qui ai Classici Contro non hanno rispetto neppure per i fondatori di Roma divinizzati, hanno concesso mezz’ora a me, Romolo Quirino, come ad un Camerotto qualsiasi, ma insomma sappiate che del vostro caro Enea si raccontava anche questo: altro che protetto dagli dèi, altro che predestinato dal fato, l’eroe troiano non era che un volgare rinnega-to, uno che aveva venduto ai Greci la sua città in cambio della salvezza e di un congruo numero di sesterzi (allora a dire il vero in Grecia c’era-no le dracme, ma sotto l’impero dei miei discendenti il sesterzio diven-terà la moneta unica e i Greci, volenti o nolenti, dovranno piegarsi).

Ma chiedo scusa a tutti, ho interrotto Tertulliano. Eccovi di nuovo le sue parole: «Pio, Enea, per quell’unico figlio e quel vecchio decrepito portati in salvo, dopo aver piantato in asso Priamo e Astianatte? Sem-mai i Romani dovrebbero detestarlo, loro che giurano e spergiurano che rinuncerebbero ai figli, alle mogli e ad ogni cosa cara per l’incolumità degli imperatori e delle loro famiglie. Cos’altro ha fatto di glorioso Enea se non scomparire durante la battaglia di Laurento», una delle tan-te combattutan-te per insediare i suoi uomini in Lazio? «Sempre che, se-condo il suo costume, non sia scappato dal combattimento come un

di-sertore». Che bravo questo Tertulliano, lui i miti pagani li conosceva, perché nessuno meglio di una malalingua sa sempre tutto di quelli di cui dice male, e quindi ricorda bene che Enea sarebbe scomparso du-rante una tempesta scoppiata all’improvviso nel bel mezzo della batta-glia per essere assunto in cielo fra gli dèi; e insinua, il buon Tertulliano, che il Troiano non fosse affatto scomparso, ma semplicemente fuggito, corso via come una lepre, del resto non aveva sempre fatto così? E que-sta tanto esaltata pietas, incalza il nostro Cartaginese, cos’era que-stata mai? Caricarsi sulle spalle un vecchio decrepito e tenere per mano un bambino, bella forza. Questi eroi pagani, nelle mani di Tertulliano, di-ventano davvero dei bambocci ridicoli, delle macchiette da avanspetta-colo. Verrebbe quasi da dargli ragione, se non fosse che sono anch’io un dio pagano e non è prudente, nel corso di un processo per di più, fare concessioni agli avversari.

Bene, io allora avrei terminato e… Come dite? Ma ce l’avete con me? Come sarebbe a dire che questo non è un vero processo? Ah sì, certo, Roma sarà un giorno la patria del diritto, non si può formulare una sen-tenza inaudita altera parte. Però, in nome degli dèi, non mi fate ricorda-re che il latino diventerà una lingua per adagi e brocardi da avvocati e giuristi, altrimenti mi pentirò di averlo inventato. No, non sto cambian-do argomento, d’accorcambian-do, accidenti quanto siete prevenuti! Sentiamolo, sentiamolo pure questo mio rivale abusivo, questo infiltrato, questo clandestino dei miti di fondazione. Ora mi metto da parte e prometto di ascoltarlo in silenzio: un dio ha una sola parola.

2. Enea

Mi chiamo Enea: Aeneas, Αἰνείας. È stata mia madre, la dea Afrodi-te, a scegliere per me un nome così strano e inconsueto: voleva che le ri-cordasse per sempre il dolore e la vergogna terribile, ainós, che lei ha provato al momento di entrare nel letto di un mortale. Così prima anco-ra di venire al mondo sono stato «uomo di dolori, che conosce il patire». Ho avuto un’infanzia incantata: sino ai quattordici anni sono cresciuto sul monte Ida, tra le Ninfe Oreadi dal seno profondo; la mia vita era fat-ta di boschi, prati, radure, e le mie compagne di giochi erano le dee del-la foresta e delle fonti, dai lunghi capelli e le dita di rosa. Poi mio padre Anchise è tornato per condurmi a Troia: il nostro era un ramo cadetto

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