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Un eroe bifronte negli Acarnesi di Aristofane

Nel documento MIMESIS / CLASSICI CONTRO (pagine 105-117)

Persino per una visionaria come Lisistrata, protagonista dell’omoni-mo dramma aristofaneo del 411 a.C., sarebbe stato impensabile figurar-si un’incarnazione tanto remota nel tempo, ma, soprattutto, nell’imma-ginario collettivo della Grecia dell’ultimo scorcio del V secolo a.C., quanto l’ultima delle sue discendenti, la Lysistrata che, nell’ultimo lavo-ro del regista aflavo-ro-americano Spike Lee, Chi-Raq, convince amiche e vi-cine a portare avanti uno sciopero del sesso, per costringere le gang nere di Chicago a un ‘cessate il fuoco’ 1.

Spike Lee è probabilmente il regista afroamericano mainstream poli-ticamente più impegnato del momento, al centro di numerose polemiche contro colleghi accusati di volta in volta di abusare di stereotipi razzisti, di utilizzare troppo spesso, dal côté wasp, la parola nigger (Quentin Ta-rantino in particolare), di leggere i problemi razziali della società statu-nitense con le lenti rosa della commedia (Whoopie Goldberg). Chi-Raq è il suo film più impegnato da molti anni e già il titolo, una sorta di cra-si fra Chicago e Iraq escogitata dal rapper Chief Keef, chiarisce molto bene di cosa si tratti: una ‘satira’ in musica che, con qualche pretesa di ortodossia, cala la partitura drammaturgica di Aristofane nella stasis dei

1 Chi-Raq è stato distribuito nelle sale americane nel dicembre del 2015 ed è il

primo film a portare il marchio degli Amazon Studios; protagonisti Teyonah Parris, Samuel L. Jackson, Jennifer Hudson, Wesley Snipes, John Cusack. Per il Guardian è il «midlife masterpiece» di Spike Lee (http://www.theguardian. com/film/2015/nov/25/chi-raq-review-spike-lees-urgent-angry-and-very-se-xy-midlife-masterpiece); Pietro Bianchi per Cineforum ne fornisce un’ottima recensione (19 gennaio 2016): http://www.cineforum.it/FocusesTexts/view/ Chiraq_di_Spike_Lee. La voce narrante (il copione è interamente recitato in versi) è un bravissimo Samuel L. Jackson che gioca a tutti gli effetti il ruolo del coro. L’operazione di Lee è destinata a scontentare un po’ tutti, come mostra anche la reazione non favorevole dei rapper di Chicago, fra i quali forse il più influente è il giovanissimo Lil Bibby, che sottolinea il carattere del tutto stra-niante della ricostruzione della dura realtà dei ghetti neri di Chicago a opera di Lee (Fader, April/May 2016).

conflitti etnici e razziali della Chicago contemporanea. La musica, come sempre in Lee, regna sovrana e funge da contrappunto per l’azione, tan-to che, anche in passatan-to, il suo impiego è statan-to paragonatan-to alla funzione primaria del coro greco2.

«It is not a comedy, it is a satire», pare abbia dichiarato il regista, ag-giungendo «Aristophanes satirized Greece over 2,000 years ago. Satire has always been a way to deal with serious subject matter, and we wan-ted to honor the original source»3.

Probabilmente Aristofane avrebbe condiviso ben poco di questo

sta-tement di Spike Lee, in particolare lì dove esprime la convinzione,

piut-tosto ingenua, che il commediografo facesse satira e non commedia, e che a quest’ultima si possa solo assegnare il ruolo di ancella buffonesca della prima. Aristofane scriveva commedie, naturalmente, e lo faceva immaginando anche di parlare di un serious subject matter. Qualsiasi cosa si possa pensare di Aristofane, le sue commedie sono del resto, come ci ricorda Lowell Edmunds, «intensely political»4.

In nessun punto della sua opera, questo legame fra serietà di contenu-ti e importanza del messaggio emerge con più chiarezza di quanto acca-da negli Acarnesi, vittoriosi al concorso lenaico del 425 a.C.: nell’occa-sione cruciale in cui il commediografo per la prima volta presenta una commedia a suo nome. La guerra del Peloponneso è iniziata da sei anni e, com’è noto, questa pièce parla di pace. Aristofane deve proprio ai suoi

Acarnesi, del resto, l’etichetta di ‘pacifista’. Il pacifismo del poeta è,

tut-tavia, un’onorificenza che andrà considerata con qualche attenzione, così come la coloritura etica di cui la commedia è in apparenza imbevuta.

Già il nome del protagonista Diceopoli, in verità, che, tuttavia, viene svelato per la prima volta solo al v. 406, quando l’eroe bussa alla porta di Euripide per chiedergli in prestito qualche straccio recuperato da una delle sue tragedie5, sembra sottolineare la vis morale da cui l’azione co-mica prende avvio6. Ed è sempre Diceopoli a tracciare una solida

equi-2 Oltre al ruolo di Samuel L. Jackson in Chi-Raq si può citare il brano Fight the

Power dei Public Enemy in Do the right thing (Fa’ la cosa giusta, 1989).

3 S. Tillett, Women vs. Men. With a Vengeance, «The New York Times» ed. New York, (December 6, 2015), p. 14.

4 L. Edmunds, Cleon, Knights, and Aristophanes’ Politics, Lanham-London 1987, p. 1.

5 Sceglierà il costume di Telefo di Misia: vv. 385-479.

6 «Il città giusta», «dalle giuste città»; l’epiteto si trova solo in Pindaro (Pyth. 8.22) riferito all’isola di Egina, patria di Aristomene, vincitore nei giochi. Si veda l’appendice di D. Lanza al suo commento agli Acarnesi: D. Lanza (ed.),

valenza fra la giustizia e la commedia, quando, a partire dal v. 496, si ri-volge agli spettatori per presentare rapidamente le sue istanze e stimolare il loro appoggio: (λέγειν) μέλλω περὶ τῆς πόλεως, τρυγῳδίαν ποιῶν / τὸ γὰρ δίκαιον οἶδε καὶ τρυγῳδίαν, «Mi accingo a parlare per la città, pur facendo una commedia; il giusto se ne intende infatti an-che di commedia» (vv. 499-500)7. Τρυγῳδία è una possibile eco da τρυγάω ‘raccogliere’ o τρύξ, ‘vino nuovo’, ma anche un chiaro metic-ciato fra commedia e tragedia, fra alto e basso, fra serietà e riso. Con ogni probabilità questi versi valgono anche a richiamare per il pubblico il nome di Diceopoli, adombrato in quel nesso fra περὶ τῆς πόλεως e τὸ δίκαιον che i due versi individuano. Così, dopo un discorso in grande stile, che deve molto alle rheseis tragiche8, lo spettatore è pronto ad ac-cogliere la più didattica di tutte le parabasi aristofanee; una petizione so-lenne, una perorazione d’ampio respiro intorno alla funzione del comi-co e dell’opera di Aristofane in particomi-colare.

Quando i coreuti si tolgono la maschera e danno inizio agli anapesti, il poeta può fare allora, in loro compagnia, un passo in avanti nell’orche-stra. C’è chi sostiene che lo stesso Aristofane indossasse la maschera co-mica di Diceopoli, ma, anche se quest’ipotesi appare improbabile9, fuor di dubbio è, invece, la parziale identificazione fra istanze individuali del protagonista e finalità drammaturgica. La commedia mostra, infatti, una fluttuazione incessante fra l’identità del personaggio e l’io poetico, che non è limitata al recinto convenzionale della parabasi, ma investe tutto il dramma, continuamente in bilico fra finzione e biografismo (o finto bio-grafismo).

È Diceopoli, del resto, ben prima che il coro intoni la parabasi, a dar corpo ai tormenti di Aristofane, parlando in prima persona delle sevizie inflittegli da Cleone l’anno precedente quando, in occasione della mes-sa in scena dei Babilonesi, il demagogo lo aveva trascinato di fronte alla

Boulé, con l’accusa di aver dileggiato alle Grandi Dionisie la politica

ateniese nei confronti degli alleati (vv. 377-382): «quasi ci lasciavo le

Aristofane. Acarnesi, Roma 2012, pp. 238-239; la bibliografia è raccolta in N.

Kanavou, Aristophanes’ Comedy of Names, Berlin-New York 2011, pp. 24-29. 7 Si rammenta che il lungo discorso di Diceopoli (vv. 480-556) viene

pronuncia-to con gli abiti del Telefo euripideo.

8 Cfr. S.D. Olson (ed.), Aristophanes, Acharnians, Oxford 2002, p. 201, ad v. 500.

9 Cfr. X. Riu, Gli insulti alla polis nella parabasi degli “Acarnesi”, «QUCC» n.s. 50, 1995, pp. 59-66, n. 2 (con ampia trattazione dello status quaestionis); Id., Dionysism and Comedy, Lanham 1999.

penne», esclama ‘Diceopoli-Aristofane’, «e finivo come un ammasso di letame»10. Ed è ancora Diceopoli, nei versi d’attacco della sua lunga

rhe-sis che abbiamo sopra citato, a rivolgersi idealmente a Cleone e a un suo

possibile nuovo attacco: «E questa volta Cleone non potrà dirmi che par-lo male della città di fronte agli stranieri. Siamo noi; il concorso è lenai-co» (vv. 502-504). Il demagogo è, lo si sa, uno dei bersagli privilegiati di Aristofane: non ci sarebbe neppur bisogno di evocare un contenzioso personale, per dar conto dell’astio che il poeta nutre nei suoi confronti11. Non è Cleone, comunque, la chiave giusta per leggere con chiarezza la potenza del messaggio programmatico contenuto nella parabasi, precedu-to, amplificato e già in parte interpretato dall’ibridazione fra poeta ed eroe e fra quest’ultimo e personaggio tragico, nella prima parte del dramma.

Così che, fin da subito nella produzione di Aristofane, da questa pri-ma commedia che reca la sua firpri-ma, si verifica quel cortocircuito inter-pretativo che tanto ha impegnato la critica, nel tentativo, sostanzialmen-te vano, di definire con chiarezza i confini fra ‘reale’ messaggio politico-sociale, contenuto drammaturgico e provocazione. In un dram-ma in cui il protagonista decide di incarnare i panni di un personaggio tragico, il Telefo eroe dell’omonima tragedia euripidea, e, parallelamen-te, talvolta pare dar voce direttamente al poeta, il messaggio pacifista è la comunicazione magmatica di una personalità multipla, in perfetta co-erenza con la fisionomia ultima di ogni eroe aristofaneo, alle prese con un’identità pesantemente sfaccettata e, talvolta, conflittuale. Già molti

10 In greco μολυνοπραγμονούμενος (v. 382), uno dei geniali conî di Aristofa-ne, un impasto realizzato con il verbo μολύνω, «insozzo»; cfr. Olson,

Aristo-phanes, Acharnians, cit., ad loc., p. 174.

11 Si veda Lanza, Aristofane. Acarnesi, cit., pp. 14-15 e G. Mastromarco,

Intro-duzione a Aristofane, Roma-Bari 1994, pp. 102ss. Cleone è evocato

diffusa-mente negli Acarnesi (vv. 377-382; scolio ad v. 378; vv. 501-503; vv. 515-516; vv. 659-664), dove, fra l’altro, viene fatta esplicita allusione a un futuro nuovo attacco contro il demagogo (vv. 300-302). Il riferimento, probabilmente, è ai

Cavalieri. Cleone compare anche nelle Nuvole, nelle Vespe (ben 10 volte) e

nella Pace; come si desume dalle Vespe (vv. 1284-1291), Cleone pare avesse intentato anche una seconda causa contro di lui. La figura del demagogo era, peraltro, ampiamente considerata anche nella Guerra del Peloponneso tucidi-dea; si veda, a tal proposito, il contributo recente di Timothy W. Burns, Anger

in Thucydides and Aristophanes. The Case of Cleon, in J.J. Mhire, B.-P. Frost

(edd.), The Political Theory of Aristophanes. Explorations in Poetic Wisdom, New York 2014, pp. 229-258; J.A. Duvoisin, “Everybody Wants to Make a

Speech”: Cleon and Aristophanes on Politics and Fantasy, «Arethusa» 29.3,

1996, pp. 339-361; S. Halliwell, Ancient Interpretations of ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν in Aristophanes, «CQ» 34, 1984, pp. 83–88.

anni fa, del resto, il bellissimo libro di Cedric Whitman, Aristophanes

and the Comic Hero, pubblicato per Harvard University Press nel 1964,

si apriva con uno statement estrapolato da una celebre lirica di Walt Whitman, Song for myself: «Do I contradict myself? / Very well then I contradict myself, / (I am large, I contain multitudes)».

Così, di fatto, è l’eroe comico di Aristofane, così è, almeno in parte, il suo creatore: quando la parabasi degli Acarnesi ha inizio (v. 626), siamo quindi costretti a confrontarci con un messaggio programmatico in ap-parenza molto chiaro e lineare. Il poeta parla per la prima volta per sé, subito costretto a difendersi dall’accusa di aver messo in commedia la città e aver, di conseguenza, insultato il popolo: «Accusato dai suoi ne-mici, di fronte agli Ateniesi giudizio-veloce, di mettere in commedia la nostra città (κωμῳδεῖ τὴν πόλιν)12 e di vilipendere il demo, deve di-scolparsi subito di fronte agli Ateniesi giudizio-ponderato» (vv. 630-632). In verità, il suo fine è quello di ridestare le coscienze addormenta-te dalle lusinghe, dagli specchietti per le allodole. Il poeta ama la città (vv. 515-516) e ha tutte le intenzioni di raccontare il giusto: «Voi però non lasciatelo andare perché metterà in commedia ciò che è giusto» (ὡς κωμῳδήσει τὰ δίκαια, v. 655, ma anche v. 645). La simmetria fra il v. 631 e il v. 655 non può essere casuale, così come il riferimento esplicito al valore paideutico del dramma comico contenuto nel v. 656: «dice che vi insegnerà molte cose buone così che possiate essere felici» (ὤστ’εὐδαίμονας εἶναι). Quell’aggettivo, εὐδαίμων13, lasciato cadere a pochi versi dallo pnigos in dimetri anapestici (vv. 659-664), è forse la chiave per comprendere la tessitura del dramma: una felicità che non ne-cessariamente passa per la fine del conflitto, per la pace collettiva. Può anche essere una tregua intima, casalinga, ridotta al perimetro di un

oikos, ben diversa quindi da un progetto condiviso, anche se giocoforza

i benefici effetti della seconda non possono che influenzare in qualche modo la prima14.

12 Come sottolinea Edmunds, Cleon, Knights, and Aristophanes’ Politics, cit., p. 60, il messaggio comico veniva preso molto seriamente; lo testimoniano due decreti, uno sotto l’arcontato di Morichide (440-439 a.C.) e uno del 415 a.C., che proibiscono nel primo caso semplicemente il κωμῳδεῖν, nel secondo caso il κωμῳδεῖσθαι ὀνομαστί τινα; si veda lo scolio ad Av. 1297; Edmunds,

Cle-on, Knights, and Aristophanes’ Politics, cit., p. 60 n. 6; Halliwell, Ancient In-terpretations of ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν, cit., pp. 83-88.

13 Non semplicemente ‘felice’, ma ‘ricco’, ‘potente’ (Olson, Aristophanes, Acharnians, cit., ad loc., p. 242).

14 H. Foley, Tragedy and Politics in Aristophanes Acharnians, «JHS» 108, 1988, pp. 33-47, in particolare p. 45.

Quel che di fatto accade, negli Acarnesi e, in verità, in tutte le com-medie cosiddette pacifiste (la Pace del 421 e la Lisistrata del 411) è che il binomio pace-guerra si organizzi in base a una polarità che colloca sul

côté pacifista tutto quanto ha a che fare con la felicità e con il suo

rag-giungimento: il cibo, il vino, il sesso, mentre sul fronte della guerra an-drà a disporsi la privazione degli stessi elementi.

La tregua di Diceopoli in fondo è tutta qui: la libertà di soddisfare ne-cessità e piaceri elementari. Non è certo un caso se la sua pace è fin da subito incarnata dal liquido prezioso contenuto in un’ampollina; sono, di fatto, le sue qualità ‘organolettiche’ a renderla appetibile: la tregua di tre anni sa di resina e allestimento di navi (vv. 189-190); quella di dieci è un liquido irrancidito che profuma di ambasciate (vv. 192-193); solo quel-la di trent’anni, per terra e per mare, ha il sapore del nettare e dell’am-brosia, ma, soprattutto, trattenuta per un attimo in gola, come si fa con il migliore dei vini, rilascia una sorta di messaggio salvifico: «vai dove vuoi» (vv. 194-198). Si può persino provare a barattarla con una bistec-ca, come tenta di fare il paraninfo inviato dai convitati di un matrimonio per cercare di strapparne un goccino (vv. 1051ss.). Così che la pace, in fin dei conti, si rivela un presidio per la libertà e la libertà un sinonimo di felicità e di piacere.

Al contrario, nella città in guerra, non c’è ormai nulla che possa rien-trare nella sfera della gratificazione personale, come chiarisce Diceopo-li nei primissimi versi del prologo. Eppure la trama di questo dramma si annoda intorno a impunture che hanno nel linguaggio del piacere, del desiderio e della sua disattesa il loro punto cardine: «bramo la pace, odio la città, vagheggio il mio demo» (εἰρήνης ἐρῶν, στυγῶν μὲν ἄστυ, τὸν δ’ ἐμὸν δῆμον ποθῶν, vv. 32-33). E la tregua è il terreno di coltu-ra in cui può prendere corpo il desiderio, in cui si può tornare a fare all’amore, a mangiare, a bere, persino a onorare gli dèi. Aspirazioni semplici, piccole, ma anche potentemente universali, come mostra il fat-to che al mercafat-to in zona franca messo in piedi da Diceopoli finiscono per ritrovarsi e ricomporsi uomini e schieramenti opposti (vv. 719-1057). E tutte queste aspirazioni, messe insieme, potrebbero tradursi semplicemente in una sola, vera speranza, se non utopia15, quella del ri-torno a casa, al demos, all’oikos natio. Gli Acarnesi, è bene ricordarlo, si rivolgono a un pubblico di Ateniesi, mai come in questo momento

vitti-15 Alcune osservazioni illuminanti sull’uso e abuso del termine ‘utopia’ in rela-zione alla commedia di Aristofane in Lanza, Aristofane. Acarnesi, cit., pp. 32-37.

ma del demone della nostalgia: e il coro, composto da cittadini del demo di Acarne, il primo a essere evacuato all’inizio del conflitto, rappresen-ta idealmente un distillato di questo pothos doloroso, è il simbolo della mancanza di casa.

Molti, fra quanti sedevano nella cavea del teatro ateniese, in tempi passati, prima che la guerra avesse inizio, avrebbero sospeso la vita nei campi per un giorno, ricevendo dalla città i due oboli per la giornata di lavoro persa; si sarebbero levati prestissimo per andare a ingrossare le fila degli spettatori. Ora, dopo sei anni dall’inizio della guerra, erano già tutti lì, all’interno delle Lunghe Mura, stipati in tendopoli sovraffollate, dalle condizioni igieniche inaccettabili. Quando la commedia va in sce-na, nell’inverno del 425 a.C., il ricordo dell’inverno passato, quello dell’ultima, terribile epidemia di peste (427-426 a.C.), doveva ancora essere un marchio indelebile. Così come, con ogni probabilità, l’evoca-zione dell’eidolon di Pericle, dileggiato per la sua strategia guerrafonda-ia all’insorgere del conflitto (vv. 523-532)16, attraverso una geniale pa-rodia del prologo delle Storie di Erodoto17, non poteva non richiamare alla mente l’epidemia del 429 a.C., quando anche lo stratega aveva per-so la vita. La piaga fisica sembra, nel 425, ormai alle spalle: si è, tutta-via, diffuso un virus ben più potente. Un assopirsi della coscienza, un’in-clinazione alla compiacenza e all’autocompiacimento, un’incapacità a riconoscere gli adulatori dai veri benefattori. Per questa malattia, che non intacca mai l’essenza della polis, nei confronti della quale Aristofa-ne esprime un rispetto sacrale (vv. 515-516), c’è un solo rimedio: il ruo-lo omeopatico del poeta, l’unico in grado di liberare le coscienze dei suoi concittadini, di debellare il virus, di riportare a casa gli esuli.

La partitura interna di questo dramma si costruisce con un’architettu-ra simile alle scatole cinesi, elemento questo già individuato da Lowell Edmunds per le Tesmoforiazuse18. Il perimetro più ampio è garantito dal profilo di Atene, al cui interno vengono celebrate le Lenee; all’interno delle Lenee c’è lo spazio assembleare della Pnice, con cui si apre la commedia. Le Dionisie rurali, trasformate, per l’occasione, da festa di paese in celebrazione individuale all’interno dell’oikos di Diceopoli (vv. 195-278), fanno da sfondo al primo incedere trionfale dell’eroe. L’oikos, a sua volta, racchiude lo spazio del mercato, asfitticamente delimitato dai confini della casa del protagonista. Si scoprirà poi che, sullo sfondo,

16 Lo stesso attacco è riproposto nella Pace (vv. 606-611).

17 Hdt. 1.1-5; vd. Olson, Aristophanes, Acharnians, cit., pp. LIII-LIV. 18 Edmunds, Cleon, Knights, and Aristophanes’ Politics, cit., pp. 62-66.

si stanno celebrando le Antesterie, fra i momenti più complessi e corali del calendario attico19: una festa che simbolicamente sanciva la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Collocata nel mese di Antesterio-ne (febbraio-marzo), arrivava quindi subito dopo le LeAntesterio-nee e si compoAntesterio-ne- compone-va di tre giorni di celebrazioni, di cui solo uno, quello dei Boccali

(Cho-es), viene in verità evocato negli Acarnesi, che costituiscono, in ogni

caso, la testimonianza più antica sulla festività. Da Atene e dalle Lenee si passa quindi alla Pnice, dalla Pnice alla dimensione intima dell’oikos, al mercato, alle Dionisie rurali ricondotte nel recinto di una festa fami-liare e dal simposio casalingo si passa di nuovo alla polis, rappresentata tutta nella grande celebrazione delle Antesterie.

Lo scopo ultimo pare essere quello di produrre una scomposizione degli spazi e delle occasioni della vita pubblica che sia funzionale, a sua volta, alla composizione, o alla ricomposizione, di una diversa topogra-fia del piacere. I luoghi vengono, per così dire, risemantizzati e rifunzio-nalizzati sulla base non della loro dislocazione, ma della loro funzione sentimentale.

Il demos, il paese, è il miraggio ultimo all’orizzonte. Anche nella

Pace, nel 421 a.C.20, quando pare che la tregua possa essere cercata solo

lontano dalla terra degli uomini, e il protagonista, Trigeo, decide di an-darne in cerca a cavallo di uno scarabeo stercorario gigante: anche in quel caso il coro celebra il ritorno alla pace festeggiando la libertà di po-ter tornare, nuovamente, a zappare il proprio campo. Nulla di rivoluzio-nario, di folle o di grandioso: solo il ritorno alla normalità come la più bella delle utopie.

Perché, in Aristofane, guerra non è antonimo di pace, quanto piutto-sto di normalità, di vita quotidiana, di casa. «È pazza la guerra» (v. 981), esclama il coro degli Acarnesi, ormai convinto ad abbracciare la causa di Diceopoli e a sostenere la pace: Polemos è un convitato avvinazzato,

19 Sulle Antesterie sono ancor valide le riflessioni di G. van Hoorn, Choes and

Anthesteria, Leiden 1951; Id., Dionysos et Ariadne, «Mnemosyne» 12, 1959,

pp. 193-197, da completare con R. Hamilton, Choes and Anthesteria: Athenian

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