Se gli Anziani, il Vicario, o qualsiasi altro ufficiale della Comunità avesse contravvenuto alle norme di Statuti e Brevi, ciascun cittadino piombinese avrebbe potuto denunciarli al Signore o al Governatore. Solo i piombinesi avrebbero potuto ricoprire le massime cariche della comunità, o quei forestieri che avessero, per almeno dieci anni, «sopportato le gravezze come piombinesi»134. Se nell'elezione degli uffici gli Anziani avessero violato tale norma, sarebbero incorsi in una pena di cinquanta lire a testa da applicarsi alla Camera del Signore. Oltre alle cariche più importanti, i Brevi contenevano la puntuale disciplina di tutte le figure che contribuivano al funzionamento della comunità: dai messi al depositario del comune, dagli approvatori dei libri ai grasceri135 (cioè i responsabili di tutti i beni che venivano prodotti fuori e dentro la comunità e che esercitavano le più svariate funzioni, dall'esazione delle tasse all'esecuzione delle sanzioni verso gli inadempienti).
133A.S.C.P., Brevi, vol. 1, cc. 129v, cap. LXXXII, c. 130r, cap. LXXXIII; Brevi, vol.
2, pp. 215 ss.
134
A.S.C.P., Brevi, vol. 1, c. 130v
135
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Cap. I V – DI RIT TO CI VILE, PENALE E NO RME VARIE
4.1 La dote: valore e restituzione136
Essendo i Brevi raccolte di norme "istituzionali", per loro stessa natura rivolti a regolamentare la vita pubblica della città di Piombino, raramente entrano nel merito del diritto civile e di quello penale. Se ciò avviene, la ratio è quella di specificare e regolare i profili attinenti all'ordine pubblico dei singoli istituti giuridici.
Il diritto matrimoniale, ad esempio, è già analiticamente disciplinato dagli Statuti: le norme relative alla costituzione e all'esazione della dote, alle donazioni propter nuptias e al lucrum dotis sono contenute nel Liber Primus137. Dal tenore delle norme contenute nei Brevi, invece, emerge una finalità differente: le prime righe, in entrambe le versioni pervenuteci, sottolineano lo scopo di «moderare,
et a segno honesto ridurre la superfluità delle doti nelle quali si veggano incorrere l'huomini, et le donne, di Piombino»138. Il limite veniva fissato in “lire duomilia di moneta solita in Piombino » (pari a cinquanta fiorini, come specificato nella seconda versione del Breve)139, come valore complessivo dell'universitas rerum,
ricomprendente quindi sia i liquidi, che i beni mobili e gli immobili140.
136A.S.C.P., Brevi, vol. 1, cc. 69r ss. cap. XXV; Brevi, vol. 2, pp. 69 ss.; v. anche pp.
26 ss.
137
Cfr. Statutorum Plumbinensium liber primus, capp. XXIII (De exactione dotis), XXIV (De antefato, et donatione propter nuptias, et eius exactione), XXV (Quo
casu pater de dote filio praestita in solidum teneatur), XXVI (Quid maritus ex morte uxoris lucretur, et e contra), XXVII (De quibus bonis debeat mulier dotari); v. anche R. DEL GRATTA, Giovan Battista De Luca e gli statuti di
Piombino, cit. pp. 27 ss. Per un’analisi della disciplina statutaria sulla dote e della
condizione giuridica della donna nel diritto piombinese cfr. UMBERTO
CANOVARO, La condizione giuridica femminile negli antichi statuti di Piombino, in «Piombino storia di un principato. Atti dei convegni dedicati alle dinastie dello Stato di Piombino», cit., pp. 72-86
138A.S.C.P., Brevi, vol. 1, cc. 69rv; Brevi, vol. 2, p. 69 139A.S.C.P., Brevi, vol. 1, c. 69v; Brevi, vol. 2, p. 69 140
A.S.C.P., Brevi, vol. 1, c. 69v, «tanto in robbe stabili, mobili, o per se moventi
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Il divieto era molto rigido, infatti investiva non soltanto chi avesse conferito o ricevuto la dote, ma anche coloro che l'avessero promessa e accettata «e secretamente e palesemente sotto qual sia quesito
colore»141. La sanzione, oltre alla nullità della somma eccedente quella fissata dalla legge, era quantificata nel doppio della somma che violava la norma e doveva essere versata per tre quarti nelle casse del Signore e per un quarto a chi la eseguisse. Se la somma eccedente era frutto di un accordo, la sanzione doveva essere ripartita a metà tra i due contraenti: altrimenti sarebbe stata interamente a carico di chi avesse effettuato la promessa o il conferimento. Per rendere effettiva questa previsione, a seguito della morte della moglie (evidentemente senza figli, in quanto gli Statuti prevedevano che solo in assenza di figli il marito avrebbe potuto conseguire un lucrum dotis, quantificato nella metà della dote originaria142) il marito, tenuto alla restituzione di metà del patrimonio dotale, non avrebbe dovuto rendere più di mille lire: così il legislatore tentava di scoraggiare il padre della sposa dall'effettuare cospicue elargizioni.
Questa previsione del Breve piombinese, tuttavia, non era un'eccezione nel panorama del diritto statutario italiano: il Tamassia riporta infatti che a Firenze tale limite era fissato in 1600 fiorini, a Venezia, tra i 1000 e i 5000 ducati, a Roma in 1400 fiorini e a Siena in 700 fiorini143. L'autore riconduce quest'usanza al fatto che «ormai la caccia alle doti era un'industria a cui si davano tutti quelli, che non si sentivano di dedicarsi ad altre più onestamente proficue. Invece di farle, adesso le ricchezze si volevano trovare bell'e fatte, sotto forma di pingui doti. Così (soggiunge il cronista fiorentino) le donne si mercanteggiavano come drappi.»144
141 A.S.C.P., Brevi, vol. 1, c. 69v; Brevi, vol. 2, p. 69
142Cfr. Statutorum Plumbinensium liber primus, cap. XXVI nr. 1; v. anche R.D
EL
GRATTA, Giovan Battista de Luca e gli Statuti di Piombino, cit., p. 29
143Cfr. N
INO TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Remo Sandron – Editore Libraio della R. Casa Milano-Palermo-Napoli, 1911, nota 3 p. 300
144
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Infine, anche il Notaio che avesse acconsentito a stipulare contratti per dote in violazione delle norme del Breve sarebbe stato colpito pesantemente: nel 1569 si previde infatti una pena di cinquanta ducati e della privazione del titolo di Notaio145, sanzione forse eccessiva, come dovettero ritenere anche i successivi legislatori che la ridussero, nel Breve del 1578, a venticinque scudi146. Contestualmente, cadde la previsione della privazione del titolo.
Anche le scritture private redatte per aggirare la norma erano vietate: i testimoni chiamati ad assistervi avrebbero dovuto denunciare i contraenti al Vicario entro ventiquattro ore dalla stipula, altrimenti sarebbero stati sanzionati con una pena di dieci scudi a testa147.
Il Breve del 1578 contiene inoltre una novità: rispetto a quello più antico infatti è presente una rubrica sulla "Restituzione delle Doti"148, argomento già contemplato e disciplinato da norme statutarie149. La necessità di una disposizione complementare a queste viene spiegata dalla stessa previsione del Breve, che esordisce con un riferimento ad una decisione consiliare contenuta nei libri della comunità. Purtroppo il Breve non indica di quale decisione consiliare si tratti. È possibile che sia la stessa che riporta Del Gratta150, riguardante un Consiglio generale del 1522, quando Niccolò di Antonio Federigi chiese l'interpretazione autentica della norma relativa alla restituzione dell'intera massa dei beni dotali, o di una sola parte se si fosse realizzato il lucrum dotis. Il problema derivava dal rifiuto opposto dalla famiglia alla riconsegna di beni deteriorati, pretendendo invece il corrispettivo in denaro. Non è sicuro che si tratti dello stesso consiglio, in quanto questa richiesta faceva riferimento all'ipotesi di decesso della moglie, quando invece il Breve disciplina l'ipotesi in cui
145A.S.C.P., Brevi, vol. 1, c. 70r 146
A.S.C.P., Brevi, vol. 2, p. 70
147 A.S.C.P., Brevi, vol. 1, cc. 70rv 148A.S.C.P., Brevi, vol. 2, p. 26 149
Cfr. Statutorum plumbinensium liber primus, cap. XXIII
150
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sia la moglie a dover ricevere indietro i beni dotali. Tuttavia, l'identità della ratio sottesa alle diverse previsioni suggerisce che, anche se forse non si tratta della stessa decisione consiliare, ve ne siano state altre analoghe. Lo Statuto infatti, laddove disciplinava la restituzione della dote in caso di premorienza del marito, non specificava se fosse necessario riconsegnare quegli stessi beni che l'avevano formata ovvero se fosse sufficiente far ottenere alla donna il loro corrispettivo in denaro, in quanto la dote non si identificava con le sostanze che la componevano in virtù del principio in universalibus precium succedit
loco rei151. Del Gratta riporta che il glossatore, cioè De Luca152, non si è sbilanciato a favore dell'una o dell'altra soluzione, rinviando piuttosto
151R.D
EL GRATTA, Giovan Battista de Luca e gli Statuti di Piombino, cit., p. 28
152«Giovan Battista De Luca nacque a Venosa (prov. di Potenza) nel 1614, da
Antonio ed Angela Giacullo. […] A Venosa ricevette la prima istruzione: qui, nel 1626 apprendeva la grammatica. Nel 1628 o '29 iniziò lo studio delle istituzioni a Salerno sotto Salimbene da Siena […] Nel dicembre 1631 comunque era a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1635. […] Convinto che "le leggi si mangiano e s'inghiottiscono nelle scuole, ma poi si digeriscono ne' tribunali" (Dottor volgare, Proemio, III, n.1), il D. si dedicò con impegno all'attività forense presso le principali corti napoletane. […] Il D. trascorse cinque anni nell'esercizio dell'avvocatura, ma poi, colpito da una grave forma di tisi, per la quale i medici gli pronosticavano una fine imminente, fu costretto a rientrare a Venosa, dove assunse la carica di vicario capitolare in sede vacante. […] Certo è che nel marzo 1639 risiedeva ancora a Napoli e che ricoprì l'incarico per un anno e mezzo. Poiché il nuovo vescovo di Venosa ebbe la nomina nel dicembre 1640, la sua dové cadere a mezzo il 1639. […] II D. fu quindi vicario generale sino al 1644, quando si trasferì a Roma, dove lo avevano occasionalmente condotto motivi di ufficio.» Cfr. ALDO MAZZACANE, De Luca, Giovanni Battista in Dizionario Biografico degli italiani – Volume 38 (1990) «[A Roma] fu introdotto negli
ambienti curiali da Niccolò Ludovisi (1610-1664), principe di Venosa e di Piombino, nipote di papa Gregorio XV e titolare di importanti incarichi di governo civile e militare. De Luca prestò opera presso Ludovisi come avvocato e come uditore, e fu in occasione di questi servigi che ebbe modo di iniziare a trattare importanti e delicate questioni feudali e giurisdizionali. […] A Roma dette vita a uno studio legale di alto livello, specializzato nelle cause feudali, civili ed ecclesiastiche. Dal 1658 fu avvocato a Roma dei re di Spagna Filippo IV e Carlo II. Nel 1676, dopo trent’anni di intensa attività e dopo aver già dato alle stampe le opere maggiori, abbandonò la professione e prese i voti di sacerdote. Con l’ascesa al soglio papale, pochi mesi dopo, di Benedetto Odescalchi (Innocenzo XI), ne divenne subito, come Uditore e Segretario dei memoriali, uno dei più stretti collaboratori […] Fu attivamente presente nella vita culturale romana anche frequentando accademie, come quella creata dalla regina Cristina di Svezia, tenendo discorsi e pubblicando interessanti scritti su temi a cavallo tra diritto, costume e politica. Dal 1681 fu cardinale, membro di undici congregazioni e di altre importanti magistrature della curia romana, fino alla morte, avvenuta il 5 febbraio 1683.» Cfr. ALESSANDRO DANI, DE LUCA,Giovan Battista, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Diritto (2012), cit.
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ai contratti stipulati di volta in volta dalle parti.
De Luca nella sua opera di glossatura degli Statuti non fece quasi mai riferimento ai Brevi, ritenuti «per l'intensa rilevanza dell'aspetto politico insito nella loro stessa natura e finalità, poco adatti a ricevere un commento strettamente giuridico»153. Forse questa scarsa attenzione del De Luca all'aspetto normativo dei Brevi gli fece sfuggire la rubrica in questione, che invece poneva una soluzione chiara e definitiva al problema; oppure la stessa venne inserita nel Breve successivamente alla sua opera di glossatura: il motivo non possiamo conoscerlo, mancando una datazione certa alle rubriche che non derivassero da bandi o decreti signorili. Fatto sta che la soluzione prospettata, rispetto agli studi giuridici condotti sugli Statuti, risulta inedita.
La norma, come accennato, fa riferimento ad una decisione consiliare che aveva evitato spesso problemi applicativi: se tuttavia si sentì la necessità di inserirla nel Breve, significa che la sua osservanza non era stata pacifica. La soluzione adottata prevedeva che «dovendosi
restituir dote di cose mobili, immobili o semoventi et cose de' corredi, tanto se le dette cose fussero stimate, quanto se non fussero stimate, la donna o altri che per lei doverà ricevere la dote da restituirsi, debba pigliarsi de sua proprj beni o denari che ha dato in dote quando tali beni vi fussero, in tutto o in parte, da stimarsi di novo e pigliarseli per la nuova stima, et essendo deterioratj, si supplisca allo resto da chi doverà consegnare tal dote e per il contrario chi la doverà restitituir non possa escluderla dalli detti sui beni propri dati in dote con offerirli danarj»154. In conclusione, se possibile, la donna avrebbe dovuto ricevere i beni così come consegnati e, se deteriorati, avrebbe dovuto farli stimare e farsi pagare il corrispettivo: in caso contrario, cioè se i beni fossero stati in buone condizioni, chi era tenuto a restituirli non avrebbe potuto "acquistarli" mediante il versamento del prezzo
153
R.DEL GRATTA, Giovan Battista de Luca e gli Statuti di Piombino, cit., p. 49
154
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corrispondente.
4.2 Comportamenti da tenersi tra gli sposi prima della consegna