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Nell'universo degli iura propria. I Brevia piombinesi del Cinquecento e la magistratura pupillare.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Nell’universo degli iura propria.

I Brevia piombinesi e la magistratura

pupillare.

Candidato

Relatore

Giada Lo Cascio

Prof. Andrea Landi

(2)

I

INDICE

INTRODUZIONE

PARTE PRIMA

.

N

ATURA GIURIDICA DEI

BREVIA

E COLLOCAZIONE STORICA NELLA LEGISLAZIONE PIOMBINESE

Cap. I - G E N E S I D E L B R E V E C O M E F O R M A D I L E G I S L A Z I O N E S T A T U T A R I A

1.1 Origini della legislazione statutaria 1 1.2 Le diverse componenti della legislazione statutaria 3

1.3 L'autonomia normativa dei Comuni 7 1.4. I rapporti tra la legislazione statutaria e il diritto

comune 10

Cap. II - C E N N I D I S T O R I A L E G I S L A T I V A P I O M B I N E S E

2.1 Introduzione 14

2.2 Cenni storici 14

2.3 La nascita di uno Stato autonomo 16 2.4 L'occupazione del Valentino e l'infeudamento di

Piombino 18 2.5 Le mire di Cosimo de' Medici sullo Stato di Piombino

e la reggenza di Elena Salviati 19 2.6 L'amministrazione spagnola 23

2.7 Consegna del Feudo ad Otto da Montauto 26 2.8 Piombino torna in mano agli Appiani 27 2.9 Rapporti tra Jacopo VI e Anzianato 28 2.10 Uccisione del Colonnello Cima e fuga di Jacopo 31 2.11 Rapporti tra Jacopo VI e Cosimo de' Medici 33 2.12 Pretese ereditarie di Sforza Appiani 34 2.13 Riforma del Breve 35 2.14 Morte di Jacopo VI 37

PARTE SECONDA

.

E

SEGESI DEI

BREVIA

Cap. III - L E I S T I T U Z I O N I D I P I O M B I N O

3.1 Gli Anziani 39 3.2 I Consigli 47

(3)

II

3.3 Consiglio Generale o Parlamento 49

3.4 Consiglio dei Quaranta 50

3.5 I Sindaci o Modolatori 53

3.6 Il Sindaco della Comunità 54

3.7 Le guardie 56

3.8 Cancelliere del Comune 57

3.9 Il Ragioniere 59

3.10 Gli Ambasciatori 60

3.11 I Consoli della Corte del mare 61

3.12 Norme generali sugli ufficiali della Comunità 63

Cap. IV - D I R I T T O C I V I L E, P E N A L E E N O R M E V A R I E 4.1 La dote: valore e restituzione 64

4.2 Comportamenti da tenersi tra gli sposi prima della consegna dell'anello 69

4.3 Integine e Sequestri 69

4.4 Scritture e contratti 70

4.5 Vendita di immobili 72

4.6 Delle cose che minacciano rovina 75

4.7 Esenzioni e immunità 76

4.8 Convenire debitore forestiero in Piombino 79

4.9 Incendi 80

4.10 Malefici 83

4.11 Tregue 84

4.12 Furto di ferro 86

4.13 Riforma ed osservanza dei Brevi 87

4.14 Decreto di Jacopo VI sul valore di cambio delle monete circolanti in Piombino 88

4.15 Norme varie 89

Cap. V - I L P R O C E S S O 5.1 Il Vicario: introduzione 91

5.2 Caratteristiche del Vicario 91

5.3 L'Ufficio del Vicario 93

5.4 Gli emolumenti 97

5.5 Le incompatibilità e i divieti 100

5.6 Il Sindacato 100

5.7 Il Consiglio del Savio 102

5.8 Il Giudice della Gabella 104

5.9 Il Notaio del banco civile 105

(4)

III

5.11 La prova in giudizio del pagamento dei debiti 107

5.12 Salari e sportole di avvocati, procuratori e giudici 108 5.13 Cause criminali 110

5.14 Condanne 113 5.15 Delitti commessi dai figli sottoposti alla patria potestà 114

5.16 Processi contro i corsari 116

PARTE TERZA

.

S

TORIA DELLA MAGISTRATURA PUPILLARE NELLA

P

IOMBINO DEL

C

INQUECENTO

Cap. VI – I L M A G I S T R A T O D E I P U P I L L I

6.1 Origini 118 6.2 Nascita dell'istituto nello Stato di Piombino 121 6.3 Vicende modificative dell'istituto 123 6.4 Il Giudice dei Pupilli nei Brevi 128 APPENDICE

1. Libri dei consigli 137 2. Lettere di Jacopo VI agli Anziani 149

3. Estratti dal Fondo Cardarelli e dall’Archivio di Stato

di Firenze 151

4. Il Giudice dei Pupilli nei Brevi 155 5. Decretum di Jacopo V sui delitti commessi dai figli

di famiglia 160

6. Sentenza di Pietro Calefati 161

BIBLIOGRAFIA 165

(5)

IV

INTRODUZIONE

La legislazione dello Stato di Piombino, pur evolvendosi dalle basi normative degli statuti pisani, acquisì progressivamente nel '400 e nel '500 una propria dignità, consolidandosi poi nel '600 con la nascita del Principato. Nonostante le dimensioni ridotte del territorio, sin dal momento in cui questo si rese autonomo per iniziativa di Gherardo Appiani a seguito della cessione della dominante Pisa ai Visconti, si presentarono profili politici e giuridici di peculiare interesse: da un lato le alleanze e le strategie degli Appiani per mantenere l'indipendenza salvaguardando i confini dalle ambizioni di alcuni tra i più importanti Stati dell'epoca (basti citare l'accomandigia con Firenze, conclusa nel 1403, quella con Napoli che nel 1465 consentì a Jacopo III di aggiungere il cognome Aragona al proprio, o l'investitura a feudo nel 1509 ad opera di Massimiliano I che garantì a Jacopo IV privilegi di natura fiscale, economica, militare nonché la protezione imperiale); dall'altro un complesso istituzionale e normativo di tutto rispetto, delineato dagli Statuti, dai Brevi e dai provvedimenti signorili.

Nel corso della sua storia Piombino ha offerto un'ampia produzione giuridica, sia di tipo legislativo che giurisdizionale, di cui purtroppo molto è andato perduto ed il resto è stato frammentato in vari archivi: principalmente in quello comunale, ma anche nell'Archivio Storico di Firenze, in quello di Pisa, nell'Archivio Segreto Vaticano e a Piacenza, se vogliamo rimanere in Italia. Molta documentazione infatti è custodita in Spagna, a Simancas, e in Francia, a Parigi.

Ciononostante, frequentando l'archivio cittadino ho potuto constatare quante fonti debbano ancora essere lette, consultate, studiate e proprio la consapevolezza del patrimonio storico e giuridico ancora “intonso” ha condizionato la mia scelta di recuperare i Brevia della città in cui sono cresciuta, pervenuti a noi in sole due edizioni (1569 e

(6)

V

1578) nelle copie manoscritte del XIX sec. (rispettivamente del 1838 e del 1842, il cui recupero deve essere attribuito al commesso Antonio Mannini1).

Fino ad ora infatti, nonostante la notevole produzione conservata, si sono interessati alla storia del piccolo Stato di Piombino solo alcuni studiosi autoctoni, in particolar modo Licurgo Cappelletti, Ivan Tognarini e Romualdo Cardarelli, le cui opere sono state fondamentali per ricostruire, unitamente alle fonti più antiche, il panorama storico politico della Piombino cinquecentesca. Da un punto di vista più “giuridico” un ruolo insostituibile è stato ricoperto da Rodolfo Del Gratta, che con l'opera “Giovan Battista De Luca e gli statuti di Piombino” ha costituito un imprescindibile punto di riferimento per la comprensione e l'inquadramento della legislazione cinquecentesca.

Prima d'ora i Brevi non sono stati analizzati, se non in riferimento alle singole norme complementari a quelle statutarie, forse anche a causa del condizionamento delle parole di Giovan Battista de Luca, che glossando gli Statuti nel XVII sec. ritenne i Brevi non meritevoli di attenzione in quanto dotati di un valore più politico che giuridico. Non condivido tale giudizio, anche se indubbiamente il valore “politico” è una delle caratteristiche più evidenti di tali raccolte. Esse vennero redatte durante gli anni di governo di Jacopo VI, che si contraddistinse per il continuo braccio di ferro con l'oligarchia cittadina sugli antichi privilegi riconosciuti formalmente da Emanuele d'Appiani e dai successori a cavallo tra il XV e il XVI sec., in particolar modo sulla figura del magistrato dei pupilli.

Per questa ragione ho suddiviso la tesi in tre parti, di cui la prima ha carattere introduttivo: il primo capitolo vuole fornire un sintetico quadro di riferimento allo ius commune, indicando l'origine dei Brevia come forma legislativa di tipo statutario nell'Italia

1

Cfr. A.S.C.P., Comune di Piombino, Brevi, vol. 1, ultima pagina, e vol. 2, ultima pagina.

(7)

VI

medievale, ricostruita per mezzo delle teorie di Giuseppe Salvioli, Pier Silverio Leicht, Francesco Schupfer, Francesco Calasso e Andrea Landi. Il secondo capitolo, incentrato sulla storia legislativa piombinese, vuole chiarire quali fossero le dinamiche e il contesto in cui gli operatori del diritto cittadino cinquecentesco si trovarono ad operare, aprendo una finestra sulla vita politica e sociale di questo territorio.

Oltre gli autori citati precedentemente, di grande aiuto per il lavoro di ricostruzione mi sono stati i Libri dei Consigli della città, custoditi in archivio: la lettura è stata spesso difficoltosa, sia per il deterioramento della carta su cui i verbali vennero redatti, sia per la calligrafia non curata dei cancellieri che li registrarono. Altre difficoltà, anche se minori, sono state determinate da un uso arbitrario dell’ italiano volgare (o addirittura vernacolare in taluni casi) e del latino (quest'ultimo soprattutto nella corrispondenza con diplomatici o funzionari stranieri, con esclusione di quella con i Luogo Tenenti e amministratori spagnoli, redatta nella lingua madre di questi ultimi).

La vastità di informazioni e documenti a disposizione mi ha spinto a circoscrivere l'area di studio al Cinquecento, per due motivi: in primo luogo perché, come accennato prima, i Brevi furono il risultato di una dialettica tra Signore e Anzianato che si protrasse dalla metà del secolo fino agli anni '80, dall'altro perché una delle figure peculiari di cui ho parlato, disciplinata unicamente dai Brevi e da poche carte contenute nei verbali dei consigli, il magistrato dei pupilli, ebbe una vita breve e travagliata che si dipanò tra il 1539, anno della sua istituzione formale, e il 1578, anno della promulgazione del secondo Breve. Questa è anche la ragione per cui ho tralasciato l'analisi di alcuni decreti, contenuti unicamente nella seconda versione, datati al XVII o addirittura al XVIII sec.: circostanza che potrebbe indicare (ma tale ipotesi avrebbe bisogno di studi approfonditi per essere confermata) il fatto che quella del 1578 sia l'ultima raccolta di Brevi

(8)

VII

formata nello Stato di Piombino, dopodiché ci si limitò ad inserire i nuovi bandi ed ordini all'interno della stessa. Una conferma, indiretta, potrebbe venire dal fatto che originariamente la riforma di tali Brevi avveniva ogni cinque anni, per poi passare ai sette anni nel 1569 e ai dodici nell'ultima versione. Un progressivo allungamento dei tempi che indica una sempre minore necessità di procedere ad aggiornamenti regolari.

La seconda parte della tesi è dedicata all'esegesi dei testi dei Brevi, dei quali ho cercato di razionalizzare quanto più possibile i contenuti, ordinando secondo categorie giuridiche norme che si trovano letteralmente disseminate in modo asistematico nei testi originali a causa della loro formazione alluvionale. Analizzando i testi sono emerse precisazioni importanti rispetto alle norme statutarie: basti pensare alla sentenza di Pietro Calefati, noto giurista piombinese che fu anche Vicario nel nostro territorio, destinata a formare un precedente e perciò inserita tra i decreti signorili e quindi ad essi equiparata per validità e valore (tale sentenza fu esaminata e riassunta da Del Gratta, pertanto io mi sono limitata a ricopiarla in appendice, evitando di soffermarmi su studi già condotti altrove); o alla norma sulla restituzione delle doti, che andò a chiarire la lacuna lasciata dagli Statuti piombinesi e colmata da De Luca attraverso un rinvio al diritto comune. In particolare questa norma, non datata, lascia aperto il dubbio se sia stata inserita successivamente all'opera di glossatura del giurista venusino ovvero se sia stata semplicemente ignorata da quest'ultimo, soluzione altrettanto probabile vista la sua dichiarata scarsa considerazione dei Brevi. L'opera di ricostruzione non è stata semplice, sia per la quasi totale mancanza di bibliografia sul tema (colmata solo in parte attraverso lo studio di testi che si occupavano di istituti giuridici antichi da un punto di vista generale) sia per i frequenti riferimenti a categorie oggi scomparse, spesso nate sul territorio e quindi non conoscibili attraverso studi paralleli riguardanti altre realtà

(9)

VIII

(come ad esempio le c.d. integine).

Infine, ho voluto interamente dedicare la terza parte della tesi alla magistratura dei pupilli, dalla sua nascita per concessione di Jacopo V fino all'estinzione della stessa come organo giurisdizionale autonomo, ricondotta dai Brevi alle funzioni espletate dal Vicario. In questo capitolo ho fatto prevalentemente riferimento al saggio di Maria Gigliola di Renzo Villata, “Nota per la storia della tutela nell’Italia del Rinascimento”, che offre un quadro esaustivo sia sulle altre forme di magistrature analoghe in altre parti d'Italia, sia sulle ragioni che condussero ad una diffusione capillare delle stesse con caratteristiche similari, sinteticamente riconducibili ad istanze di protezione dei minori nei confronti di tutori inaffidabili.

Sullo sfondo sempre presenti le norme statutarie a cui frequentemente i Brevi rinviano, indispensabili per comprendere la

ratio dei vari istituti e fornirne un'immagine completa.

Concludendo, non posso non sottolineare con rammarico come, nel momento storico che stiamo attraversando, affrontare una ricerca d’archivio che voglia essere completa e meticolosa sia particolarmente difficile, considerato che le risorse destinate a biblioteche e archivi sono sempre più scarse. Tuttavia, questo non è un motivo sufficiente per abbandonare tale metodo: la ricostruzione delle origini del nostro diritto, in questo caso degli iura propria che contengono i particolarismi non solo giuridici, ma anche economici, politici e sociali dei nostri territori, rappresenta un momento essenziale nel processo di affermazione della nostra identità nel Terzo Millennio, caratterizzato dalla globalizzazione non solo economica e finanziaria, ma anche e soprattutto culturale: sono convinta infatti che solo un'adeguata conoscenza del passato consenta la formazione di strumenti idonei a comprendere il presente e ad agire coscienziosamente per la costruzione di un futuro che scaturisca dal progresso e non dal mero susseguirsi dei giorni, dei mesi e degli anni.

(10)

1

PARTE

PRIMA.

N

ATURA GIURIDICA DEI

B

REVIA E COLLOCAZIONE STORICA NELLA LEGISLAZIONE PIOMBINESE

Cap. I - GE NESI DEL B REVE CO ME FO RMA DI LEGISL AZIO NE S TATUTARIA

1.1 Origini della legislazione statutaria

L’XI secolo segnò quello che è stato definito da Calasso “Rinascimento medievale”: l’incremento demografico e il risorgere dell’attività mercantile portarono ad un rifiorire delle città, pressoché abbandonate durante l’Alto Medioevo, con la nascita del Comune cittadino e alla diffusione delle corporazioni di arti e mestieri. Questa rivoluzione in campo economico e sociale comportò l’insorgere di nuovi rapporti giuridici, economici e commerciali, i cosiddetti nova

negotia, i quali sin da subito necessitarono di una regolamentazione ad

hoc, non potendo le antiche consuetudini soddisfare le esigenze e risolvere i problemi che tali nuove figure portavano con sé.

Durante l'Alto Medioevo si era sviluppata una società di tipo "curtense": la curtis poteva essere considerata un sistema autarchico, all'interno della quale si compiva l'intero ciclo economico e produttivo. In un contesto simile non si poteva parlare di una marcata differenziazione delle funzioni, trattandosi di un «circuito chiuso tra produzione e consumo che doveva comprendere, oltre la coltivazione, le necessarie infrastrutture artigianali»1. La curtis era il nucleo organizzativo della grande proprietà fondiaria e si basava sulla contrapposizione tra casa dominica, sfruttata dal signore per mezzo della manodopera, e casae massariciae, fondi che venivano dati in concessione con la contropartita di censi in moneta o in natura e,

1

E. CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Il Cigno Galileo Galilei edizione Roma, IXa ristampa, 2007 p. 197

(11)

2

soprattutto, delle corvées (prestazioni di lavoro).2

Questa particolare organizzazione delle terre e del lavoro consentiva la sopravvivenza della comunità senza la necessità di andare a reperire altrove ciò che mancava: in questo senso la curtis era autosufficiente (per quanto di autosufficienza si potesse parlare, essendo le comunità del tempo oppresse da una situazione di endemica indigenza).

Con l'anno 1000 l'assetto socio economico andò incontro ad una graduale mutazione: se già da tempo il sovrappiù della produzione veniva smerciato al di fuori della curtis, e i fiumi e le antiche strade non avevano perso del tutto la loro funzione aggregativa cosicché, seppur in misura non rilevante, avevano continuato ad alimentare deboli e primitive forme di commercio, grazie all'inurbamento vi fu un rifiorire delle attività mercantili. Come rileva Santarelli3 «nella città nessuno aveva più nel fatto la possibilità di produrre tutto il necessario per il proprio consumo, le funzioni si venivano forzatamente specializzando [...] e il mercato s'imponeva così come componente essenziale di questa “nuova” società».

Grazie al rifiorire delle attività economiche, nonché all'incremento demografico che ne fu conseguenza, le città ritornarono a crescere, acquisendo importanza sia dal punto di vista sociale che da quello politico: al loro interno la diversificazione dei mestieri e delle professioni condusse al formarsi delle prime "corporazioni", rappresentative degli interessi di parte, nonché a numerose altre espressioni del "principio associativo" che caratterizzò quest’epoca4

. Si ricordano, ad esempio, le consorterie (associazioni gentilizie), le compagnie delle armi, le confraternite laicali ed altre, differenti a

2

E.CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, cit., p. 197

3U. S

ANTARELLI, Mercanti e società tra mercanti, Terza Edizione, Torino, G. Giappichelli Editore, 1998, p. 37

4

F. CALASSO, Gli ordinamenti giuridici del Rinascimento medievale, II edizione, Milano, Giuffré, 1949, pp. 36-39

(12)

3

seconda dei luoghi5, ma accomunate dalla grande autonomia che le caratterizzava e che le definiva come veri e propri ordinamenti giuridici, dotati di un assetto normativo e giurisdizionale. Ciascuna di esse era dotata di un proprio Statuto, che originava da un patto collettivo e solenne generalmente definito coniuratio e che sarebbe divenuto il simbolo dell'autonomia politica dei comuni all'indomani della Pace di Costanza.

1.2 Le diverse componenti della legislazione statutaria

Gli Statuti6 furono una forma legislativa ben lontana da quelle che caratterizzano gli ordinamenti giuridici moderni: la formazione degli stessi era di tipo “alluvionale” e le norme che li componevano erano il frutto di provvedimenti delle autorità volti a regolamentare singoli casi, con la conseguenza che molto spesso erano destinate a durare per periodi di tempo molto limitati prima di essere sostituiti o abrogati da nuovi interventi7.

La legislazione statutaria originò dalla graduale interazione delle preesistenti forme normative, in particolare da tre di esse8: le consuetudini, le leggi ed i Brevi9.

5E.C

ORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, cit. pp. 417 ss.

6«Statutum si disse nel Medioevo la norma sancita dagli organi costituzionali a ciò

preposti dagli ordinamenti particolari, che riconoscono sopra di sé l'autorità di un

superior: in contrapposizione con la lex, che è vocabolo tecnicamente riservato

alla manifestazione normativa emanata nell'ordinamento laico dall'autorità suprema e universale, dalla quale, in questa concezione, ogni altro potere deriva: cioè, dall'imperatore6», definizione di “Statuto” data da CALASSO, in Statuti, di MARIA ADA BENEDETTO, Lib. doc. di Storia del dir. italiano nell'Univ. di Torino,

Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII (SPI-TEN), diretto da ANTONIO AZARA e ERNESTO EULA, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1957, p. 386

7

Secondo VIORA,gli statuti «nascono come vere e proprie consolidazioni, e cioè come compilazione della promissioni dei vari magistrati preposti al governo comunale» Statuti, di MARIA ADA BENEDETTO,Novissimo Digesto Italiano, cit.,

p. 387

8

A. LANDI, A proposito di statuti medievali. Osservazioni generali al modo

d’un’introduzione, in «Statuti et ordini di Monte Castello Contado di Pisa

pubblicati per cura di Giuseppe Kirner», Pontedera (PI), Coedizione Tagete Edizioni e Bandecchi e Vivaldi, 2012, pp. XCIX-C

9

(13)

4

Per quanto concerne le consuetudini, già da tempo i Comuni le avevano messe per iscritto: esse erano dotate di un'importanza primaria nella gerarchia delle fonti, dal momento che si generavano spontaneamente nei contesti sociali di riferimento per venire incontro ai bisogni della comunità, al contrario invece delle leges che dipendevano dalla volontà di pochi, come rilevò a suo tempo lo Schupfer: «la Tavola Amalfitana definisce la legge “sanctio sancta”, e la consuetudine “sanctio sanctior”, e distingue appunto l’una dall’altra, attribuendo alla consuetudine maggiore autorità, in quanto esce spontanea dai bisogni locali, mentre la legge può dipendere dalla volontà di uno o di pochi. E quando le consuetudini sono buone, aggiunge la stessa Tavola, tacciono le leggi»10.

Formatesi su un fondo più antico di origine romano-volgare, con i successivi innesti delle varie tradizioni germaniche, tali consuetudini rispecchiavano pienamente i connotati materiali e morali delle nuove formazioni istituzionali, «il ristretto particolarismo di classe, il protezionismo industriale, il municipalismo che fece nemici “quei che una fossa serra”»11

: da ciò nacquero le Consuetudines (ad esempio a Genova, Savona, Alessandria) o Usus (ad esempio il

Constitutum usus Pisane civitatis del 1160). Tale fenomeno, definito

“accertamento della consuetudine”12

, viene ricondotto da Calasso alle condizioni storiche e politiche dei secoli X e XI, durante i quali si verificarono uno sgretolamento della sovranità e un inaridimento della legislazione regia ed imperiale che costrinsero i popoli a redigere per iscritto le proprie consuetudini al fine di difenderle contro arbitrii ed

latino dell'età non aurea la voce brevis venne impiegata per prospetto, elenco,

registro e, per concatenazione semantica, per atto, documento.», Breve, a cura del

Prof. UGO GUALAZZINI, Ord. di St. del Dir. ital. nell'Univ. di Parma, Novissimo

Digesto Italiano, vol. II (AZ-CAS), cit., p. 573 10F.S

CHUPFER, Manuale di storia del diritto italiano, Roma, Casa Libraria Editrice Ermanno Loescher & co., 1904, pp. 386-387

11G.S

ALVIOLI, Storia del diritto italiano, Unione tipografica Editrice Torinese, 1921, p. 84

12

F.CALASSO, Storia e sistema delle fonti del diritto comune, vol. I – Le origini, Milano, Dott. A. Giuffré – editore, 1938 – XVI, p. 278

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5

abusi che lo Stato feudale non era in grado di reprimere. A tal fine un ruolo di primo piano fu svolto dalla giurisprudenza attraverso i

laudamenta curiae, che erano «sentenze che avevano per oggetto non

la decisione di un singolo caso controverso, bensì l'affermazione di un principio di diritto»13.

Nonostante la necessità di redigerle per iscritto, per assicurarne una corretta applicazione e per evitare che il tempo le cancellasse dalla memoria collettiva, la natura delle consuetudini rimase invariata: sia per l'origine che per i contenuti e le finalità rimaneva una tipica manifestazione del jus non scriptum poiché, come riteneva Cino da Pistoia, la consuetudine aveva un valore intrinseco che le conferiva efficacia ancora prima che fosse messa per iscritto14.

Le leggi propriamente dette, invece, rispondevano all’esigenza di regolamentare tutte quelle nuove situazioni economico-sociali che rappresentavano la conseguenza più immediata e naturale della rinnovata vitalità dell'attività mercantile, ma anche delle problematiche connesse al mutamento della compagine sociale derivante dallo spostamento dalle campagne alle città, dall'aumento demografico e dai traffici commerciali, a cui le consuetudini non sapevano dare una risposta. Esse avevano per lo più carattere contingente, promulgate quando se ne sentisse il bisogno o si presentasse l’occasione. Schupfer riporta che gli esempi più antichi appartengono a Milano: gli storici ricordano alcune leggi del 1026, 1061 e 1065, ed una colonna fuori della porta maggiore dell’atrio di Sant’Ambrogio accenna un decreto del 1098, fatto dall’arcivescovo col comune consiglio di tutta la città. La produzione era dunque ingente e solo nei decenni successivi si sentì la necessità di completarle e riordinarle15.

I Brevia o Capitula, infine, rappresentavano i giuramenti dei magistrati all'assunzione delle rispettive cariche: in essi erano

13F.C

ALASSO, Storia e sistema delle fonti del diritto comune, vol. I, cit., p. 279

14

F.SCHUPFER, Manuale di storia del diritto italiano, cit., pp. 388-389

15

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6

contenuti i diritti e i doveri ed in generale tutte le regole che avrebbero seguito nella loro gestione. Ne derivava un vero e proprio documento normativo dal carattere misto: vi confluivano infatti prescrizioni di diritto privato, pubblico, penale, commerciale, processuale, ma anche relative alla polizia, all'annona, all'agricoltura, all'igiene, al sistema tributario e così via, senza uno schema preciso né ricorrente. Secondo Schupfer, grazie a queste caratteristiche i Brevi assumevano il ruolo di leggi costituzionali16: di questi se ne trovavano di diversi tipi, a seconda dei comuni e delle istituzioni che li formavano.

In particolar modo il Breve Consulum (o Sacramentum

Consulum) consisteva nel giuramento prestato dai consoli, nell’atto di

assumere il governo, sui capitoli presentati loro dal popolo e che aveva ad oggetto l’insieme di regole che i consoli stessi si impegnavano a seguire nel corso del loro mandato, nonché i trattati stipulati con altri comuni, vescovi o signori. Un esempio ci è dato dal Breve dei consoli di Pisa del 1162, il quale fa parola «di certe securitates che il vescovo Gerardo e l’arcivescovo Daiberto avevano fatto fare ai loro tempi (1080-1092), e che i consoli dovevano tuttavia giurare. Né altrimenti una carta del 1171 dispone, che i consoli o rettori di Pisa dovessero porre nel loro breve, e anche in quello del popolo, certo trattato conchiuso recentemente coi Fiorentini.»17. A Venezia invece, della stessa natura, è stata ritrovata la promissione del Doge di Venezia Enrico Dandolo (1193), oppure le c.d. "promissioni del malefizio", riguardanti il diritto penale, di cui la più antica risale al 1181 ed è attribuibile al Doge Orio Mastropietro.18

Ogni comune aveva le proprie magistrature, e similmente ai Consoli, ciascuna di esse era solita dotarsi del proprio Breve. A Siena, ad esempio, ne troviamo di vario tipo: innanzitutto il Breve del

Consiglio della Campana, contenente un regolamento del proprio

16F.S

CHUPFER, Manuale di storia del diritto italiano, cit. p. 389

17F.S

CHUPFER, Manuale di storia del diritto italiano, cit., p. 390

18

P.S.LEICHT, Storia del diritto italiano – Le fonti, Milano, Dott. A. Giuffré editore, 1956, p. 196

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7

funzionamento "interno" relativo ad elezioni, adunanze ecc., ma anche il constituto dei Consoli del Placito, a dimostrazione che ogni ufficio aveva un'autonomia sufficiente a fissare da sé le regole della propria amministrazione.19 Famosissimo è anche il Breve della Compagna20 a Genova.

Agli originari Brevi delle istituzioni e delle alte cariche cittadine, ben presto si affiancò il Breve del Popolo, riguardante stavolta il giuramento rivolto dal popolo ai Consoli o alle altre magistrature

A Pisa, a fronte del giuramento dei consoli, dal 1197 si riscontra un iuramentum sequimenti da parte del popolo, ossia una promessa giurata di osservare un complesso di disposizioni21 e, nella revisione del Constitutum usus del 1270, vi è traccia di un Breve

Populi Pisani communis che risale probabilmente al 1254, quando il

popolo della città si costituì in un comune speciale in funzione antimagnatizia. Dal 1286, successivamente alla sconfitta della Meloria e alla presa di potere da parte di Ugolino Conte di Donoratico e Nino Visconti giudice di Gallura, il Breve pisani communis (o Breve pisani

Podestatis, che a seguito del declino della carica consolare aveva

sostituito il Breve Consulum) e il Breve populi Pisani vennero riformati e ridotti ad un solo volume.22

1.3 L'autonomia normativa dei Comuni

La progressiva conquista dell'autonomia da parte delle città, che permise loro di dotarsi di una legislazione propria, ancor prima del sorgere del fenomeno comunale, fu alla radice dei conflitti con

19F.S

CHUPFER, Manuale di storia del diritto italiano, cit. p. 390

20«A Genova la “compagna” è un’associazione giurata che si formò avanti il 1100 nella città e nei dintorni, probabilmente fra commercianti e navigatori, per scopi di difesa; si rinnovava di quattro in quattro anni ed era presieduta dai consoli.»

P.S.LEICHT, Storia del diritto italiano, cit., p. 191

21

P.S.LEICHT, Storia del diritto italiano, cit., p. 197

22

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8

l'Impero, che già dall'XI sec. aveva iniziato ad adoperarsi per il recupero delle regalie, ossia quei diritti sovrani persi nell'epoca post-carolingia, e che riguardavano il controllo sui feudi maggiori, sulla nomina degli alti ufficiali, sulla moneta, sui mercati ecc.23

Tali conflitti trovarono soluzione non prima del 1183, con la Pace di Costanza, intercorsa tra i comuni della Lega Lombarda e l’imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa: questa svolta, che segnò la vittoria di fatto delle città che rivendicavano la propria indipendenza rispetto alle pressioni dell'Impero, rese necessario avviare una riflessione sul fondamento della potestas statuendi dei comuni, che ora vedevano riconosciuta la propria autonomia normativa.

Dapprima venne formulata la teoria della permissio, cioè un implicito riconoscimento delle leges di cui le città si erano dotate, ma ciò ancorava la potestas statuendi alla volontà dell’imperatore, che nella Pace stessa prescriveva ai giudici imperiali di giudicare secondo le leggi e le consuetudini delle città. Il rischio di una simile impostazione era riconoscere all'Imperatore la facoltà di revocare in un qualsiasi momento ciò che aveva riconosciuto in passato.

Si rendeva quindi necessario, per la scienza giuridica dell'epoca, fornire autonoma legittimazione alla potestà statutaria dei comuni.

Ciò avvenne in prima istanza con la teoria della iurisdictio di Bartolo da Sassoferrato24, in base alla quale esistevano varie

23

E. CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, cit., pp. 206-207

24«Bartolo nacque a Venatura, frazione rurale del Comune di Sassoferrato

nell'Anconetano, territorio del futuro ducato di Urbino. La data di nascita, deducendola da quella della sua promozione al dottorato avvenuta in Bologna il 10 nov. 1334, quando B. era nel suo ventunesimo amo, va collocata tra il 10 nov. 1313 e il 10 nov. 1314. […] B. ricorda di avere ricevuto la sua prima istruzione da un frate Pietro d'Assisi […] a cui si sente debitore di quella formazione mentale che gli permise, a soli quattordici anni, di seguire a Perugia i corsi di diritto civile di Cino da Pistoia. […] B. proseguì ben sei anni lo studio degli iura civilia, ma la prova finale del baccalaureato la sostenne a Bologna nel 1333, a vent'anni. […] Esattamente il 17 sett. 1334, B. sosteneva le prove preliminari all'esame di dottorato, […] superate le quali, venne ammesso all'esame di dottorato […]. La

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iurisdictiones, qualitativamente uguali ma quantitativamente differenti

(dalla maxima dell’imperatore sul mondo, alla minima del proprietario sul proprio fondo): anche in questo caso, però, le iurisdictiones dei comuni finivano per dipendere dal presupposto che esistesse una

iurisdictio maxima, modello per tutte le altre. In particolare, Bartolo

distingueva tre gradi di giurisdizione: «l'omnis iurisdictio di cui godeva un popolo per concessione imperiale o per prescrizione acquisitiva e in base alla quale poteva emanare statuti pertinenti ad

decisionem causarum e statuti pertinenti ad administrationem bonorum omnis populi; la limitata iurisdictio alle cause civili o alle penali più

lievi – limitazione giurisdizionale che si rifletteva negli statuti stessi, che potevano appartenere al primo o al secondo tipo -; infine, la nulla

iurisdictio spettante a ville e castelli sottoposti ad una città o a un

signore ed in base alla quale potevano emanare statuti del primo tipo a patto che non fossero derogatori della legge del dominus feudale.»25

Fu infine Baldo degli Ubaldi26 a trovare il fondamento

proclamazione solenne fu fatta il 10 novembre nella cattedrale di S. Pietro […] Molto incerte le notizie intorno agli anni che seguirono immediatamente il conseguimento del dottorato, fino all'inizio del suo magistero a Pisa nel 1339. Furono anni che B. volle certamente dedicare all'esercizio di attività pratiche […] Fu assessore a Todi. Il 23 ag. 1338 B. è presente a Macerata, come avvocato generale del rettore della Marca Anconetana; […] Nel 1339 B. è a Pisa, dapprima come assessore del podestà, poco dopo come professore. Iniziava dunque l'insegnamento universitario a ventisei anni. […] Nel 1342-43 lesse il Codex, ma non sappiamo se a Pisa o a Perugia: durante quell'anno scolastico si compì infatti il suo trasferimento allo Studio di Perugia da cui B. non si muoverà più, fino alla morte avvenuta nel 1357. […]» Per la biografia completa e la relativa bibliografia cfrFRANCESCO CALASSO, Bartolo da Sassoferrato, in Dizionario biografico degli

italiani - Volume 6 (1964) 25 M.A.B

ENEDETTO,Statuti in Novissimo Digesto Italiano, cit., pp. 391-392

26«Nato a Perugia il 2 ottobre 1327, Baldo ebbe come maestri nello Studium umbro

Federigo Petrucci, Giovanni Pagliaresi, Francesco Tigrini e soprattutto Bartolo da Sassoferrato. A Perugia fece anche le prime esperienze di insegnamento, subito dopo la laurea (sicuramente almeno dal 1351) e fino al 1357, quando la sua presenza è documentata a Pisa, a leggere il Digestum vetus. Nel 1358 passa allo

Studium di Firenze, dove rimane fino al 1364, ancora impegnato nella lectura

ordinaria del Digestum vetus e anche in quella del Codex. […] Nel 1365 ritorna a insegnare nella città natale, e vi si trattiene fino al 1376; e poi, dopo un triennio di magistero padovano, nel 1379 eccolo di nuovo a Perugia sino al 1390. […] Di fronte però alla richiesta di Gian Galeazzo Visconti di avere l’illustre giurista a dare prestigio allo Studio di Pavia (e sostegno giuridico alla causa del signore di Milano), le autorità perugine poteron ben poco, ed ecco che Baldo nel 1390 si

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giuridico dell'autonomia legislativa comunale: Baldo sostenne infatti che ogni popolo esisteva per jus gentium e il potere di dotarsi di norme proprie, essendo coessenziale al popolo stesso, non avrebbe potuto formare oggetto di concessione.27 Secondo la sua teoria, gli ordinamenti particolari preesistevano rispetto all’ordinamento universale: 'populi sunt de iure gentium', che non derivava da nessun altro regimen. «'Sed regimen non potest esse sine legibus et statutis', appunto perché la sua finalità, in quanto 'collectio multorum ad iure

vivendum' è quella di statuire la norma del lecito e dell'illecito; 'ergo, eo ipso quod populus habet esse, habet per consequens regimen in suo esse'; è il processo circolare tra organizzazione e norma. E perciò le

norme che si dà, non hanno bisogno dell'approvazione di un superior, 'quia confermata sunt ex proprio naturali iustitia': perché il populus in quanto ordinamento giuridico ne ha bisogno per la sua vita, 'sicut omne

animal regitur a suo proprio spiritu et anima...'.»28

1.4. I rapporti tra la legislazione statutaria e il diritto comune

A fronte della frammentazione normativa dovuta alla formazione dei diritti particolari, il diritto comune acquistò una funzione unificatrice: il diritto romano-canonico, come macrosistema di riferimento, divenne da un lato il bacino da cui attingere in caso di lacune nella normativa statutaria, dall'altro la base della formazione dei giuristi nelle università.

Tuttavia, in un quadro normativo così ricco e complesso, si rese necessario da parte della scienza giuridica elaborare una gerarchia

trasferisce in Lombardia. A Pavia, mentre leggeva lo ius civile, si dedicò allo studio del diritto feudale e del diritto canonico, ma di queste materie non risulta che abbia mai tenuto l’insegnamento, né a Pavia, né altrove. La morte lo colse al banco di lavoro il 28 aprile 1400.» Per la biografia completa e la relativa bibliografia cfr. FEDERIGO BAMBI,Baldo degli Ubaldi, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Diritto (2012) in «Enciclopedia» su “Treccani.it” 27A.L

ANDI, A proposito di statuti medievali, cit., pp. XCVII-CVIII

28

Cfr. CALASSO, in Statuti, a cura di. M.A.BENEDETTO,Novissimo Digesto Italiano,

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delle fonti onde evitare, ab origine, conflitti in sede di applicazione: ciò avvenne in primo luogo attraverso la previsione esplicita dell'interpretazione letterale delle norme statutarie e attraverso una graduazione delle fonti normative, con gli statuti al primo posto. In particolare, il diritto romano veniva utilizzato in via sussidiaria in relazione a tutte le questioni diverse da quelle matrimoniali, per le quali invece soccorreva il diritto canonico, che a differenza del primo non avrebbe potuto essere derogato da leggi "secolari", in quanto naturale e divino29.

I particolarismi giuridici non giovarono ad una diffusione capillare e uniforme delle regole elaborate dai teorici del diritto, pertanto si verificarono anche vistose eccezioni: paradigmatico il caso di Venezia, dove con gli Statuti Civili del 1242 del Doge Jacopo Tiepolo, veniva ad essere escluso il ricorso al diritto comune. Molto probabilmente per tutelare commercianti e navigatori, i quali avevano necessità di sollecite risoluzioni delle controversie, gli statuti in questione stabilirono una gerarchia che vedeva al primo posto la legge, al secondo l'analogia (principio che altrove non veniva ritenuto applicabile), al terzo la consuetudine e al quarto il buon arbitrio del giudice30.

Altro problema concerneva l'interpretazione: ben presto i

doctores si accorsero che la strada della sola interpretazione letterale

non era percorribile, poiché avrebbe reso le normative "sterili", inadeguate alla risoluzione della maggior parte dei casi pratici. Tuttavia, fino a quel momento, essa era stata il miglior strumento di difesa dell'autonomia normativa dello Statuto, proteggendolo da interpretazioni e applicazioni troppo lontane dagli intenti originari dei redattori. Perciò il diritto comune, oltre a fornire soccorso nei casi in cui le norme comunali avessero taciuto, divenne anche paradigma interpretativo, per cui statutum interpretatur secundum jus commune:

29

G.SALVIOLI, Storia del diritto italiano, cit., pp. 87-88

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si legittimò così il ricorso all'interpretazione estensiva degli Statuti, alla luce delle categorie, dei concetti, delle figure e dei principi del diritto comune. Come già accennato, si ribadì invece il divieto di analogia, aggirandolo però con l'applicazione della regola ubi eadem

ratio, ibi idem jus, basata sull'identità della ratio, che avrebbe dovuto

essere già compresa nella norma esistente. In sostanza, si ribadiva l'ostracismo ad ogni eventuale extensio, ammettendo però quella che veniva definita intensio o comprehensio31.

Il diffondersi dei traffici commerciali e i conseguenti spostamenti di merci e persone comportarono l'insorgere di contatti sempre più frequenti tra persone soggette a Statuti diversi: laddove possibile, era previsto che ciascuno conservasse il proprio Statuto personale (lo stato e la capacità assegnati dalla legge di origine) e solo in mancanza di esso si ricorreva allo jus commune. La necessità di conservare buone relazioni di vicinato e l'insorgere sempre più frequente di conflitti tra Statuti portarono alla teorizzazione, da parte di Bartolo e degli altri giureconsulti del XIV sec., di un diritto intermunicipale, da cui ha in seguito avuto origine il diritto internazionale privato. Tale teoria prevedeva che in materia immobiliare vigesse la regola della lex loci rei sitae, a prescindere dal domicilio delle parti in causa, con l'applicazione del c.d. "Statuto reale"; se la controversia avesse riguardato lo stato e la capacità delle persone, avrebbe invece prevalso lo "Statuto personale" e la regola della lex domicilii; per la forma degli atti si applicava lo statuto del luogo ove il documento si fosse formato (locus regit actum); infine, per i delitti si applicava la regola del locus commissi delicti. Bartolo, alla luce del quadro interpretativo complessivo, teorizzò un'ulteriore distinzione degli Statuti: quelli favorevoli al soggetto coinvolto sarebbero stati applicabili anche fuori dal territorio; gli altri, definiti

odiosi, avrebbero dovuto essere ristretti ai soli territori dov'erano

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accettati, costruendo così un sistema che tendeva ad ampliare al massimo la nozione di Statuto personale, nell'ottica di un tendenziale

favor nei confronti dei commercianti32.

32

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Cap. I I - CENNI DI STO RI A LEGISL ATI VA PIO MBINESE

2.1 Introduzione

Nelle “Brevi note sull’ordinamento giuridico dello Stato di Piombino” il Prof. Eugenio Massart, prendendo le mosse dal verbale di giuramento di Emanuele D’Appiano33

, analizza le fonti dell’ordinamento giuridico piombinese (Statuti, Brevi e Ordini del Principe), sottolineando la particolarità e la centralità del Breve, a noi giunto nelle due versioni del 1569 e del 1578, che definisce «il vero

Corpus iuris del Comune», contenendo norme giuridiche di diritto

pubblico, privato, penale, agrario, processuale ecc.

I Brevia piombinesi ricoprono un ruolo del tutto peculiare nella storia giuridica e politica dello Stato di Piombino: non si limitarono infatti a contenere il giuramento del Vicario e norme di vario tipo al fine di fornire i dovuti aggiornamenti e perfezionamenti agli Statuti, ma furono un vero e proprio strumento col quale gli Anziani riuscirono a contenere le velleità autoritarie di Jacopo VI, Signore di Piombino dal 1545 al 1585. Durante gli anni del suo governo le vicende storico-politiche che investirono la città condussero ad un grave deterioramento della situazione sociale, che rese indispensabile una riforma del Breve.

2.2 Cenni storici

La rilevanza del territorio piombinese, da sempre ambito dai

33Emanuele d’Appiano fu «eletto Signore di Piombino dagli Anziani il 19 febbraio

1451 alla morte di Caterina Appiani Orsini, «che promise e convenne osservare,

attendere ed adempiere alla Comunità tutti gli Statuti e ordini del Breve, capitoli, consuetudini della Città di Piombino, e tutte le riforme fatte e da farsi», EUGENIO

MASSART, Brevi note sull’ordinamento giuridico di Piombino, in «Bollettino Storico Pisano», XXXVI-XXXVIII (1969), pp. 81-9

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grandi potentati nel contesto geopolitico dell'Italia medievale e rinascimentale, è riconducibile anzitutto alla posizione geografica: come evidenziava Tognarini, il suo canale rappresentava un passaggio obbligato per la navigazione lungo costa, soprattutto durante il dominio spagnolo quando venne reso snodo cruciale per il collegamento marittimo tra i domini d'Italia, le Fiandre e Napoli; il suo litorale era ricco di insenature naturali che permettevano l'edificazione di infrastrutture portuali; inoltre, Piombino era il promontorio più vicino all'Isola d'Elba e alle sue miniere di ferro ed il suo territorio era ricco di risorse minerarie e cave di allume34. I traffici commerciali marittimi del Mar Tirreno, che avevano ricevuto notevole impulso e sviluppo durante il XIV secolo, sotto la dominazione pisana35 rimasero una delle principali fonti di ricchezza per Piombino anche nei secoli successivi, di rilievo tale che a presidio di questo settore venne creata un’apposita magistratura, i Consoli del Mare.

Il passaggio di Piombino sotto l'area di influenza di Pisa risale alla prima metà del XII sec. e nei decenni successivi l'economia della zona riceve notevole impulso grazie all'incremento dei commerci di ferro e grano, sia verso Genova che verso Tunisi, allo sviluppo delle attività siderurgiche e alla costruzione di fortificazioni ed infrastrutture portuali. Nel 1233, il Constitutum legis Pisanae Civitatis prevedette che Piombino entrasse a far parte del Comitatus pisano e al

Castellaneus seu Capitaneus Plumbini venne affidata la delicata

34 I.T

OGNARINI, Introduzione, in «Piombino storia di un principato. Atti dei convegni dedicati alle dinastie dello Stato di Piombino» a cura di Marisa Giachi – Umberto Canovaro, Livorno, Edizioni Archivinform, 2012, pp. 12-17

35«Le rotte commerciali che si dipartivano da Piombino toccavano l’Elba e la

Sardegna, la Sicilia, la Corsica. Da qui venivano esportati lo zolfo e il vino bianco dell’Elba, uno dei generi più importanti per il commercio pisano con la Sardegna, sottoposto ad una gabella periodicamente appaltata; mentre veniva importato bestiame da Pomonte nell’isola d’Elba restando inoltre Piombino uno degli scali più importanti per l’importazione del grano ed il punto obbligato per gli approvvigionamenti cerealicoli delle miniere elbane» TOGNARINI – BUCCI,

Piombino Città e Stato dell’Italia Moderna nella Storia e nell’arte - Storia e cultura, Piombino, Acciaierie di Piombino, 1978 p. 58

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funzione di giudice pupillare36 (figura che sarà poi investita di una particolare rilevanza politica e sociale nel corso del XVI sec). Tale capitano doveva essere «sapiens et discreta persona, dives et antiquus

cives, ipse et eius antecessores»37.

Nonostante la subordinazione politica ed economica a Pisa, già in questi secoli Piombino propendeva verso un ruolo di spicco che la differenziava dai territori limitrofi: essa era considerata dalla dominante il capoluogo amministrativo, giudiziario e politico dell'area costiera che andava, a grandi linee, da Donoratico a Castiglion della Pescaia. A testimoniarlo, la funzione del giudice di Piombino come giudice d'appello rispetto agli altri magistrati del contado, ma anche e soprattutto l'autonomia normativa: già dal 1305, infatti, la città si dota di propri Statuti (seppur modellati su quelli pisani), composti da saggi nominati dagli Anziani, che disciplinavano le relazioni sociali e giuridiche afferenti al Comune e che nei secoli successivi sarebbero divenuti simbolo della libertà politica e culturale dei Piombinesi38.

2.3 La nascita di uno Stato autonomo

Nel 1399 Gherardo Leonardo d'Appiano cedette Pisa ai Visconti di Milano, riservandosi il dominio sul territorio di Piombino e i Castelli del vicinato: Piombino, Scarlino, Buriano, Suvereto, Vignale, Populonia, Isola d'Elba, Pianosa e Montecristo39. Il Signore si preoccupò sin da subito di incontrare il consenso della popolazione ed in particolar modo dell'oligarchia comunale, agendo su vari fronti: innanzitutto, sul fronte interno, attraverso concessioni e privilegi per le

36R.D

EL GRATTA, Giovan Battista de Luca e gli Statuti di Piombino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, p. 54

37T

OGNARINI – BUCCI, Piombino Città e Stato dell’Italia Moderna nella Storia e

nell’arte, cit., pp. 26 ss. 38 R.D

EL GRATTA, Giovan Battista de Luca e gli Statuti di Piombino, cit., pp. 55 ss.

39A.C

ESARETTI, Istoria del Principato di Piombino e Osservazioni intorno ai diritti

della Corona di Toscana sopra i Castelli di Valle e Montioni, Arnaldo Forni

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comunità della Signoria, che riguardavano sia diritti civili e politici che agevolazioni sul piano fiscale e finanziario; ma anche stipulando accordi con le famiglie di armatori e ricchi mercanti piombinesi che, pur non essendosi costituiti in corporazioni, rappresentavano un'ampia parte dell'economia del territorio. In secondo luogo, sia l'Appiano che la moglie Paola Colonna (sorella del futuro pontefice Martino V) si preoccuparono di rafforzare l'autonomia e la prosperità dello Stato attraverso accordi commerciali con altre potenze: da una parte l'accomandigia con Firenze, che conservò a Piombino l'esazione dell'ancoraggio e della gabella e consentì lo sviluppo del porto, dall'altra l'intesa diplomatica con il bey di Tunisi, mossa che dette nuovo impulso ai commerci piombinesi verso l'Africa40.

I privilegi e le prerogative del Comune andarono stabilizzandosi per tutto il corso del XV sec., al punto che dovevano essere dettagliatamente sottoscritti nell'ambito del giuramento che il Signore, all'atto dell'insediamento, era chiamato a prestare alla comunità: emblematico quello di Emanuele Appiani, del 1451, che garantì alle istituzioni comunali indipendenza ed autonomia nella gestione delle questioni fiscali, giudiziarie, amministrative41. Il suo successore Jacopo III Appiani emanò diversi provvedimenti a favore dell'agricoltura e a sostegno delle arti42, stipulò un'accomandigia con il Re di Napoli e una pace con il Bey di Tunisi e portò a termine un accordo con la comunità di Porto Bonifacio in Corsica43. Sul piano legislativo, durante questo secolo Piombino vide stabilizzarsi il ruolo simbolico di garanzia di libertà ricoperto dagli Statuti, su cui nessuno mise più mano, mentre i Brevi, che nelle epoche precedenti si erano

40

TOGNARINI – BUCCI, Piombino Città e Stato dell’Italia Moderna nella Storia e

nell’arte, cit., pp. 72-73 41A.C

ESARETTI, Istoria del Principato di Piombino, cit., parte seconda, pp. 19-25

42Per approfondimenti sul profilo storico e politico di Jacopo III e sul suo

mecenatismo, v. PATRIZIA MELI, Un giovane signore e le potenze italiane: Jacopo

III Appiani, in «Piombino storia di un principato. Atti dei convegni dedicati alle

dinastie dello Stato di Piombino», pp. 49 ss.; v. anche TOGNARINI – BUCCI,

Piombino Città e Stato dell’Italia Moderna nella Storia e nell’arte, cit., p. 99 43

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caratterizzati come regolamenti del comportamento politico ed amministrativo degli ufficiali, dovendo essere rivisti ed aggiornati periodicamente ed approvati dal Signore, acquisirono il valore di accordi politici tra gli Appiani e l'oligarchia cittadina44.

2.4 L'occupazione del Valentino e l'infeudamento di Piombino

Durante il biennio 1501-1503 il territorio venne conquistato e occupato dal Valentino: il suo impatto su Piombino fu minimo, almeno sotto il profilo dell'autonomia della città, in quanto risulta che gli stessi privilegi contenuti nel giuramento di Emanuele Appiani furono riconfermati ed anzi ampliati nelle condizioni sottoscritte per la sottomissione della popolazione al Borgia45.

Una volta rientrato in possesso di Piombino Jacopo IV Appiani chiese all’Imperatore di porre sotto la protezione del Sacro Romano Impero tutte le terre su cui la sua famiglia aveva governato per oltre un secolo. Il diploma di Massimiliamo I modificò il libero ordinamento Piombinese in feudo nobile imperiale nel 1509, conservando alcuni importanti privilegi: coniare monete d'oro e d'argento e creare, per tutto l'Impero, cavalieri armati, militari, dottori in diritto e in arti liberali46. Jacopo IV, contestualmente, donò ai piombinesi il diritto d'ancoraggio e concesse che le Potesterie e i Notariati dello Stato fossero ricoperti da cittadini piombinesi; risolse inoltre alcuni conflitti intercorsi con i

44

Purtroppo gli unici Brevi che sono pervenuti sino ai giorni nostri risalgono rispettivamente al 1569 e al 1568: di quelli precedenti abbiamo solo sporadiche tracce nelle opere degli storici. Tuttavia, leggendo i Libri dei Consigli conservati nell’Archivio Storico del Comune di Piombino, è possibile recuperare alcune informazioni: ad esempio, in data 1-2 luglio 1553, il Consiglio incaricò quattro uomini di correggere il Breve ed in tale sede si intuisce che la revisione, che avrebbe dovuto avvenire ogni cinque anni, era slittata a causa dell'occupazione spagnola. A.S.C.P., Comune di Piombino, Libri dei Consigli, vol. 26, c. 37v; v. anche infra, Appendice, n. 1, Documento 7

45

TOGNARINI – BUCCI, Piombino Città e Stato dell’Italia Moderna nella Storia e

nell’arte, cit., p. 75 46E

NRICO PETRUCCIANI, Sulle orme degli Appiani: immagini di una dinastia tra Pisa,

Piombino e Piacenza, in «Piombino storia di un principato. Atti dei convegni

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comuni limitrofi stipulando un contratto che prevedeva reciproche franchigie47. L'investitura venne successivamente confermata nel 1520 dall'imperatore Carlo V, dichiarando lo Stato di Piombino «Feudo

nobile e libero, investendone Esso (Jacopo V), e suoi successori facoltà di poter battere, e improntare moneta così d'oro, come d'argento: che potesse crear Notari, Cancellieri, e Giudici Ordinari, e che potessero esercitare il loro ufizio anche per tutto il Romano Impero: gli diede la facoltà di poter legittimare qualunque spurio, e naturale, ed ancora nati di coito incestuoso, a riserva de' figli bastardi de' Nobili, Principi, Conti, e Baroni, e quelli della legittimazione de' quali non ne fossero contenti i figli legittimi, e naturali degli stessi genitori. In oltre gli diede la facoltà di poter insignire Cavalieri armati, creare Dottori di Legge e di Medicina, e di porre sopra la sua arma l'Aquila Imperiale.48»

Le conseguenze sull'autonomia delle istituzioni del comune furono irrilevanti, si ebbe semmai una progressiva complicazione del rapporto tra Signore e rappresentanti della Comunità, l'oligarchia cittadina: il primo, forte della legittimazione imperiale, sempre più tentato da ambizioni autoritarie; i secondi, vigili guardiani dei privilegi, diritti ed immunità goduti dalla popolazione da decenni.

2.5 Le mire di Cosimo de' Medici sullo Stato di Piombino e la reggenza di Elena Salviati

Sul finire degli anni ’30 del XVI secolo si verificò un’intensificazione dell’attività piratesca al largo della costa piombinese: con il pretesto della necessità di tutelare maggiormente le popolazioni del litorale dalle incursioni, Cosimo de’ Medici, che già da tempo guardava con attenzione a quel territorio a causa della vicinanza con l’Elba e le sue miniere di ferro e le innumerevoli opportunità

47

A.CESARETTI, Istoria del Principato di Piombino, cit., parte seconda, p. 94

48

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legate ad un razionale sfruttamento delle stesse, iniziò a premere sull’imperatore Carlo V affinché sottraesse il feudo di Piombino agli Appiani, famiglia dotata di scarse possibilità economiche, e lo concedesse ai Medici per poter attuare una più efficace strategia difensiva. Jacopo V, pur costretto ad accettare aiuti economici e militari dal Ducato attraverso una serie di accordi con l'Imperatore e il Duca per il rinforzo delle fortificazioni costiere49, riuscì a mantenere il dominio su Piombino fino alla sua morte, avvenuta il 20 ottobre 1545, quando gli succedette il giovanissimo figlio, Jacopo VI, di circa sei anni. La Comunità gli giurò fedeltà, ma tale cerimonia conservava rilevanza ormai solo dal punto di vista politico, in quanto a seguito dell’infeudazione essa aveva perso ogni significato giuridico e istituzionale.

Nel testamento di Jacopo V si prevedeva che il suo giovanissimo successore avrebbe dovuto essere soggetto ad un consiglio di tutori, che avrebbero retto lo Stato fino alla sua maggiore età: l'imperatore e re di Spagna Carlo V d'Asburgo, il governatore spagnolo di Milano Alfonso d'Avalos marchese del Vasto, l'ambasciatore imperiale a Roma Juan de Vega, il Cardinal Salviati fratello della moglie di Jacopo V e madre di Jacopo VI, Elena Salviati, anch'essa nominata tutrice, e il rappresentante dell'imperatore a Piombino, Bustamante de Herrera. Anche se ciò non è sicuro, probabilmente furono nominati anche Pietro Calefati, giurista piombinese50, e Bartolomeo Buoninsegni, il medico che aveva in cura

49A.C

ESARETTI, Istoria del Principato di Piombino, cit., parte seconda, p. 114

50

«Pietro Calefati nacque a Piombino il 13 luglio 1499 da Niccolò e da Elettra Lupi, in un'antica famiglia che aveva abbandonato Pisa dopo la conquista fiorentina del 1406. […] Nel 1514 il C. fu inviato a Siena dal padre per studiar leggi, ma di qui passava poi a Pisa già l'anno seguente, quando vi fu riaperto lo Studio. […] Coinvolto probabilmente in una delle risse che agitavano la vita universitaria, ma che a Pisa si coloravano anche di profondi motivi politici e culturali, il C. fu costretto ben presto a tornare a Siena e a mantenervi un atteggiamento più prudente. A Siena […], dopo "fatiche di tre anni incredibili", si avviava a conseguire la laurea, quando il sopraggiungere della peste lo costrinse di nuovo a trasferirsi a Pisa. [...] Nell'aprile del 1525, infine, conseguì il dottorato. […] Accettò allora l’incarico di sindaco e giudice delle Appellazioni e della Mercanzia a Lucca, dove era stato eletto con una

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Jacopo51. A tale testamento, Donna Salviati fece aggiungere un codicillo grazie al quale, insieme ad altri due o tre dei tutori, sarebbe stata autorizzata a prendere qualunque decisione in ordine alla gestione dello Stato52.

Il fatto che Jacopo V fosse morto lasciando un erede bambino creò le condizioni perfette perché Cosimo intensificasse le sue pretese: non si poteva lasciare un territorio così strategico, oltretutto vessato dalle incursioni piratesche, in mano ad un infante. Già dal 1545 una guarnigione di soldati spagnoli occupò le fortezze piombinesi e soldati medicei vennero dispiegati lungo i confini.

Il destino del piccolo Stato di Piombino in questi anni fu affidato al gioco delle strategie politiche delle grandi potenze:

dispensa circa i requisiti richiesti dell'età superiore ai trentacinque anni e della laurea da almeno sei. […] Ritiratosi a Piombino, vi rimase tre anni, ricoprendo in tempi diversi la carica di podestà e di vicario generale del feudatario. Nell'anno 1530 accompagnò Iacopo V Appiani a Bologna per l'incoronazione di Carlo V e in quella occasione conobbe Cesare Pallavicino, nei feudi del quale esercitò le funzioni di luogotenente generale dal 1533 al 1535, quando ottenne di nuovo l'incarico a Lucca di sindaco e giudice delle Apponi e della Mercanzia. Scaduto l'ufficio, si trasferì a Pisa […] [e] a partire dal 1º luglio 1536, esercitò per due semestri a Siena la carica di giudice ordinario. Nel marzo 1537 ricevette dalla corte imperiale il riconoscimento dei titoli di conte palatino e concistoriano e di cavaliere aurato. Nel 1541 era di nuovo a Lucca, ma nello stesso anno gli giunse la nomina per la Rota senese, che l'inseriva in un tribunale autorevole su un piano non puramente locale […]. Ricopriva ancora l'ufficio, quando nel 1544 fu richiamato da Iacopo V per un'ambasceria a Carlo V, che era allora in Fiandra. Partì nell'ottobre dello stesso anno, e il Panziroli soggiunge che rimase due anni presso la corte imperiale, come precettore di Iacopo VI, ancora minore alla morte del padre. […] Il C. era entrato nel Consiglio di reggenza [di Jacopo VI, presieduto da Elena Salviati] fin dal '45, con posizione eminente, e nel giugno del '48 era poi fra gli ambasciatori inviati a Cosimo per prestargli obbedienza e chiedergli la conferma dei privilegi. Forse furono proprio questi incarichi di rilievo politico a consentirgli di ottenere finalmente la cattedra ambita. I rotuli pisani pubblicati dal Fabroni indicano il '46 come data d'inizio del suo insegnamento. […] Tuttavia egli non poté allora neppure iniziare i corsi. Tornato in Italia nel 1546, si trattenne a Piombino un anno, per svolgervi le sue funzioni nel Consiglio di reggenza, in attesa che Iacopo VI raggiungesse la maggiore età. Infine […] si trasferì a Pisa, dove ottenne un lettura ordinaria di diritto civile a partire dal '48 […]. Tenne la lettura principale mattutina fino alla morte, avvenuta nel 1586. » Per la biografia completa e la relativa bibliografia, cfr. ALDO MAZZACANE, Calefati,

Pietro, in Dizionario biografico degli italiani – Volume 16 (1973) 51

SIMONA FRASCIELLO, Elena Salviati e lo Stato di Piombino dal 1545 al 1548, in «Piombino storia di un principato, Atti dei convegni dedicati alle dinastie dello Stato di Piombino», passim

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A.S.C.P., Fondo Cardarelli, vol. LI, c. 53r; v. anche Archivio di Stato di Firenze, Archivio del Principato di Piombino, f.za 646, c. 113r

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nonostante la tempra di Donna Salviati, che difese fino all'ultimo la legittima successione del figlio, forze ben superiori alle sue possibilità la piegarono alla volontà del Duca, che riuscì ad ottenere nel 1546 l'investitura di Piombino, dell'Elba e di Pianosa in cambio di considerevoli aiuti finanziari e militari a Carlo V nella lotta contro i protestanti nei domini tedeschi. In quello stesso anno Carlo V inviò a Piombino come suo rappresentante Don Diego Hurtado di Mendoza, per fare pressioni su Elena Salviati: le propose, in alternativa, di pagare tutti i debiti accumulati per la lotta contro i pirati o di permutare il suo feudo, ma ottenne solo una pervicace resistenza. Solo tre anni dopo, nel 1548, prevalentemente per ragioni economiche, ma anche politiche e militari, Carlo V dispose la consegna del feudo ai Medici dietro particolari garanzie: in particolare, Cosimo si obbligò a restituire il feudo all'imperatore non appena avesse recuperato tutti i crediti derivanti dalle notevoli spese effettuate per la fortificazione del territorio. Venne quindi insediato il nuovo governo, affidato a Girolamo degli Albizi, e contestualmente quattro ambasciatori vennero inviati dagli Anziani a Firenze per ratificare l'obbedienza ed ottenere il riconoscimento dei privilegi da Cosimo, attraverso l’ufficiale proclamazione dell’autonomia dell’ordinamento piombinese nei confronti del Ducato Toscano il conseguente riconoscimento di tutta la legislazione nonché l’impegno del Duca a farla rispettare e applicare dagli ufficiali operanti in Piombino, garantendo l’espletamento nel Distretto in cui si trovava la città anche dei processi di secondo grado53. Donna Salviati, con il figlio Jacopo, si recò in esilio a Genova. Tuttavia la vittoria di Cosimo fu precaria: nel giro di pochi mesi crebbe il malcontento tra i principali potentati d'Italia: non solo gli Appiani, ma anche Lucca e Siena, la Repubblica di Genova (preoccupata che Cosimo ottenesse uno sbocco sul Tirreno così vicino alla Corsica, su cui aveva il dominio) e altri signori italiani mal

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