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Note relative al secondo livello di esegesi 1 Note antiquarie

Il commento ai Fasti di Ovidio di Antonio Costanzi da Fano: i testimoni manoscritti e a stampa

3.4 Gli altri testimoni a stampa e la fortuna del commento fra XV e XIX secolo Il primo ad occuparsi della fortuna a stampa del commentario di Costanzi, fra XV e

4.2.4 Le diverse tipologie di notazion

4.2.4.2 Note relative al secondo livello di esegesi 1 Note antiquarie

Le notazioni antiquarie rinvenibili nel commento possono essere ripartite in note calendariali; archeologiche; relative ai mores, connessi alla sfera religiosa (ai culti, ai riti e alle superstizioni della religione classica) e all’apparato istituzionale e militare romano; storiche; geo-etnografiche.

Note calendariali

Per le note calendariali, l’esegeta, sulla traccia fornita dalla stesso Ovidio (Fast. 1,1: «Tempora cum causis Latium digesta per annum»), si sofferma sull’evoluzione del calendario romano e delle sue ripartizioni, tema già oggetto di particolare attenzione da parte dei precedenti esegeti in quanto materia fondante dell’opera548.

In queste notazioni Costanzi ha cura di fornire al lettore un quadro esaustivo dei problemi calendariali che di volta in volta il testo ovidiano gli pone: precisamente, in ciascuna nota l’esegeta si sofferma sull’etimologia della denominazione della ricorrenza oggetto d’attenzione, per poi occuparsi dei riti e/o le leggende a questa connessi549.

Nello scolio a Fast. 1,55 («Vindicat Ausonias Iunonis cura Kalendas»), l’umanista dopo aver ricordato che le Calende sono sacre a Giunone, si sofferma sull’etimologia del termine e sull’annuncio al popolo, in quella data, da parte del Pontifex Minor, del giorno del mese in cui sarebbero cadute le None. Segue la spiegazione, mutuata da Svetonio (Svet. Aug. 87), della proverbiale espressione «ad Kalendas Graecas».

Dictae autem Calendae a Graeco uerbo καλῶ, id est, uoco, pro quo nos calare dicimus [Macr. Sat. 1,15,10-11]. Varro: «Primi dies mensium nominati Calendae, ab eo quod iis diebus calentur eius mensis Nonae a pontificibus» [Varro ling. 6,27]. Olim enim, ut Macrobius docet, Pontifex Minor nouae lunae primum obseruabat aspectum, qua uisa, regi sacrificandum esse nunciabat. Posteaque, sacrificio celebrato, idem pontifex, calata, id est, uocata in Capitolium plebe iuxta curiam Calabram, quot dies a Calendis ad Nonas superessent pronunciabat [Macr.

Sat.1,15,9-13] […] Calendae apud Graecos nullae fuerunt. Vnde Augustus, teste Suetonio, cum

       548 Vd. § 1.1.2.

549 E note di questo tipo, come si è visto precedentemente, sembrano essere state il nucleo attorno il quale si sono sviluppate poi le prefazioni ai libri secondo e terzo del commentario. Vd. § 4.1.4. 

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aliquos nunquam soluturos significare uellet “ad Calendas Graecas soluturos” dicebat [Svet.

Aug. 87,1].

Simile schema è ravvisabile nella struttura delle note calendariali, relative ai Dies

Festi, Profesti e Intercisi (Fast. 1,47-49), ai Dies Comitiales (Fast. 1,53), ai Dies Nundinales (Fast. 1,54), alle Idi (Fast. 1,56), ai Dies atri (Fast. 1,57-58). E le stesse

informazioni e lo stesso schema di allestimento è impiegato per le note relative ai mesi: si veda ad esempio quella relativa al mese di Febbraio, nello scolio a Fast. 1,19, in cui, ad integrazione delle notizie fornite nella praefatio al secondo libro del commento550,

l’umanista si sofferma sulla natura e sulla funzione purificatrice del mese, sull’etimologia del nome, sui riti di purificazione che in esso si tengono e, in ultimo, sull’identificazione del Deus Februus.

Le notizie riferite da Costanzi, così come le fonti adoperate in questo tipo di notazioni, non differiscono in realtà dalla norma umanistica: uno sguardo ai commenti di Pomponio, Volsco e Marsi permette infatti di rilevare una certa uniformità, se non d’intenti e di organizzazione del materiale, almeno di contenuti. Gli auctores, le cui opere sono impiegate con sistemacità, da Costanzi (così come dagli altri esegeti umanistici) per l’allestimento di queste notazioni sono: Festo, Varrone, Gellio, Macrobio, Solino e, soprattutto, le Quaestiones Romanae di Plutarco551. Da porre in rilievo, inoltre, è la presa

di distanza dalla prassi medievale, laddove, nelle scarne note sul tema, spesso è evidente il debito degli esegeti nei confronti degli autori medievali, Beda con il De temporum

ratione, e i lessicografi Papias e Uguccione552.

In definitiva, ciò che salta agli occhi nel commentaro di Costanzi, relativamente alle notazioni di argomento calendariale, è da un lato l’esaustività e coerenza delle informazioni, dall’altro, per quanto concerne le fonti, il rifiuto della mediazione medievale.

Note archeologiche

Un saggio significativo dell’ottica con la quale l’umanista intende accostarsi alle vestigia dell’antica Roma ci viene dalla lettura del già menzionato passo della lettera dedicatoria a Federico di Montefeltro: in esso Fasti sono presentati come una sorta di museo virtuale della Roma del tempo che fu, quella stessa Roma che quelli che       

550Vd. § 4.1.4.

551 Sulle fonti delle notazioni calendariali vd. anche Fritsen 2015, p. 47. 552 Vd. § 1.1.2.

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l’umanista chiama, ancora genericamente, scrupolosi «exploratores» tentano di far rivivere attraverso l’identificazione dei ruderi di «templa magnificentissima et aedificia»553.

Come rileva già Fritsen, il concetto che Costanzi esprime nella prefatoria è, in realtà, un luogo comune degli scritti umanistici di antiquaria: le rovine, benché non siano altro che una frazione del tutto, permettono di far luce sull’originale554. Tuttavia, nelle parole

di Costanzi, le rovine sono integrate, nella loro parte mancante, non soltanto attraverso il ricorso all’immaginazione dell’osservatore, ma anche grazie ai versi del poeta, Ovidio. E questo procedimento di ricostruzione virtuale risulta ancora più significatvo per un out-

sider come Costanzi, che, come sembra, era stato a Roma pochissime volte e per brevi

periodi555.

Quanto ai soggiorni romani di Costanzi e alle sue visite alla città, alcuni esigui riferimenti rinvenibili nel commentario – squarci presenti sulla realtà contemporanea e sullo stato in cui versavano i monumenti menzionati da Ovidio – permettono di farsi un’idea sull’effettiva conoscenza della Roma monumentale da parte dell’umanista. L’analisi di tali riferimenti si fa breve per l’esiguità degli stessi: soltanto tre su circa una trentina di notazioni archeologiche presenti nel commento.

La prima, a proposito del commento a Fast. 1,245-246 («Arx mea collis erat, quem uulgo nomine nostro / Nuncupat haec aetas Ianiculumque uocat»), in cui oggetto dell’esposizione è il Gianicolo, fornisce, oltre ad un’erronea identificazione di un monumento, un significativo dato biografico dell’umanista556:

Ostensum enim mihi est in Ianiculo huius dei [Ianus] sacellum, cum ad Vrbem me contulissem, orator missus a Senatu Fanensi, ad Sixtum iiii, Pontificem Maximum, ubi diligentissime perscrutatus sum quaecunquae antiquitatis monumenta cernuntur.

Costanzi spiega qui che nel corso della sua permanenza a Roma, in qualità di orator, ovvero di ambasciatore del Senato di Fano presso il pontefice Sisto IV, gli fu mostrato quello che lui riteneva fosse il sacellum di Giano e aggiunge che in quella circostanza ebbe modo di «perscrutare diligentissime» qualunque cosa gli venisse segnalata quale «antiquitatis monumentum». Il tempietto che l’umanista ritiene erroneamente dedicato a Giano (in questo influenzato dall’etimo del toponimo), di fatto mai esistito sul Gianicolo,       

553 Vd. § 4.1.2.

554 Cf. Fritsen 2015, p. 103. 555 Vd. § 2.3.

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sarà stato confuso dall’umanista con le rovine di qualcun altro degli edifici sacri presenti in quel luogo all’epoca: quelle del tempio di Furrina o del santuario di Iside557. Circa il

suo soggiorno romano, con una buona dose di certezza, si potrà ipotizzare che qui l’umanista si stia riferendo alla sua permanenza nell’Urbe del 1474. In quella occasione fu, infatti, inviato quale ambasciatore presso il pontefice dal Consiglio dei Venticinque della sua città, al fine di perorarne l’autonomia. Le altre due ipotesi, i soggiorni del 1468 e del 1471, nell’ultimo dei quali Costanzi giunse a Roma sempre in qualità di ambasciatore del Comune presso il Collegio dei cardinali riuniti per scegliere il successore di Paolo II, sono da escludere, in quanto in quelle date Sisto IV non era ancora salito al soglio pontificio558.

Non identificabile invece il periodo al quale risale la passeggiata lungo la Via Sacra, che gli diede modo di ammirare le «ruinas ingentes», di quello che Costanzi, come tutti i suoi contemporanei, credeva fosse il Tempio della Pace vespasianeo e che era, invece, la Basilica di Costantino e Massenzio, all’estremità nord-est del colle della Velia: solo nel 1819 Antonio Nibby si rese conto dell’errore559. Lo squarcio biografico si ritrova a

proposito del commento a Fast. 1,709 («Ipsum nos carmen deduxit Pacis ad aram»):

[…] Postea uero diuus Vespasianus huic deae templum illud magnificentissimum dedit quo, ut inquit Iosephus, omnia collata sunt, quorum uisendorum studio antea per totum orbem homines uagabantur. Eius ego ruinas ingentes, cum essem Romae, iri Via Sacra uolui contemplari, unde auelli non poteram, quamuis grauissimis negociis impeditus cum expleri mentem nequirem exardesceremque tuendo tantum licuisse fortunae ut tantae rei nobis spectaculum subtraxisset.

Passando all’analisi delle note propriamente archeologiche e volendo individuare le varie componenti di cui consta lo schema di ciascuna nota, sia essa relativa ad un monumento o ad un luogo, si potranno menzionare i seguenti punti: data o periodo di fondazione (nel caso di edifici sacri, si dà notizia anche della data di consacrazione della costruzione); fondatore; cursoria descrizione del monumento, su base bibliografica (questo punto si rinviene molto raramente); ubicazione, fornita, nella quasi totalità dei

       557 Cf. Steinby 1996, pp. 89-95.

558 Vd. § 2.3. Diversamente, Fritsen (Fritsen 2015, p. 115) colloca nel 1471 questo soggiorno romano di Costanzi.

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casi, sulla base di coordinate topografiche della Roma antica560; etimologia della

denominazione; storia e relativi aneddoti.

Si prenda, ad esempio, lo scolio a Fast. 1,581 («Constituique sibi quae Maxima dicitur aram») – il primo dei versi della sezione Fast. 1,579-583 che l’umanista sceglie di commentare. Il contesto della narrazione è quello della vicenda mitica di Ercole e Caco,

àition della costruzione dell’Ara Maxima (Fast. 1,543-586): Ercole, uscito vittorioso

dallo scontro con Caco, immola a Giove uno dei tori che gli erano stati sottratti dal mostro, innalza nel Foro Boario l’Ara Maxima, consacrandola a se stesso, e dà l’avvio ai riti sacri in suo onore561.

Il commento al verso 581 si articola in 5 nuclei tematici, che nell’insieme forniscono al lettore un’esauriente trattazione dei santuari e dei riti del culto erculeo a Roma: preliminare distinzione dell’Ara Iovis Inventoris dall’Ara Maxima; l’Ara Maxima: fondazione, ubicazione, etimologia del nome; Ara, Templa, Consaeptum: tre differenti tipologie di santuari erculei; i due templi consacrati ad Hercules Victor; il culto di Ercole a Roma.

Una particolare attenzione è riservata, nella terza sezione dello scolio, alla terminologia architettonico-cultuale: l’esegeta mette in guardia il lettore affinché non si lasci trarre in errore da coloro che affermano che l’Ara Maxima sia un tempio, e non un altare votivo, fondato dall’eroe clavato nel Foro Boario e Solino (Solin. 1,10-11) immediatamente dopo viene addotto come testimone di un’ulteriore distinzione, quella fra Ara Maxima e consaeptum, cioè lo spazio recintato consacrato alla divinità e munito di altare562.

Cauendum autem ne quidam nos in errorem inducant qui tradiderunt Herculem sibi aedificasse templum in Foro Boario idque Aram Maximam appellasse, quod falsum est […]

Una volta distinte le arae dai templa e dai consaepta e dopo aver dato notizia dei due templi che nell’antichità erano consacrati ad Hercules Victor, quello del Foro Boario e quello sito accanto alla Porta Trigemina, l’umanista passa a trattare i riti in onore di       

560 Vd. infra.

561 Fast. 1,579-583: «Immolat ex illis taurum tibi, Iuppiter, unum / Victor et Euandrum ruricolasque uocat, / Constituitque sibi, quae Maxima dicitur, aram, / Hic ubi pars Vrbis de boue nomen habet. / Nec tacet Euandri mater prope tempus adesse / Hercule quo tellus sit satis usa suo».

562 Una traccia di questa consuetudine lessicale si trova negli Excerpta a Pomponio dum inter ambulandum cuidam domino ultramontano reliquias ac ruinas Urbis ostenderet. In esso per la designazione dell’Ara Maxima è impiegato proprio il termine templum. Cf. Valentini-Zucchetti 1946 p. 435: «Non longe ab hoc templo [l’Aedes Aemiliana Herculis], uersus Auentinum montem, fuit alterum templum appellatum Ara Maxima».

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Ercole. L’eroe, sulla scorta di Livio (Liv. 1,7,4-15), qui fonte taciuta, è riconosciuto quale prima divinità straniera ad essere introdotta a Roma e la costituzione dell’ara, come già accennato all’inizio dello scolio, è attribuita ad Ercole stesso o, secondo un’altra tradizione, al re arcade Evandro: in ogni caso, essa è da collocare, per Costanzi, in una fase anteriore all’avvento di Enea563.

Manca del tutto, per forza di cose, in questa pur esaustiva trattazione dei santuari erculei il riferimento alla contemporanea realtà monumentale, che costituisce invece il tratto peculiare della notazione di Marsi564.

Gli umanisti con interessi antiquari della generazione di Marsi e ancora prima quelli della precedente generazione non possono essere considerati archeologi: essi non prendevano parte agli scavi, ma si limitavano ad osservare con occhio attento la realtà circostante e ad entusiasmarsi per le fortuite scoperte archeologiche nelle quali s’imbattevano e che avevano cura di segnalare e registrare nelle loro opere (preservandole così dall’oblio del tempo)565. E, d’altra parte, questo atteggiamento non

sembra dissimile da quello di Costanzi, quando trascrive le iscrizioni dell’arco di Augusto a Fano: l’umanista, avendo la possibilità di esaminare da vicino le vestigia dell’antichità, non esita a farlo e a riportarne i risultati nel suo commentario566.

Un ulteriore punto di divergenza fra l’esposizione della materia archeologica da parte degli esegeti pomponiani e di Costanzi si rinviene nell’impiego di un diverso tipo indicazioni relative all’ubicazioni dei luoghi o dei monumenti. I primi, sulla scorta di Biondo Flavio, assumono quale moderno punto di riferimento le numerose chiese che popolavano il tessuto topografico dell’Urbe e che loro stessi avevano modo di vedere da vicino e quotidianamente567, Costanzi, come si è anticipato, fornisce nel suo commento

quasi esclusivamente coordinate topografiche della Roma antica568. Gli unici casi in cui i

riferimenti topografici sono costituiti da costruzioni contemporanee si ritrovano nel commento a Fast. 1,290, a proposito dell’ubicazione dei templi di Giove ed Esculapio e in quello a Fast. 2,392, a proposito delle vestigia del Circo Massimo e del Circus

Neronis, in Vaticano.

Romani Calendis Ianuariis duo templa alterum Iouis, alterum Aesculapii sacrauerunt in insula Tyberina, quam hodie duo pontes iungunt hic Vrbi, ille Ianiculo.

      

563 Sulla trattazione dei culti erculei vd. infra. 564 Vd. § 1.2.2.1. 

565 Cf. Fritsen 2015, p. 131. 566 Vd. § 3.1.

567 Vd. § 1.2.2.1.

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Sane Circi Maximi uestigia hodie inter Palatinum montem et Auentinum conspiciunt […] Sed fuit et Neronis Circus in Vaticano.

Questo sguardo d’insieme sulle note archeologiche di Costanzi non può prescindere da ciò che ne costituisce il fondamento, le fonti. Su tutte giganteggia quella che è anche il principale serbatoio di notizie storico ed archeologiche dei Fasti ovidiani: Livio. Le notizie tratte dall’opera dello storico patavino sono da Costanzi copiosamente impiegate, in particolare per ciò che riguarda la storia dei monumenti e dei luoghi e per gli aneddoti ad essa correlati. La parola liviana, per la storia e per l’archeologia, è spesso preferita a quella di eventuali altri testimoni relativamente ad un dato argomento: non infrequenti, pertanto, si rinvengono frasi del tipo «nobis placet Liuium sequi», prima o dopo l’indicazione anche di altre fonti sul tema. Si prenda, ad esempio, il commento a Fast. 4,347 («Nasica accepit. Templi non perstitit auctor»), laddove a proposito della dedica del tempio della Magna Mater, l’umanista antepone la testimonianza liviana a quella dell’ignoto autore del De viris illustribus:

«Accaepit» legendum est non «Incaepit», ut quidam uolunt, qui existimant uotam fuisse hanc aedem a Scipione Nasica, quod alienum est ab historia Liuii [Liv. 29,11,6; 29,14,6], qui scribit Nasicam, in saluum naue euectum, deam a sacerdotibus accaepisse […] Quare non placet quod in opusculo uirorum illustrium legimus, ubi eius libelli autor, quicunque fuerit (neque enim est Plinius, ut multi putant), scribit templum hoc incaepisse Nasicam.

Per la constitutio della storia dei templa e degli aedificia il Fanese ricorre spesso anche alle Vitae plutarchee, ad informazioni desunte dal primo libro dei Saturnalia di Macrobio e alle Antiquitates di Dionigi di Alicarnasso, e meno frequentemente a Solino, al De vita Caesarum di Svetonio, agli Annales di Tacito, al Bellum Iudaicum di Giuseppe Flavio, ad Appiano e Valerio Massimo.

Dal De lingua latina di Varrone l’umanista trae, nella maggioranza dei casi, notizie riguardanti l’etimologia della denominazione dei monumenti o dei luoghi e la stessa funzione di collettori di informazioni etimologiche da cui attingere svolgono per Costanzi Festo e, talvolta, Macrobio.

Plinio, in questo contesto, è invece generalmente impiegato per imbastire le rarissime e scarne notulae relative alla descrizione fisica dei monumenti. Si veda, ad esempio, lo

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scolio a Fast. 1,582 («Hic ubi pars Vrbis de boue nomen habet»), dove l’umanista riprende nat. 34,10 a proposito del simulacro bronzeo del bue sito nel Foro Boario:

[…] Id simulachrum fuit ex aere Aeginetico, licet constet Aeginam aes non gignere, ut inquit Plinius [Plin. nat. 34,10], sed ea insula temperatura officinarum ita nobilitata est, ut bos aereus inde captus in Foro Boario fuerit qui, ut idem tradit, Aeginetici aeris exemplum fuit.

Servio, come di consueto, è impiegato nei contesti più disparati, come supporto argomentativo delle diverse tematiche appena elencate.

Volendo a questo punto riassumere i risultati dell’analisi così condotta, si potrà concludere che Costanzi non può rientrare, per ragioni geografiche, nel novero degli

exploratores alla ricerca dei resti della Roma antica: questa definizione si attaglia

piuttosto a Leto e ai suoi sodales, che convivono quotidianamente con l’antico, nell’antico, a cui è possibile conoscerlo non soltanto attraverso lo spoglio e il vaglio delle fonti, ma anche ricorrendo all’autopsia, all’analisi delle rovine. Nella maggioranza dei casi l’umanista fanese dipana con dovizia le numerose questioni archeologiche che il complesso testo dei Fasti offre al lettore, compulsando le fonti antiche relative a templi, archi, anfiteatri dell’antica Urbe, ma quando ne ha modo, tiene conto anche dell’evidentia archeologica, accostando al dato bibliografico quello concreto, talvolta con un equilibrio e una coerenza maggiore rispetto agli entusiasti cercatori di rovine pomponiani.

Notazioni relative al culto, ai mores e all’apparato istituzionale e militare

Quanto ai riti e alle superstizioni, essi possono costituire una sezione di una più ampia nota o essere oggetto esclusivo dell’attenzione del commentatore, che più volte nel commentario si sofferma su questa o quella particolare pratica rituale o magica.

Ritornando sullo scolio a Fast. 1,581, esemplificativo del modo di accostarsi al dato cultuale è la trattazione da parte dell’umanista dei culti erculei. Ercole, come si è visto precedentemente, sulla scorta di Livio, è riconosciuto quale prima divinità straniera ad essere introdotta a Roma e la costituzione dell’ara è attribuita ad Ercole stesso o, secondo un’altra tradizione, al re arcade Evandro: in ogni caso, essa è da collocare, per Costanzi, in una fase anteriore all’avvento di Enea569. Ciò è dimostrato dalla presenza nel culto

erculeo di alcuni elementi di matrice greca, fra cui il lettisternio e, soprattutto, l’usanza di

       569 Vd. supra.

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partecipare al sacrificio a capo non velato, costume che decadde con l’introduzione da parte dell’eroe troiano dell’obbligo di velarsi il capo durante i riti sacri:

[…] apud quam [l’Ara Maxima] nec lectisternium fiebat nec sacrificabatur nisi aperto capite, quem morem Varro Graecum esse ait; ideoque id fieri C. Bassus memoriae prodidit, teste Macrobio [Macr. Sat. 3,6,16-17], quod Ara Maxima ante aduentum Aeneae in Italiam constituta est, qui uelandi capitis ritum inuenit.

Conclude la sezione la curiosa notizia dell’esclusione delle donne dalla liturgia, con annesso áition mitologico (Macr. Sat. 1,12,28; Plut. Mor. 278 E-F) e quella dell'offerta all’eroe divinizzato della decima dei beni posseduti (Diod. Sic. 4,21,4).

Nell’analisi del dato cultuale è evidente il tentativo di approccio critico: Costanzi tenta infatti di individuare, sia sul piano cronologico che geo-etnografico, l’origine del culto, di scomporlo nei suoi vari riti, arrivando anche a coglierli nella loro evoluzione – è il caso dell’alloro che «multo post Romam conditam» soppianta il pioppo nei riti in onore di Ercole570 e scegliendo di riportare in maniera stringata la vicenda mitica áition del

rito.

Un ulteriore esempio si rinviene a proposito del commento a Fast. 2,571-580571: i sei

scolii trattano della dea Muta e del rito di natura magica, più che religiosa a questa dedicato. Come per i culti erculei l’umanista si sofferma sull’origine del rito, sul suo

áition mitologico, sul simulacro e i luoghi di culto della dea, sui vari momenti e sul senso

della liturgia, in cui accanto a formule magiche era previsto l’impiego di incenso, di un fuso, di fave e sardine. La convinzione di Costanzi dell’inefficacia del rito e ulteriore prova del suo approccio razionale al lato mistico dell’antiquaria risulta evidente dall’apostrofe al lettore dello scolio a Fast. 1,575, in cui l’umanista, dopo aver brevemente spiegato il senso dell’uso del piombo e della testa di sardina così si rivolge al lettore:

Licia ad implicandas linguas, plumbum ad reprimendas adhibet. Tu, lector, a risu tempera.

      

570 Costanzi nel commento a Fast. 1,582 scrive: «Ibi etiam sacrificantes lauro coronabantur, quae