Daniela Tagliafico Università degli Studi di Torino
1. Introduzione
Uno degli aspetti caratteristici della finzione, che la distingue dalla sem- plice immaginazione, consiste nell’ancoraggio, ossia il fatto che nella finzio- ne non ci si limita semplicemente a immaginare un certo contenuto, ma tale contenuto viene proiettato su qualche aspetto del qui-e-ora (Leslie 1994, p. 216; Lillard 2001, p. 497). “Per esempio”, osserva lo psicologo Alan Leslie, “è di questa banana che la mamma fa finta sia un telefono, non delle banane in generale né di quella banana laggiù. La verità fittizia del contenuto ‘questo è un telefono’ è dunque ancorata a un particolare oggetto nel qui-e-ora” (Le- slie 1994, p. 216, traduz. mia).
Leslie ha cercato di spiegare l’ancoraggio e, più in generale, la nostra ca- pacità di fingere e di comprendere la finzione altrui introducendo una specia- le architettura della mente, che presuppone essenzialmente due capacità. La prima è una capacità di “disconnettere” le proprie rappresentazioni mentali dalle loro tipiche relazioni di input e output al fine di evitare ciò che Leslie chiama abuso rappresentazionale (representational abuse). La seconda con- siste nell’inserire queste rappresentazioni “disconnesse” in rappresentazioni più complesse, che Leslie definisce M-rappresentazioni. In ciò che segue vorrei mostrare che l’architettura mentale suggerita da Leslie – e in particola- re l’idea che le nostre rappresentazioni mentali possano essere davvero di-
sconnesse dai loro input e output – ha conseguenze implausibili dal punto di vista cognitivo, poiché implica il fatto che il soggetto sia capace di interveni- re sui propri concetti e sul proprio linguaggio, modificandone il riferimento. Questo problema, a mio avviso, deriva dal fatto che Leslie concepisce l’àncora – l’oggetto reale su cui il contenuto immaginativo è proiettato – co- me un oggetto che fa parte del contesto finzionale. Al contrario, sosterrò, l’oggetto reale – con le sue proprietà – non entra mai nel contesto finzionale, ma svolge piuttosto una funzione di segnaposto per un certo oggetto mera- mente immaginato, ossia indica la porzione di spazio egocentrico in cui l’oggetto immaginato dovrebbe essere collocato.
2. Il problema dell’abuso rappresentazionale
Come ho anticipato, la finzione comporta, secondo Leslie, un rischio di abuso rappresentazionale (1987, p. 415). Infatti, dal momento che nella fin- zione una certa rappresentazione mentale – ad esempio la rappresentazione “telefono” – viene utilizzata per riferirsi a una banana, essa sembra acquisire un nuovo riferimento oltre a quello usuale. Questo, osserva Leslie, potrebbe costituire un problema, soprattutto per un bambino di pochi anni, che sta an- cora imparando il significato delle parole e che potrebbe essere dunque molto confuso sul significato di un termine come “telefono”. Poiché questa confu- sione non si manifesta, tuttavia, Leslie suppone che la capacità di fingere pre- supponga una capacità di “disconnettere” (decouple) le proprie rappresenta- zioni dalle loro normali relazioni di input e output – le relazioni che una rap- presentazione intrattiene, ad esempio, con gli input percettivi e gli output di tipo comportamentale – e di utilizzarle per riferirsi a oggetti diversi. In altre parole, nella finzione una rappresentazione come “telefono” sarebbe discon- nessa dai suoi normali input e output (ad esempio la percezione visiva di un telefono) e sarebbe “marcata” in un modo speciale, in modo da potere tenerla separata (quarantined) dalle rappresentazioni di stati di cose attuali.
Ciò vale per Leslie tanto sul piano delle rappresentazioni mentali quanto sul piano delle rappresentazioni pubbliche (linguistiche). In altre parole, il contesto di finzione produce ciò che Quine (1961) chiamava opacità referen- ziale: le parole – e i simboli mentali ad esse corrispondenti – vengono “stac- cate” dai loro tipici riferimenti e sono utilizzate per fare riferimento a diversi oggetti e proprietà.
In quel che segue vorrei mostrare che questa operazione di “disconnes- sione” (decoupling) delle rappresentazioni dai loro normali input e output è implausibile dal punto di vista cognitivo, non soltanto perché presuppone che il soggetto sia in grado di assegnare volontariamente e arbitrariamente un
nuovo significato alle proprie rappresentazioni mentali (modificandone dun- que il contenuto non derivato), ma anche perché, come vedremo nel prossimo paragrafo, i simboli che nella finzione vengono dotati di un nuovo riferimen- to non sembrano comportarsi come normali simboli mentali.
3. Problemi
L’ipotesi di Leslie circa l’abuso rappresentazionale e il meccanismo di decoupling comporta, vorrei sostenere, almeno due problemi fondamentali. In primo luogo il “nuovo” linguaggio, adottato durante la finzione, verrebbe ad avere caratteristiche diverse da quelle di qualunque linguaggio naturale, poiché i nomi comuni di tale linguaggio funzionerebbero piuttosto come no- mi propri. In secondo luogo, i termini di questo linguaggio non sembrerebbe- ro essere inseriti in una normale rete inferenziale, come accade invece per i termini di un linguaggio naturale, poiché determinate modificazioni dell’oggetto cui un certo termine si riferisce non comporterebbero l’attivazione delle inferenze appropriate.
Si consideri innanzitutto la seguente situazione. Supponiamo che in una stanza ci siano tre banane e che tutte e tre le banane siano utilizzate all’interno di un gioco di finzione, ma mentre una è utilizzata come telefono, le altre due sono utilizzate come banane. In altre parole, mentre nella situa- zione reale ci sono tre banane, in quella fittizia, immaginata dai soggetti che partecipano al gioco di finzione, ci sono due banane e un telefono. In questo caso non è chiaro perché la rappresentazione mentale “telefono”, che è stata separata dai suoi normali input e output, dovrebbe riferirsi soltanto a una del- le banane, ma non alle altre. Se essa avesse davvero perso il vecchio riferi- mento e ne avesse acquistato uno nuovo, allora tutte e tre le banane dovreb- bero poter costituire il riferimento del simbolo (mentale e linguistico) “tele- fono”. In questo senso potremmo anche dire che il simbolo “telefono” non funziona più come un nome comune, quanto piuttosto come un nome proprio. Si consideri ora una seconda situazione. Supponiamo che, anche in que- sto contesto, una banana sia utilizzata come telefono. Durante il gioco di fin- zione una scimmia arriva e morde la banana: ne dovremmo dedurre necessa- riamente che il telefono è stato morso, e che dunque adesso è rotto? In realtà il fatto che l’àncora – in questo caso la banana – subisca delle modificazioni non sembra avere delle conseguenze dirette nella finzione: in altre parole, i partecipanti al gioco possono decidere che un certo evento reale conti anche come un evento nel mondo della finzione – in questo caso dovranno aggiun- gere ai contenuti immaginati anche il fatto che “una scimmia ha morso il tele-
fono e l’ha rotto” – ma non sono costretti a farlo; possono anche decidere che all’oggetto fittizio, ancorato a quello reale, non è accaduto nulla.
Questo fatto sembra contraddire però l’idea che la rappresentazione “te- lefono” si riferisca davvero alla banana, poiché in questo caso ciò che accade al riferimento dovrebbe influire sulla rete inferenziale del simbolo mentale che si riferisce a quell’oggetto (in questo caso “telefono”). In altre parole, se il morso della scimmia rovina la banana, allora dovremmo dedurne che anche il telefono è stato rovinato e, conseguentemente dovremmo inferire che pro- babilmente il telefono non funziona più. Al contrario, ciò che questo esempio sembra mostrare è che ciò che avviene nel mondo attuale ha effetti diretti sul network inferenziale del simbolo mentale “banana”, ma non su quello del simbolo “telefono”.
4. L’àncora come segnaposto
Come ho accennato, il problema nella teoria di Leslie sembra derivare dal fatto che l’àncora è compresa nel contesto della finzione. In altre parole, l’oggetto reale è parte del mondo fittizio, esiste anche in quel mondo. Ciò co- stringe Leslie a sostenere che ci deve essere un cambiamento nel riferimento dei simboli mentali (e pubblici) del soggetto che finge, per poter evitare il problema dell’abuso rappresentazionale, ossia il fatto che uno stesso simbolo si possa riferire contemporaneamente a oggetti diversi (ad esempio una bana- na e un telefono).
Come abbiamo visto, tuttavia, ciò crea dei problemi, dal momento che la relazione tra il simbolo e il suo riferimento nella finzione sembra essere mol- to diversa dalla normale relazione che un simbolo intrattiene con il suo rife- rimento nella realtà. Innanzitutto il simbolo nel mondo della finzione sembra riferirsi a un unico oggetto e non a tutti gli individui appartenenti a una certa classe, comportandosi di fatto come un nome proprio. In secondo luogo, gli eventi che coinvolgono il riferimento non sembrano avere influenza sulla rete inferenziale nella quale il simbolo è inserito.
Quello che vorrei sostenere è dunque che l’errore sta proprio nel pensare che l’àncora faccia parte del mondo fittizio. Nella finzione non è vero che noi adottiamo un nuovo linguaggio – mentale e pubblico – i cui simboli hanno riferimenti diversi rispetto al mondo reale; piuttosto si deve dire che utiliz- ziamo il nostro linguaggio per far riferimento agli oggetti che stiamo imma- ginando, di cui gli oggetti reali sono dei meri segnaposto. In altre parole, quando nella finzione io uso il termine “telefono”, non intendo riferirmi alla banana, quanto piuttosto al telefono che sto immaginando, il quale occupa il posto attualmente occupato dalla banana. In questo senso l’oggetto reale – la
banana, nel caso appena preso in considerazione – non entra mai a far parte del mondo della finzione: esso semplicemente sta per il contenuto immagina- to, o meglio, aiuta a fissare lo spazio in cui il contenuto immaginato è collo- cato rispetto ai soggetti e agli oggetti coinvolti nella finzione.
Quando diciamo che il mondo fittizio è ancorato al mondo reale, ciò che vogliamo dire è che il mondo fittizio può differire dal mondo reale per qua- lunque aspetto – tutti gli oggetti e i soggetti del mondo fittizio possono essere diversi dagli oggetti e dai soggetti che popolano il mondo reale – e tuttavia i due mondi coincidono almeno per lo spazio nel quale essi possono essere percepiti o immaginati. Come già Kant notava, qualunque contenuto deve es- sere necessariamente percepito o immaginato in uno spazio e in un tempo (cfr. 1787: Estetica trascendentale). Ora, poiché nella finzione io non solo percepisco il mondo reale, ma al contempo ne immagino uno fittizio, ciò si- gnifica che gli spazi dei due mondi vengono a coincidere: ad esempio, se nel mondo reale il mio spazio egocentrico è occupato da un tavolo, nel mondo fittizio io posso immaginare che tale spazio sia occupato da un sofà, oppure da un tavolo con le stesse caratteristiche del tavolo reale, oppure ancora pos- so immaginare che quello spazio sia vuoto. Possiamo così dire che il tavolo del mondo reale è un segnaposto del sofà o del tavolo del mondo fittizio nel senso che esso è collocato in quella regione del mio spazio egocentrico che è occupata nel mondo reale dal tavolo. La nozione di ancoraggio può essere dunque reinterpretata proprio nei termini di questa sovrapposizione spaziale del mondo reale e del mondo fittizio, e della conseguente messa in corrispon- denza degli oggetti reali e fittizi che occupano questo spazio.
Bibliografia
Leslie, A.M. (1987) Pretense and representation: The origins of ‘theory of mind’. Psychological Review 94, pp. 412—426.
Leslie, A.M. (1994) Pretending and believing: issues in the theory of ToMM. Cogni- tion 50, pp. 211—238.
Lillard A.S. (2001) “Pretend play as Twin Earth: A social-cognitive analysis”, Devel- opmental Review, 21: 495-531
Quine, W.V.O. (1961) From a logical point of view. Cambridge, Harvard University Press.