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Le scienze cognitive al banco di prova della psicopatologia: il caso delle allucinazioni uditive

Valentina Cardella

Dip. di Scienze Cognitive, Università di Messina [email protected]

Negli ultimi anni si è assistito ad un moltiplicarsi di ricerche di stampo cognitivo che cercano di far luce sul fenomeno della malattia mentale. In questa occasione, per mostrare come un fenomeno tipico del disturbo mentale sia indagato con i mezzi delle scienze cognitive, prenderò come caso esem- plare quello delle allucinazioni uditive. Agli occhi di chi si occupa di psico- patologia del linguaggio questo sintomo appare doppiamente interessante: perché è un sintomo linguistico (in quanto le allucinazioni uditive, nella stra- grande maggioranza dei casi, si presentano sotto forma di voci), e perché ca- ratterizza in particolar modo la malattia mentale più costitutivamente lingui- stica, la schizofrenia. Abbiamo modo così, indagando un singolo sintomo, di analizzare anche un disturbo mentale che quel sintomo lo presenta elettiva- mente.

I modelli più diffusi di spiegazione di questo fenomeno in ambito cogni- tivo sono due: quello che interpreta le voci come ricordi, e quello che invece le fa derivare dall’inner speech, il dialogo interiore. Entrambe le teorie hanno in comune un elemento: le allucinazioni sarebbero un fenomeno interno, au- togenerato, che, per qualche deficit, sarebbe percepito come esterno.

Secondo la prima teoria, le allucinazioni uditive non sarebbero altro che ricordi di eventi, in particolare di tipo traumatico, che il soggetto non riesce

ad inibire (Waters 2006). Gli ordini, le minacce, i commenti esperiti sotto forma di voci, non sarebbero che riproposizioni di ciò che era stato detto du- rante un evento traumatico. Un ipotetico deficit nella capacità di contestua- lizzare questi ricordi li farebbe interpretare come non prodotti dalla propria stessa mente.

Ma questa teoria sembra essere valida solo in certi casi, tra l’altro abba- stanza limitati, di soggetti che hanno appunto subito dei traumi. Hardy et al. (2005) hanno evidenziato ad esempio come il 42% di soggetti con allucina- zioni uditive che avevano subito un evento traumatico in passato non mostra nessuna associazione tra il contenuto (sia tematico che formale) delle voci ed il trauma subito. Gli autori che sostengono la tesi delle allucinazioni come ri- cordi non tengono inoltre conto del fatto che moltissimi soggetti che soffrono di allucinazioni uditive non hanno mai subito eventi particolarmente trauma- tici.

La teoria alternativa di stampo cognitivo sull’origine delle allucinazioni uditive, e che risulta essere molto più diffusa della precedente, riguarda inve- ce un deficit nella capacità di auto-monitoraggio che colpirebbe l’inner spe- ech. Secondo questa ipotesi le voci sarebbero un inner speech che, per qual- che difetto nella capacità di monitoraggio, verrebbe attribuito all’esterno (cfr. ad es. Franck et al. 2000). Ma anche questa teoria soffre di alcuni punti debo- li. Non è chiaro, ad esempio, perché da un errore nella capacità di auto- monitoraggio dovrebbe derivare solo la tendenza ad attribuire certi eventi in- terni a cause esterne e non, ad esempio, la tendenza contraria, ad attribuire una causa interna ad eventi esterni. Se ci fosse cioè un deficit nella differen- ziazione tra cause esterne ed interne, i soggetti dovrebbero essere spesso in- certi sull’origine degli eventi, e non attribuire sistematicamente a cause ester- ne eventi interni; a meno che non si ipotizzi, oltre ad un deficit di monitorag- gio, anche questa tendenza all’externalizing, a proiettare all’esterno eventi in- terni, nel qual caso questa teoria finisce per complicarsi postulando, in realtà ad hoc, tutta una serie di anomalie che dovrebbero essere a loro volta spiega- te.

Una seconda critica che è possibile muovere a questa teoria consiste nel fatto che le situazioni sperimentali che ne stanno alla base sono molto diffe- renti dalle situazioni in cui effettivamente sorgono le voci: queste infatti tipi- camente compaiono all’improvviso, senza che il soggetto ad esempio pensi prima la frase che poi percepirà come allucinazione, e nella maggior parte dei casi nessuna stimolazione percettiva precede la comparsa delle voci.

Ma il dato che mette più in crisi questa teoria è un altro. Le teorie che po- stulano, come causa delle allucinazioni, un inner speech proiettato all’esterno, sembrano ignorare un fattore fondamentale: il fatto che, fenome- nologicamente, inner speech e allucinazioni uditive siano profondamente dif-

ferenti. Come sottolinea Wu (2012), l’inner speech spesso non ha caratteristi- che acustiche, non viene percepito come voce, mentre una delle caratteristi- che distintive delle allucinazioni uditive è proprio il fatto che abbiano tutte le proprietà acustiche: le voci infatti possiedono un timbro distintivo, sono rico- nosciute come maschili o femminili, e hanno un accento diverso da quello ca- ratteristico del soggetto. Mentre i nostri pensieri, nei casi in cui li sentiamo come voci, hanno ovviamente le stesse caratteristiche della nostra voce, le al- lucinazioni in molti casi non solo non vengono percepite come la propria vo- ce, ma vengono localizzate all’esterno. Una teoria che identifichi le voci co- me i propri pensieri “scambiati” per esterni a causa di un deficit di monito- raggio dovrebbe anche spiegare le trasformazioni in termini fenomenologici che subiscono i pensieri per diventare allucinazioni uditive.

Come sottolineano Stinson e colleghi (2010), dunque, un bias nella capa- cità di self monitoring non solo non è stato dimostrato, ma non sembra nean- che spiegare in maniera esaustiva le allucinazioni. Questo tipo di approccio cognitivo sembra dunque caratterizzare le allucinazioni nei termini sbagliati.

Dobbiamo allora rinunciare all’approccio cognitivo per quanto riguarda i fenomeni tipici della malattia mentale? Secondo me, esiste un’altra serie di studi di stampo cognitivo che possono dare un contributo interessante, anche se portano a mio parere a risultati che hanno del paradossale. Questi studi considerano innanzitutto le allucinazioni uditive come un fenomeno apparte- nente ad un continuum, e non come qualcosa che appartiene esclusivamente all’ambito del disturbo mentale. Ci sono infatti persone che sentono le voci senza essere psicotiche (Beck & Rector 2003; Grimby 1998), come i vedovi, che, in una percentuale che si aggira intorno al 50 per cento, ammettono di sentire la voce del proprio partner defunto, specie nel periodo immediatamen- te successivo alla perdita. Altri studi hanno rilevato che una percentuale che va dal 4 al 25% della popolazione ha avuto almeno un’esperienza di allucina- zione uditiva nella vita (Johns et. al. 2002; Tien 1991). Le voci non sembrano dunque essere un fenomeno esclusivo della malattia mentale. Krabbendam e colleghi (2004), rifacendosi a questi dati, hanno allora rilevato che non è l’esperienza di allucinazioni, da sola, a portare alla psicosi ma piuttosto lo sviluppo di credenze e deliri ad esse collegate (per esempio l’attribuire loro un significato particolare, o il credere che abbiano origine da una fonte ester- na). Sembra allora che, nel caso delle allucinazioni, il trigger sia dato dalle credenze, e non dalle esperienze percettive.

Molte teorie, infatti, cominciano a mettere in luce il ruolo giocato da fat- tori metacognitivi. La vulnerabilità nei confronti delle allucinazioni viene ri- condotta ad una serie di meccanismi, come un eccesso di attenzione rivolta a se stessi, la presenza frequente di ruminazioni, credenze autoriferite disadat- tative e una iperviglianza nei confronti di stimoli interpretati come minacciosi

(Cangas et al. 2006). In altre parole, i soggetti che soffrono di allucinazioni uditive sono particolarmente propensi a riflettere e a giudicare i propri stessi processi cognitivi, e a pensare cose come “ho bisogno di essere preoccupato, se voglio lavorare bene”, “è male avere certi pensieri”, “devo avere il control- lo sui miei pensieri” e così via (Morrison 2001). A questo punto, quando dei pensieri intrusivi (ripetitivi e inaccettabili per il soggetto) compaiono facilita- ti proprio da un tentativo di repressione, sorge una dissonanza cognitiva che viene risolta proiettando all’esterno la fonte dei pensieri ed i pensieri stessi. Questo spiegherebbe perché i soggetti in questione non proiettano all’esterno l’origine di tutte le loro azioni (come invece succederebbe se ci fosse un defi- cit in toto nella capacità di monitoraggio), ma soltanto alcuni dei loro pensie- ri.

Ciò che reputo particolarmente interessante di questa teoria è la messa in luce dei fattori di tipo metacognitivo, ed in particolare delle credenze. Infatti sarà l’interpretazione iniziale di un fenomeno, che sia questo un pensiero in- trusivo o un’allucinazione vera e propria (che abbiamo visto essere un evento molto più comune di quanto si pensi), a determinare le reazioni al fenomeno stesso e la successiva sua ricomparsa. Come afferma Morrison (2001), svi- luppare un atteggiamento di ipervigilanza nei confronti di stimoli simili, pu- nirsi per averli, considerarli altamente pericolosi in quanto segnali di follia non farà che renderli più probabili, generando un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Focalizzandosi sulle voci per cercare di farle smettere, i sog- getti infatti concentreranno l’attenzione su di esse, rendendole più potenti e frequenti.

Sembra dunque che non sia l’esperienza allucinatoria in sé, ma il modo in cui le voci vengono giudicate, interpretate, e le credenze ad esse legate che trasformano un fenomeno appartenente ad un continuum in un vero e proprio sintomo psicotico. Moskowitz e coll. (2008) concludono affermando che le voci possono essere considerate come un’esperienza dissociativa che, solo in certe condizioni, può avere delle conseguenze psicopatologiche. Quindi, an- che se le voci possono comparire nel contesto di un disturbo mentale, esse stesse non possono essere considerate un sintomo psicotico.

In cosa consiste dunque il risultato paradossale al quale conduce questa serie di ricerche? Il paradosso sta proprio nel fatto che, una volta esaminate in dettaglio le allucinazioni uditive, esse finiscono per non essere considerate più un fenomeno psicotico. Concentrandosi sul sintomo, e dando maggiore importanza a fattori come le credenze, le aspettative, le interpretazioni del soggetto, questi studi concludono con il deflazionare il fenomeno stesso. Par- tendo dunque dalla caratterizzazione delle allucinazioni come sintomo eletti- vo della malattia mentale, le scienze cognitive con i loro stessi mezzi hanno finito per attuare una dissoluzione del sintomo stesso.

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