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Origine dei capitali investiti. Percentuali

Anni Nazionali Esteri Misti Società

anonime S.I. Totale

1915 23,4 28,6 4 41,6 0,4 100

1916 25,6 26,8 3,6 43,9 1,1 100

1917 28,8 28,1 2,8 40,2 0,1 100

1918 28,8 34,6 3,1 33,3 0,2 100

La corretta interpretazione della tabella XII — costruita sulla base dei dati contenuti nei censimenti industriali — pone innumerevoli pro­ blemi. L’unica spiegazione che ci fornisce i censimenti è che per capitali misti deve intendersi capitali a metà nazionali e a metà stranieri. I capitali definiti come esteri (extranjeros) pongono un grosso problema, poiché il termine potrebbe significare capitali appartenenti a persone fisiche e giu­ ridiche residenti fuori del Cile, oppure capitali appartenenti a cittadini stranieri che risiedono in Cile, fatto questo che li assimilerebbe di piu ai capitali di tipo nazionalizzato. Non sappiamo, inoltre, per i capitali clas­ sificati come società anonime, qual è la percentuale appartenente a società anonime nazionali e quale a società anonime estere, come e il caso delle società che producono gas ed elettricità.

La tabella XII ci mostra che la percentuale più forte dei capitali in­ vestiti nel settore industriale appartiene a società anonime, fatto questo che ci permetterebbe di pensare che sono imprese vincolate a banche nazionali, oppure alle filiali cilene delle banche straniere. Quasi tutte le banche e in modo speciale quella più importante — il Banco de Chile sono vincolate ai rappresentanti degli interessi agrari

L ’unica conclusione che la tabella XII ci permette di trarre e che i capitali del settore industriale non sembrano essere unicamente ed esclu­ sivamente d ’origine industriale, ossia autogenerati, ma che confluiscono verso questo settore i capitali di altri settori economici, i cui utili sono in fase decrescente — caso dell’agricoltura — , oppure inferiori a quelli che assicura l’industria. Infatti, un opuscolo di fonte governativa afferma 49 *

49 Cfr. Censos Industriales 1915-1918.

50. Anche per le banche si risente — come per tanti altri punti — la man­ canza di studi approfonditi. Lo studio di Arnold J. Bauer sulla cessione dei pre­ stiti ipotecari nell’agricoltura è l’unico serio esistente. Si potrebbe formulare 1 ipotesi che, una volta che le imprese industriali dimostrano di produrre dei profitti assai alti! le banche abbiano spalleggiato la formazione di società anonime le quali, pur rimanendo imprese indipendenti nella forma, erano in sostanza, vincolate alle ban­ che: cfr. A. J. Bauer, Chilean Rural Society, Berkeley, 1969, pp. 62-97; J. Borde

che i profitti del settore industriale nel 1927 sono del 15% annuo, quelli del commercio, delle banche e assicurazioni del 10% annuo, il che spie­ gherebbe lo slittamento dei capitali investiti in altri settori verso il settore industriale 31.

Appare così, ancora una volta, che il settore industriale non si svilup­ pa voltanto le spalle agli altri settori economici, ma in stretta relazione con essi. L’andamento negativo dei settori economici non industriali ap­ pare, anche nel caso cileno, la condizione sine qua non del suo sviluppo.

Possono ottenersi degli utili elementi atti alla comprensione dello sviluppo industriale dai rapporti fra capitale e produzione, produzione e stabilimenti, produzione e occupazione.

XIII. Rapporti capitale-produzione, produzione-stabilimenti, produzione- occupazione. Indici (1918 = 100) 02. Anni Capitale-Produzione Produzione-Stabilimenti Produzione-Occupazione

Industria Artig. Totale

1910 182,4 144,1 179,9 126,6 68 1911 152,7 111,7 150,6 113,3 78,8 1912 197,2 105,4 142,6 106,6 72,7 1913 220,2 159,4 218,6 93,3 66,8 1914 225,4 52,2 211,9 106,6 • 71,4 1915 156,7 84,6 153,3 79,9 72,9 1916 166,8 102,7 163,9 100 85,4 1917 150 109,9 150,6 119,9 110,5 1918 100 100 100 100 100

I dati contenuti nella tabella X III riassumono in certo senso le ten­ denze strutturali del settore industriale. Osserviamo in primo luogo come il rapporto capitale-produzione e quello produzione-stabilimenti mostrino una tendenza alla riduzione, il che significa, nel primo caso, che le unità di capitale producono un valore decrescente di produzione, e nel secondo che non si è incrementato il valore della produzione di ogni singolo stabilimento. La tendenza che si osserva nel rapporto produzione-occupa­ zione è invece ascendente, ossia ogni singolo operaio tende a produrre un 51 52

51. Cfr. Ministère des relations extérieures, Les Capitaux au Chili, San­

tiago, 1927, p. 7. . . . .

52. Per rapporto capitale-produzione intendiamo, in questo caso, le unita pro­ dotte da ogni unità di capitale investito; per rapporto produzione-stabilimenti, il valore medio prodotto da ogni stabilimento; per rapporto produzione-occupazione, il valore medio prodotto da ogni singolo operaio.

valore maggiore di produzione, il che indica che la produttività si accrebbe

in questo periodo. . ,

Per quanto riguarda il rapporto capitale-produzione, si osserva ade­ guatamente, che a livello del settore artigianale la tendenza è orientata al ristagno, ossia non si sono prodotte delle modificazioni nella sua struttura, per cui le unità di capitale continuano a fornire la stessa produ­ zione. Una modificazione avvenne, invece, nel settore industriale, dove il rapporto capitale-produzione è tendenzialmente decrescente: questo appare come il segno di una certa evoluzione positiva, giacché, interve­ nendo una maggiore quantità di capitale per ogni unita prodotta, possiamo supporre un aumento del capitale fisso, una più intensa introduzione di nuova tecnologia e quindi un adeguato reinvestimento dei profitti Non intervenendo questo fenomeno nel settore artigianale, possiamo definir o

stagnante e marginale. . ,

La tendenza positiva che si riscontra a livello del rapporto capitale- produzione trova la sua conferma nell’evoluzione del rapporto occupa­ zione-produzione. Questa evoluzione, positiva dal punto di vista dello sviluppo tendenzialmente capitalista, presenta le caratteristiche di un costante aumento della produttività, fenomeno che è condizionato dalla maggiore intensità di capitali utilizzati dall impresa.

Per quanto riguarda il rapporto produzione-stabilimenti, notiamo una tendenza che possiamo definire negativa, nel senso che ogni entità produt­ tiva tende a produrre — malgrado l’aumento della produttività e della maggiore intensità di capitali — lo stesso valore. Questo c’indicherebbe che la tendenza non è verso la concentrazione delle unità produttive, ma verso la loro frammentazione. Resterebbe però da dimostrare che, alla frammentazione delle unità produttive corrisponda un analoga frammen­ tazione delle persone fisiche che le controllano — fenomeno questo che i censimenti non ci permettono di conoscere — poiché potrebbe darsi che sebbene le ragioni sociali siano tante quante le unità produttive, quelli che posseggono i capitali siano assai meno numerosi, e che questo sia soltanto un modo di eludere il controllo dello Stato o di meglio evadere le tasse.

L’ipotesi che abbiamo ricordato altrove, sull’influenza decisiva della prima guerra mondiale nello sviluppo dell’industria, ad analisi compiuta, non ha mostrato consistenza. Questa ipotesi era della massima importanza, poiché avrebbe dovuto mostrare sino a che punto lo sviluppo di questa attività economica era condizionato non solo dall evoluzione generale della struttura economica nazionale, ma anche da quella della struttura economica internazionale. In questo senso, il miglior indicatore è stato

l’evoluzione delle materie prime importate, le quali, malgrado la guerra, non furono sostituite. Un altro indicatore importante è quello dell’origine dei capitali investiti nell’industria, che sembrano provenire in gran parte dai settori economici che accusano un reddito decrescente, come l’agri­ coltura.

Questo ci porterebbe ad ammettere in primo luogo che sia la forte percentuale delle materie prime importate, sia la percentuale dei capitali provenienti da altri settori economici nazionali finiscono, come era logico pensare, col vincolare assai presto l’evoluzione del settore industriale alle fluttuazioni dell’economia cilena e alle fluttuazioni del commercio inter­ nazionale. È quindi impensabile che questo settore sia stato in grado di creare quei meccanismi propellenti capaci di permettere, nella lunga durata, il passaggio da una società prevalentemente agraria nella sostanza e mineraria superficialmente, ad una società tendenzialmente industriale.

Lo sviluppo industriale non va quindi spiegato sulla base di meccani­ smi autopropellenti, intendendo per tali quelli che permettono il suo ulteriore sviluppo partendo da sé stessa. Il settore industriale non sembra quindi quella forza endogena, capace d ’intaccare progressivamente i fon­ damenti della arretrata struttura economica nazionale. Se lo sviluppo industriale avesse preso quest’orientamento, non si capirebbe perché i tassi di sviluppo della produzione, dei capitali, ecc., siano più alti per il periodo precedente al 1910 che per il periodo 1910-1918 53. Ritrovia­ mo così che lo sviluppo industriale procede non in fase continuamente ascendente, bensì con un’accelerazione iniziale, alla quale succede una fase di ristagno oppure di contrazione. I forti tassi iniziali sono d ’altronde relativamente facili da raggiungere quando il livello di partenza è basso, ma assai più difficili da raggiungere una volta superato il livello iniziale. Però, la vera vitalità, la forza evolutiva, non va misurata — come è risa­ puto — sulla base degli alti tassi d ’incremento della fase iniziale, ma sui tassi di sviluppo successivi a tale fase.

Quindi si potrebbe dire che l’arretratezza del settore industriale cile­ no, in rapporto col grado di sviluppo raggiunto dai paesi industrializzati 0 effettivamente in via di diventare tali, va spiegata non tanto coll’incapa­ cità interna del settore industriale, ma coll’arretratezza generale di tutta la struttura economica cilena, con le implicazioni che a livello internazio­ nale questo comporta.

53. Lo stesso fenomeno si riscontra nello sviluppo industriale del Brasile dove 1 tassi di sviluppo anteriori alla prima guerra mondiale sono superiori a quelli

posteriori: cfr. N. H. Leff, Long-Term Brazilian Economic Development, « The

Ma ci sono degli aspetti per così dire « moderni » nel settore indu­ striale, come abbiamo mostrato nella nostra analisi, che sono essenzial­ mente collegati allo sviluppo tecnologico che il settore conosce. Questo sviluppo però proviene dall’estero: è essenzialmente un fattore esogeno che la struttura industriale subisce, per riuscire così a frenare il calo dei profitti, i quali erano seriamente minacciati dalla crescente pressione sociale provocata dall’accelerato processo di pauperizzazione delle masse urbane, immiserite dall’inflazione. Questa modernità imposta dall’esterno creava delle abnormità assai stridenti: provocava — come effetto in­ dotto — l’imitazione di modelli di vita propri di paesi più evoluti econo­ micamente, nei settori dominanti e nella classe media nascente, situazione che in definitiva creava parvenze esterne di civiltà economica, ma minac­ ciava ancora di più i ceti popolari. Un esempio di come la spirale moder­ nista finiva coll’aggravare la situazione dei ceti popolari, e quindi della mano d ’opera del settore industriale, si trova negli stimoli dati all’ingresso di mano d’opera specializzata europea: fra il 1914 e il 1918 quasi il 20% degli impiegati e il 10% degli operai dell’industria erano stranieri. È pensabile che impiegati e operai stranieri fossero il personale meglio remunerato, l’aristocrazia della classe operaia. Possiamo così pensare che gli aspetti moderni del settore industriale, più che creare stimoli necessari per il suo ulteriore sviluppo, creavano invece i presupposti per la sua ulteriore stagnazione.

Non sintetizzeremo gli aspetti che abbiamo elencati nel corso della nostra analisi come tipici della società arretrata in cui si sviluppa l’indu­ stria. Questi aspetti concernono la scarsa presa di coscienza non solo della classe operaia, ma anche del gruppo aziendale, preoccupato più di aumentare i profitti a brevissima scadenza, che di assicurare alle sue indu­ strie i requisiti per un vero sviluppo che incidesse non solo sulla strut­ tura economica generale ma anche sulla struttura industriale propriamente tale. Infatti, se ricordiamo che si è in presenza di una scarsa concentra­ zione industriale, di un’inadeguata ricerca per sostituire le materie prime importate, ecc., tutto ciò testimonia l’arretratezza relativa di questo settore.

Si ha quasi l’impressione che lo sviluppo industriale si sia prodotto indipendentemente dall’esistenza dei prerequisiti necessari per assicurare a questo settore un’adeguata evoluzione nella media e lunga durata.

SVILUPPO INDUSTRIALE E ARTIGIANALE. ANALISI SETTORIALE

Nel capitolo precedente abbiamo cercato di stabilire quali caratteri­ stiche presentano l’industria e l’artigianato considerati globalmente. Per meglio comprendere in che misura i diversi settori industriali e artigianali partecipino o si discostino dalle caratteristiche globali, sarà necessaria un’analisi a livello dei singoli settori.

Converrà però, prima di tutto, soffermarsi brevemente sull’organiz­ zazione che riteniamo necessario dare all’analisi, poiché, trovandoci da­ vanti a dieci settori, se procedessimo a un’analisi per ciascuno di essi correremmo il rischio di perdere di vista il tutto, sterilizzando così la nostra analisi.

Si potrebbe cercare di raggruppare i settori secondo il criterio della loro proporzione nel valore globale, oppure procedere sulla base della rassomiglianza dei tassi d ’incremento o di decremento.