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Il palazzo e la famiglia Capponi nel XVII secolo

Nel documento Palazzo Capponi (pagine 54-80)

Il palazzo e la famiglia Capponi nel

XVII

secolo

Il ramo romano della famiglia Capponi: Amerigo Un momento saliente nelle vicende del palazzo di via di Ripetta coincise con la sua acquisizione da parte di Ame-rigo Capponi. AmeAme-rigo, nato a Firenze nel  e stabilito-si a Roma al seguito del cardinale d’Este, discendeva da una delle famiglie più importanti e tradizionalmente influenti della politica fiorentina del secolo XV. A Firenze, fin dal Trecento, i componenti della famiglia Capponi si erano distinti ricoprendo prestigiose magistrature della Repubblica fiorentina; attraverso imprese militari e diplo-matiche, essi avevano contribuito alle maggiori conquiste di Firenze che posero le basi per la costituzione del Gran-ducato. Di questo erano consapevoli gli stessi Medici, che negli apparati eseguiti per le nozze di Francesco I avevano fatto raffigurare Gino, Neri e Piero Capponi in un arco effimero dedicato ai cittadini che più si erano distinti nelle guerre fiorentine: Gino (-) e poi Niccolò (-) avevano contribuito alla conquista di Pisa1, Neri (-), oltre che della conquista della Garfagna-na, era stato artefice della vittoria di Anghiari2, mentre Piero (-) era stato ambasciatore e mediatore per il popolo fiorentino presso Carlo VIII, nel tentativo di scon-giurare il pericolo francese3.

All’impegno politico cittadino la famiglia tradizional-mente affiancava un’importante attività mercantile, da principio legata al commercio della lana e della seta, grazie al quale i Capponi avevano conseguito fin dal Duecento una posizione preminente nell’economia fiorentina. Di un ulteriore consolidamento finanziario i Capponi si giovarono nel corso del XV secolo, quando alcuni loro esponenti, fra cui soprattutto Gino di Neri (-)4, a tal punto incrementarono gli affari e gli investimenti fondiari da costituire quasi un impero econo-mico: la famiglia giunse infatti a possedere un banco colle-gato con i maggiori centri commerciali italiani e europei – Roma, Napoli, Ancona, Milano, Lione, Anversa e Londra –, e a detenere la partecipazione, e talvolta il controllo, in diverse compagnie finanziarie delle quali condividevano gli interessi con le altre principali famiglie mercantili fiorentine, come i Guicciardini, i Sassetti, i Mannelli, i Sacchetti, i Martelli, gli Strozzi, alle quali erano uniti sovente, in virtù di un’accorta politica matrimoniale, anche da stretti legami familiari.

È all’inizio del Cinquecento che gli interessi finanziari di un ramo della famiglia Capponi, in linea con la tradi-zione dei grandi mercanti Romanam Curiam sequentes, vennero gradualmente concentrandosi su Roma e presso

la Curia pontificia. Il primo a stringere significativi rapporti con la città fu Lodovico (-), il quale, come tramanda il Litta, “fu mandato a Roma ad istruirsi nella pratica commerciale nel banco di Giovanni Martel-li”5. Qui egli dovette conseguire una cospicua fortuna, divenendo presto socio del Martelli, del quale, nel , sposò la figlia Marietta; ed ebbe un certo rilievo anche nella vita civile, giacché fu eletto nel  console della Nazione fiorentina in Roma e figurò tra i promotori della costruzione della chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, di cui – tramandano le fonti – “pose la prima pietra”6, precorrendo i suoi discendenti che un secolo dopo vi avrebbero edificato la cappella di famiglia.

Di Ludovico e di suo fratello Francesco, anche lui trasferitosi a Roma negli stessi anni, le fonti evidenziano la grande familiarità con i pontefici Leone Xe Clemente VII, a cui li legavano, oltre alle comuni origini toscane, l’antica fedeltà dei Capponi al casato mediceo. “Lodovico e Fran-cesco Cavalier Gerosolimitano servitori accettatissimi a i pontefici Leone X e Clemente VII– come si legge in una nota manoscritta conservata fra le carte di Alessandro Gregorio Capponi – fecero la loro stanza in Roma viven-doci splendidamente”7; e sebbene Ludovico fosse rientra-to nuovamente a Firenze inrientra-torno al , sia lui che il figlio Gino (-), favoriti dagli stretti legami con la Curia pontificia, continuarono a mantenere e curare i loro inte-ressi finanziari in Roma, tanto da lasciare – come prose-gue la stessa fonte – “un ottimo indirizzo a i figlioli per stabilirvisi se non tutti almeno alcuno”8.

Fu Amerigo, primogenito di Gino, a fissare stabilmente a Roma la propria dimora dopo esservi giunto negli anni del pontificato di Clemente VIII9. Sull’esempio di un ramo della tradizione familiare egli si dedicò alla carriera milita-re; Clemente VIIIpoté così nominarlo nel  Vice Castel-lano di Castel S. Angelo, “carica che egli amministrò con pari fedeltà e diligenza, – scrive Teodoro Amayden – e nella medesima se ne servirono i successivi Pontefici finché visse, il che non suole avvenire per essere carica di somma confidenza e gelosia”10. Negli stessi anni anche il fratello di Amerigo, Orazio, risolutosi ad abbracciare la carriera ecclesiastica, si trasferì a Roma, dove nel 

ricevette il titolo vescovile di Carpentras in Francia11. La fedeltà al Pontefice, tante volte sottolineata dalle fonti, si alimentava anche della convinzione con cui Amerigo si proponeva di consolidare la presenza e il prestigio della famiglia in Roma, anche ricercando entra-ture e sostegni all’interno della Curia e beneficiando dei relativi privilegi, come lui stesso lascia intendere nel passo

del suo testamento in cui esplicitamente invita i suoi discendenti a rimanere stabilmente nella Città, per “segui-tare la Corte di Roma a poter presentialmente godere detti beni et la servitù et amorevolezza di tanti padroni acquistati in questa corte e città di Roma”12.

Il legame con Castel S. Angelo, l’attaccamento alla vita militare che al suo interno si svolgeva ed ai compagni d’arme – ad alcuni dei quali avrebbe destinato per testa-mento lasciti in denaro –, così come il senso di responsa-bilità e la dirittura morale che lo contraddistinsero, sono tratti di Amerigo cui è dato forte risalto da Giacomo Castiglione, il quale, narrando i fatti della disastrosa inon-dazione del Tevere del , vividamente illustra, come una pagina eroica della cronaca cittadina, “del modo stupendo col quale si salvarono molte famiglie in Castel S.

Angelo” grazie al senso di umanità e all’ardimento del Vice Castellano. “E memorabile – scrive il Castiglione – il modo con che si salvarono molte povere famiglie intorno Castello in quello Diluvio. Il Baloardo che rifece il Papa Gregorio XIIIsotto il Ponte di Castello lungo il fiume è diviso dalla strada che và diritto a Palazzo. Sopra detto Baloardo, di qua, e di là della strada erano molte botte-ghe, e casette d’artigiani. La notte innanzi la Vigilia di Natale, quivi si trovarono tutti assediati dalla crescenza del fiume senza speranza di uscirne, non potendovisi accostar barche per la rapidezza della corrente. Ora tutti cacciati dalla piena si erano rifuggiti sopra i tetti con le loro robbe, donne, e figli, ancor fino à quelli che si ritro-vavano in fascie. Ma perché tuttavia più si alzava l’acqua, e crescea il pericolo della vita, quelli della banda di Castello si salvorno, camminando sopra i detti tetti, finchè arrivorno sopra la muraglia della Cortina del fosso della fortificazione di Papa Pio Quarto, sopra la quale si calò una gran scala fatta di due scale dal Corridore, e per questa salirono nel corridore, e quindi in Castello. Quelli poi dall’altra banda verso il fiume, perché non vi era rime-dio humano allo scampo loro, stavano adolorati, e veggendosi l’orrenda morte innanzi a loro: gridavano, e piangendo chiedevano soccorso: il Signor Americo Capponi Vice Castellano dotato di ogni sorte di onorate qualità, come aveva salvati quelli della banda di Castello, così voltò il pensieri à una grande invenzione di scampar questi, che stavano in pericolo evidentissimo di affogarsi in breve. Fece dunque calare dal Corridore parecchi animosi soldati, sopra i tetti delle botteghe della banda di Castello, e quindi gettare un Canapo à quelli, che erano restati abbandonati sopra li tetti delle botteghe de l’altra banda, i quali legando detto Canapo à un camino di dette

botteghe, e tenendolo forte i soldati dalla banda loro, si fecero passare con le mani attaccati à detto Canapo, reggendosi quasi à noto sopra l’acqua, la quale benché rapidissima non potè impedire, che tutti per scampare la morte non passassero dall’altra banda per detto Canapo.

E se bene molte volte si vedeano tutti tuffati nell’acqua per lo smorzamento della corrente, non però abbandona-vano con le mani il Canapo, tanto gli uomini con le donne, e donne vecchie, e padri che haveano i figli legati sopra le spalle. E così niuno ne morì (...). Meritano infini-ta lode i soldati, che con grandissimo lor rischio gettono, e tenerno il Canapo, e per liberare della morte altri non stimorno così gran pericolo, essendosi così comandato dal Signor Americo Capponi Vice Castellano degno certa-mente di immortal gloria”13.

Dalla moglie fiorentina Lucrezia Bardi Amerigo ebbe due figli: Maddalena, sposata prima a Marzio Nari e in seconde nozze a Marcello Crescenzi, e Gino Angelo, sposato ad Anna Mignanelli e poi ad Anna Maria Millini.

L’imparentamento con famiglie romane di primo piano è l’evidente segnale della raggiunta integrazione dei Cappo-ni nella classe dirigente cittadina, che successivamente avrebbe loro aperto le porte non solo agli incarichi di Curia, ma anche a quelli municipali14.

In questa prospettiva si inquadrano anche gli acquisti immobiliari effettuati da Amerigo, da porre sicuramente in relazione ai requisiti prescritti dagli statuti cittadini ai forestieri che volessero naturalizzarsi, consistenti nel possesso di un palazzo e di una vigna in Roma: talché egli acquistò il palazzo di via di Ripetta, in seguito divenuto residenza della famiglia, e ancor prima (nel ) una vigna fuori Porta del Popolo. Alla sua morte, avvenuta il

 luglio del , entrambe le proprietà, sottoposte a fedecommesso nel testamento del  settembre , vennero lasciate in eredità all’unico figlio maschio, Gino Angelo, all’epoca ancora nella minore età: “Al quale sign.

Gino Angelo suo figlio per li beni che possiede in Roma lascia et deputa per tutore et per tempo curatore l’Ill.mo et Rev.o Mons. Horatio Capponi vescovo di Carpentras suo fratello quale debba deputare per l’administratione di questi suoi beni di Roma li Signori Girolamo Tecci e Francesco Sebecchi fiorenti mercanti in Roma”15.

Il palazzo di Amerigo Capponi

Il  marzo del  Amerigo acquistò i diritti sulla proprietà immobiliare di via di Ripetta dei Serroberti16, i

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quali avevano poco prima ottenuto, il  gennaio , lo scioglimento del vincolo del fidecommesso a fronte del-l’impegno di reinvestire la somma ricavata in nuovi beni stabili o in investimenti di “luoghi di Monte” – come espressamente si dichiara negli allegati all’atto di vendita17 – per la considerevole somma di  scudi, cui si aggiun-geva il canone annuo di scudi . da pagarsi in rate semestrali al Convento degli Agostiniani di S. Maria del Popolo.

Può immaginarsi che la preferenza di Amerigo si rivol-se al palazzo dei Serroberti non solamente per la sua collocazione in una parte residenziale della Città e non distante da Castel S. Angelo, ma anche perché posto su un asse viario che idealmente puntava verso il palazzo della famiglia Borghese, alla quale il Capponi doveva sentirsi legato per diverse ragioni, non ultima la sua nomi-na a vicecastellano, rinnovatagli nel corso del pontificato di Paolo V, e la costante frequentazione con Giovan Batti-sta Borghese, fratello del pontefice e all’epoca Castellano di Castel S. Angelo. L’affidamento e la devota riconoscen-za di Amerigo nei confronti della famiglia del pontefice Borghese traspaiono nitidamente dal suo testamento, nel quale raccomanda al cardinal nipote Scipione e al princi-pe Marcantonio Borghese, figlio di Giovan Battista, la protezione del suo primogenito: “la persona del detto Signor Gino la raccomanda alla protetione che spera per la sua si lunga et fidele servitù di Nostro Signore et alla sede apostolica et dell’Ill. et Rev. Signor Cardinal Borghe-se et dell’Ill. et Rev. Sign. Principe di Sulmona”18.

Al momento dell’acquisto di Amerigo, la proprietà dei Serroberti si componeva di un Palatium o domum ma-gnam, con giardino, cortile, cantine e altre pertinenze, e di una casetta contigua; mentre sul fronte stradale i confini dell’immobile erano ancora quelli noti, da un lato la via pubblica di Ripetta e dall’altro la via delle Scalette, su quello retrostante esso veniva ora a confinare con un’altra casetta di proprietà dell’Arciconfraternita del SS. Croci-fisso di S. Marcello, che Amerigo non avrebbe tardato ad acquisire nei mesi successivi.

Intento di Amerigo doveva esser quello di ampliare e di dare un nuovo assetto all’edificio, realizzando una resi-denza adeguata alla condizione sociale della famiglia e al rango che essa aveva conseguito presso la corte pontificia.

Nello stesso anno, infatti, a pochi mesi di distanza dal primo rogito Amerigo acquistava dalla “Sig.ra Lucia de Grottis” altre due casette attigue al palazzo sul fronte del vicolo delle Scalette; nel luglio del  veniva rogato l’at-to della terza casa, e nell’otl’at-tobre del  Amerigo

pren-deva infine possesso dell’ultima casa allineata nello stesso vicolo delle Scalette. Ad inizio di febbraio dello stesso anno era già stato firmato l’acquisto della casa della Confraternita del S.S. Crocifisso, descritta come “casa attaccata con la mia casa grande a Ripetta”; le casette, tre di proprietà del Convento degli Agostiniani ed una della Confraternita del Santissimo Crocifisso, erano sottoposte ad un canone annuo di complessivi  scudi19.

In questo modo gli edifici acquistati da Amerigo si disponevano, gli uni accanto agli altri, a guisa di una gran-de “L” inscritta tra i due fronti di via di Ripetta e gran-del vi-colo delle Scalette, con un spazio destinato ad orto e giar-dino incluso all’interno. Ciò fa supporre, anche sulla scor-ta della normativa allora vigente che favoriva l’acquisto di unità immobiliari confinanti se finalizzato a costruirne una di maggiori dimensioni20, che vi fosse già in origine l’intenzione di riunirli in un unico e più ampio edificio. In effetti i lavori promossi da Amerigo Capponi portarono ad un ampliamento del palazzo preesistente, realizzato soprattutto sul lato di via di Ripetta mediante l’annessione della domuncula acquistata dai Serroberti insieme alla domum magnam, mentre la casa del S.S. Crocifisso e quel-le situate sul vicolo delquel-le Scaquel-lette vi furono accorpate solo in parte allo scopo di ampliare il giardino; le abitazioni a schiera nel vicolo, private degli orti retrostanti, rimasero, come rivelano documenti successivi, nuclei abitativi sepa-rati e dati in locazione (figg. -).

Le opere di ampliamento e di restauro furono avviate molto presto, e lo stesso Amerigo si preoccupò di annota-re di suo pugno le annota-relative spese in un apposito libannota-retto:

Conti delle Case cioè per compra e spesa per la Fabrica21. I lavori ebbero inizio, tra il maggio ed il giugno del , con interventi di “svuotamento e pulitura” delle cantine, dei piani terreni e del pozzo che si trovava accanto alla stalla, affidati ad operai detti “aquilani”22. Il  maggio dello stesso anno il “maestro Dionigi Guidotti scalpelli-no” – al quale saranno poi affidati, assieme al fratello

“mastro Giovanni Battista”, quasi tutti gli incarichi relati-vi al reperimento e all’acquisto dei materiali lapidei – rice-vette i primi pagamenti per “cavar le pietre” e fornire

“pietre peperini” che dovevano servire per la costruzione.

Più volte è indicato nelle fonti che le pietre da costruzione erano “cavate nell’arco e pilastro antico” vicino al “Ponte della Marana”, e che il tufo proveniva dalla “Rovina di Monte Savello”, così lasciando presumere che il materiale impiegato, come non era affatto infrequente a Roma anche nel XVIIsecolo, fosse tratto da rovine antiche o da cave in aree periferiche o in abbandono23.

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Gli altri materiali da costruzione, come la calcina e la pozzolana – di due tipi e destinate a diverso impiego nella fabbrica –, vennero acquistati da fornitori diversi, identifi-cati spesso con il solo nome di battesimo: “Biagetto pozzolanaro”, che fornì la pozzolana rossa, “Ambrogio fornaciaro” da cui vennero acquistati i mattoni, “Bernar-dino di Bastiano di Stefano pozzolanaro che portò certe carrettate di pozzolana dalla riva del fiume”; “Pietro Chino” che fornì la calcina di Tivoli, mentre quella ricava-ta dai materiali archeologici proveniva dalla fornace del

“Sig. Duca Conte”24. Del trasporto di questi materiali al palazzo ebbero cura “mastro Giovanni Derra”, “Pasquale Bolini” o “Girolamo Crespi”, tutti e tre “carrettieri”. I capomastri, spesso identificati più con il sito ove avevano bottega che con il loro cognome (“mastro Urbano chiava-ro a piazza Madama”, “Giovan Battista stagnachiava-ro in Borgo”, “mastro Cintio vetraro alla scrofa”), assieme alla

gran quantità di operai e garzoni rimasta anonima nei documenti, prestarono la loro opera in parte sulla base di contratti a lunga scadenza, in parte a cottimo o a giornata, e furono saldati sia in contanti che, talvolta, in natura, soprattutto con grano, olio e vino.

I lavori di costruzione, eseguiti dal muratore “mastro Antonio Mazzantini”, si concentrarono innanzitutto sulla facciata, allineando ad essa il prospetto della casetta, e sul tetto, che fu rifatto integralmente con cordolo e copertura in muratura25; l’angolo settentrionale del palazzo fu rin-forzato con “due catene di travi sopra la cantonata della muraglia” compresa fra la via maestra e il vicolo.

Un intervento apposito riguardò la torre preesistente, dove venne realizzata una nuova lanterna a forma di piccola cupola con volute laterali, eseguita integralmente in legno dal falegname Benedetto Infragliati da Cortona26 e rivestita in piombo all’esterno dallo “stagnaro Giovanni

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. Facciata di Palazzo Capponi,  c., in Pianta del condotto dell’Acqua Vergine per il palazzo Capponi,

disegno a china e tempera su pergamena.

Roma, Archivio Capitolino

Bertacchini”27, mentre all’interno fu dipinta di bianco da Giuseppe Mattei, come risulta dalle note di pagamento per “l’olio di lino et biacca per il bianco”28.

Per opera dello stesso Bertacchini fu costruita anche una grande grondaia in piombo che girava su tutto il fron-te del palazzo passando sotto la balaustra “ per ricevere l’acqua di tutto il tetto che pende nella strada maestra con due doccioni uno che esce sotto la scala delle scalette et uno sopra la strada maestra”29.

Nei documenti d’archivio i lavori all’interno del palaz-zo non vengono specificati in modo particolareggiato, forse non avendo questi comportato modifiche sostanziali all’assetto e alla ripartizione degli ambienti, se non nel punto di giuntura dei due corpi di fabbrica: nelle stanze corrispondenti il muratore fu pagato per eseguire “molti rappezzi”, ingrandire la porta di una camera, rifare gli stipiti di porte e finestre, restaurare due camini in peperi-no, mentre furono eseguiti lavori di falegnameria e di vetreria per restaurare i telai delle finestre e i riquadri vetrati con legatura in piombo (figg. , ). Le stanze così restaurate furono tutte imbiancate da “mastro Giovanni”, i pavimenti e i pianerottoli della scala furono rivestiti, com’era consuetudine nelle dimore patrizie, con mattoni rossi arrotati30. Dai documenti si apprende, infine, che il palazzo era servito da una scala principale a rampe a cui si accedeva dall’androne sul lato destro e da un’altra, più propriamente di servizio, “a lumaca”, collocata nell’ala opposta del palazzo31(figg. -).

Una volta completati i lavori, il palazzo si presentava con la facciata principale su via di Ripetta articolata su tre file principali di otto finestre, corrispondenti al piano terreno, al piano nobile e al secondo piano, alternate a quelle dei mezzanini. Le finestre del piano terreno, rialza-te rispetto all’edificio cinquecenrialza-tesco, erano provvisrialza-te di una soglia sporgente sorretta da mensoloni, al di sotto dei quali si aprivano pertugi per l’aerazione delle cantine; il medesimo ritmo era ripetuto sul lato più corto di via delle Scalette (figg. -).

Molti degli elementi architettonici, caratteristici del prospetto cinquecentesco, non vennero sostituiti ex novo bensì subirono un’evoluzione, come nel caso dei marca-piani orizzontali a fascia semplice e delle finestre che conservarono le medesime tipologie di incorniciature; ai lati della facciata i cantonali in bugnato furono mantenuti fino alla quota dell’ultimo piano, dove vennero

Molti degli elementi architettonici, caratteristici del prospetto cinquecentesco, non vennero sostituiti ex novo bensì subirono un’evoluzione, come nel caso dei marca-piani orizzontali a fascia semplice e delle finestre che conservarono le medesime tipologie di incorniciature; ai lati della facciata i cantonali in bugnato furono mantenuti fino alla quota dell’ultimo piano, dove vennero

Nel documento Palazzo Capponi (pagine 54-80)