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La storia del palazzo nel XVI secolo

Nel documento Palazzo Capponi (pagine 48-54)

La storia del palazzo nel

XVI

secolo

sidenti della Camera Apostolica, quale rappresentante della Curia deputato al controllo dell’esecuzione dei lavo-ri per l’apertura della nuova via pubblica, affidata ai mae-stri delle strade Bartolomeo della Valle e Raimondo Capo-diferro5.

Può, dunque, ipotizzarsi che nell’ambito di questa sua responsabilità il Gaddi, che già aveva ricevuto in dono da Leone Xun terreno “in directione stratarum novarum” in ricompensa per l’incarico assolto6, non trascurasse l’op-portunità di acquistare ulteriori diritti di proprietà o di godimento nella zona, al fine di compiervi un proficuo investimento in previsione dello sviluppo che essa avreb-be presto avuto con la realizzazione del nuovo asse viario destinato a porre in collegamento il rione Ponte, quartiere rinomato per le numerose residenze di banchieri e di nobili famiglie vicine alla corte pontificia, con il porto di Ripetta, sede di attività mercantili, e piazza del Popolo, monumentale ingresso in Città per chi proveniva da Settentrione.

Gli elementi contenuti nell’atto di concessione in enfi-teusi del  aprile  non consentono, purtroppo, di iden-tificare con sufficiente certezza la precisa collocazione del fondo; in particolare, la menzione che vi viene fatta della

“mole del Trullo”, di cui non si conosce oggi più l’esatta posizione (se non che si trovava genericamente sulla piaz-za del Popolo), accresce, anziché delimitare, l’area in cui il sito in questione potrebbe rintracciarsi. D’altro canto, i documenti non dicono se il cardinal Gaddi effettivamente edificò nei tempi stabiliti, né appare plausibile, se mai ciò accadde, che potesse trattarsi di un palazzo o di una resi-denza patrizia destinata allo stesso cardinale. Non solo, infatti, nessuna costruzione di rilievo nell’ultimo tratto di via di Ripetta appare evidenziata nelle piante di Roma del secolo XVI, ma lo stesso Niccolò Gaddi, nel censimento del , risulta ancora residente nel prestigioso palazzo che la famiglia possedeva nel rione Ponte, commissionato da Luigi all’architetto fiorentino Jacopo Sansovino7.

Se non è possibile affermare, sulla base di indizi così vaghi, che palazzo Capponi fu edificato su un fondo precedentemente appartenuto a monsignor de’ Gaddis, è tuttavia lecito domandarsi per quale singolare ragione l’at-testato a lui relativo fosse conservato fra le carte del fondo Capponi concernenti l’acquisto della proprietà di via di Ripetta, disposte in tal ordine come se si fossero voluti documentare i momenti salienti della storia dell’edificio.

Si aggiunga il particolare, anch’esso significativo, che il documento non è l’originale, ma una sua copia fedele trascritta nell’ottobre  (da quello oggi conservato

presso l’Archivio di Stato di Roma); tale data, registrata sul verso, chiama in causa quale possibile committente della trascrizione il marchese Alessandro Gregorio Capponi, proprietario in quegli anni del palazzo, e induce anzi ad ipotizzare che lo stesso marchese, alla ricerca di notizie circa le origini e le prime vicende della sua proprietà – le quali dovevano essere già al suo tempo alquanto indistinte –, le avesse individuate tra quelle rela-tive al patrimonio di monsignor Gaddi e ne avesse ricer-cata la conferma attraverso la lettura dei documenti anti-chi. Di certo il Capponi, se l’antica ed illustre provenienza del suo palazzo fosse risultata plausibile, l’avrebbe molto gradita poiché da ciò sarebbero derivati valore e prestigio alla residenza che egli in vario modo si sforzò, come vedremo, di elevare al rango di altre più celebri.

Il palazzo dei Serroberti

Il primo documento che attesta con certezza l’esistenza di un nucleo abitativo, definito “casa”, nell’area compresa fra la nuova via pubblica e il vicolo delle Scalette è il testa-mento di Francesco Serroberti, con data del  ottobre

8. La casa, appartenente al monastero di S. Agostino in S. Maria del Popolo, fu acquistata in quote uguali da Francesco e da suo fratello Geronimo, “speziali”, discen-denti di una notabile famiglia di origine perugina9.

Francesco e Geronimo dovevano aver già da tempo raggiunto una consolidata posizione economica attraverso la loro attività commerciale ed essere, nel contempo, ben inseriti nella società romana, come attesta il matrimonio del primo dei due con Violante de Mattheis, appartenente ad un affermata famiglia della Città. Essi possedevano una casa e un’avviata bottega o “spetiaria” in Parione, nonché la proprietà di una seconda bottega di “pizzicaria” in piazza S. Lorenzo in Damaso10.

È forse proprio alla luce della conseguita affermazione sociale che i due fratelli decisero all’inizio degli anni Cinquanta di trasferirsi nel nuovo quartiere di Ripetta con la ferma volontà, come traspare dai documenti, di edificare qui una casa che attestasse lo status raggiunto dalla fami-glia: che “sempre resti e se dica la casa de Serroberti”11.

Nel quartiere di Ripetta, destinato fin dall’inizio all’in-sediamento della nuova classe borghese che andava formandosi attorno della Curia romana, i Serroberti pote-rono certamente acquistare fondi e costruirvi usufruendo di quelle agevolazioni che le leggi dell’epoca concedevano a quanti comperavano allo scopo di edificare una casa



nuova o un palazzo ob decorem Urbis; la casa dei Serro-berti era infatti di proprietà del monastero di S. Agostino e concessa loro in enfiteusi perpetua, secondo una formu-la, come si è già detto, in voga a quel tempo e che trovò particolare applicazione in tale area urbana, a partire dal pontificato di Leone X, nella prospettiva di favorirne lo sviluppo edilizio12.

In quegli anni il quartiere, dopo la sistemazione del tridente viario (formato da via di Ripetta, via del Corso, via del Babuino) per opera del maestro di strade Latino Giovenale Manetti che vi attese fra il  e il , si avvia-va ad assumere una più definita configurazione urbanisti-ca, ed era anzi interessato, grazie al completamento dei suddetti assi viari, da una ulteriore espansione nella parte delimitata tra la via del Corso e la via del Babuino, fino a quel momento meno sviluppata ed ancora occupata pre-valentemente da orti e vigne, e nel tratto di via di Ripetta prossimo alla piazza del Popolo13(figg. -).

Qui i Serroberti, stando alla descrizione che della casa è riportata nei documenti, ottennero un lotto posto in angolo fra due strade: “...sita in Roma nel Rione Campo Martio alla quale confina da una parte et di dietro la casa dell’arciprete (...) et dall’altro sono le vie pubblice...”.

Nell’ambito della tipologia della casa a schiera, modello caratteristico di quasi tutta l’edilizia di via di Ripetta, la casa disposta in posizione angolare si presentava di

maggior pregio rispetto a quelle con unico prospetto alli-neato lungo la via, in ragione del più esteso sviluppo planimetrico, dell’affaccio sul duplice fronte stradale, della più ampia disponibilità di spazio per il cortile e per le pertinenze poste sul retro, e, di conseguenza, della maggiore visibilità dell’edificio, tale da riflettersi certa-mente, in termini di status e prestigio sociale, sulla fami-glia che ne era proprietaria14.

Nell’autunno del , come si apprende dal testamento di Francesco, la casa di Campo Marzio non era ancora abitabile a causa di lavori che vi erano in corso. Sebbene non sia specificato nei documenti di che genere fossero tali lavori, se relativi ad una costruzione ex-novo o ad un ampliamento e restauro di una costruzione preesistente, essi dovevano essere di considerevole entità e lontani dalla conclusione. Lo stesso Francesco, temendo forse per le sue condizioni di salute di non riuscire a portarli a termine, ma volendo comunque assicurarne il completa-mento, dispose che tutti i suoi denari “da esigerse dalli soi crediti se debbiano depositare appresso qualche persona idonea delli quali se debbia finire la casa di esso testatore posta verso S. Maria del Popolo”.

In un secondo testamento del  ottobre  è sempre Francesco che, per preservare la casa dei Serroberti, isti-tuì sulla sua quota un fedecommesso e nominò suo erede il primo figlio maschio della nipote Flaminia, primogenita del fratello Geronimo, “il quale figliolo maschio debba pigliar sempre il nome della casata dei Serroberti”, e stabilì che i suoi successori “non debbano mai vendere o alienare ne in alcun modo disponere per qualunque causa di detta mia casa”. In questo documento, dove non si fa più cenno a dei lavori così da far pensare che questi fosse-ro stati intanto portati a termine, l’edificio viene per la prima volta definito “palazzo o casa grande”15.

A distanza di qualche anno, nel , Geronimo incre-mentò la proprietà immobiliare della famiglia nella zona acquistando una seconda casetta dal monastero di S. Ago-stino, confinante su un lato con la precedente, davanti con la via pubblica e sul retro con i beni degli eredi del “fu Biondo fiorentino”: “domum terrinea soleratam et tecta-tam cum discoperto puteo et aliis eiusdem iuribus sitecta-tam in Urbe Regione Campi Martis”16. Nel  anche Geronimo, come il fratello Francesco, istituì un fedecommesso sulla sua metà della domum magnam lasciandola in eredità al figlio di Flaminia17, e riunendo così tutta la proprietà dei Serroberti nelle mani del nipote Francesco Valeriani Ser-roberti (figlio di Flaminia e Claudio Valeriani)18.

L’attaccamento di Francesco e Girolamo verso la

resi-

. Mario Cartaro, La grande pianta di Roma, , particolare dell’area di via di Ripetta su cui sorgeva il palazzo all’epoca della famiglia Serroberti. Roma, Fondazione Besso

denza in via di Ripetta non trovò corrispondenza da parte dei discendenti della famiglia Valeriani Serroberti; è probabile, stando alla lettura delle carte d’archivio, che negli ultimi anni del Cinquecento il palazzo non sia stato abitato dai componenti della famiglia e che, per certi periodi, non sia stato neanche dato in locazione. Certo è che gli eredi Serroberti tentarono ben presto di liberare il palazzo dal fidecommesso al fine di potersene disfare od almeno alienare i propri diritti su di esso. In una lettera inviata al Pontefice da Francesco, Silverio e Annibale Serroberti-Valeriani, l’edificio viene descritto come una casa vecchia, con diversi problemi legati alle frequenti inondazioni del Tevere, sfitta e piena di spese gravosissi-me, fra cui il mantenimento della strada su due lati e il pagamento di un canone di  scudi ai frati del Convento di S. Agostino19.

Una descrizione del palazzo, risalente a quegli anni, può forse individuarsi nel manoscritto conservato nella Biblioteca Vittorio Emanuele, redatto fra il  e il , che riporta un elenco di ottantacinque palazzi signorili romani – ad uso, probabilmente, di nobili o di cardinali forestieri che avessero bisogno di trovare dimora in Roma – tra i quali è censito un edificio collocato verso la fine di via di Ripetta: “Casa... vicino al Popolo, a man manca per la strada di Ripetta; ha la facciata dinanti di passi  et fianchi di passi . Ha doi finestrati di  finestre l’uno. La porta non è nel mezzo”20. Dell’edificio, così

sommaria-mente descritto, possiamo tuttavia farci un’idea meno vaga grazie al prospetto raffigurato in un disegno allegato all’atto di vendita del , quando i Serroberti lo cedette-ro ad Amerigo Capponi (fig. ).

Esso vi figura con una facciata quadrata, delimitata da un bugnato angolare il cui spessore andava degradando verso l’alto, e completata alla sommità da una balaustra composta da colonnette alternate a blocchi rettangolari riquadrati da specchiature. Due semplici fasce marcapia-no, che sopravanzavano negli angoli il bugnato, scandiva-no orizzontalmente la facciata e collegavascandiva-no tra loro le finestre dei due piani principali dell’edificio. Le finestre del secondo piano consistevano di un vano rettangolare riquadrato da una cornice liscia e continua, mentre una diversa cornice, sormontata da una trabeazione modana-ta, era riservata a quelle del piano nobile; sei finestre di forma quadrata, con incorniciature sagomate ai quattro angoli, erano invece allineate al livello del mezzanino. Al piano terreno si apriva un portale monumentale ad arco e bugnato, coronato dalla balaustra di una terrazza, simile nel modello a quella posta all’apice della facciata; lo fian-cheggiavano tre finestre, due da un lato ed una dall’altro, sostenute da mensole con volute, mentre al piano nobile e al secondo piano si intravedevano le aperture di aerazione delle cantine. Per la posizione eccentrica rispetto all’asse di facciata e per le grandi dimensioni, il portale rompeva il ritmo regolare delle finestre, che nei piani superiori e al di sopra di esso si distanziavano maggiormente l’una dall’altra, imprimendo alla facciata un effetto lievemente dinamico e “pulsante”. Sul lato sinistro del palazzo, quel-lo rivolto verso il vicoquel-lo delle Scalette, si ergeva, infine, una torre con grandi finestre centinate e sormontata da una piccola cupola arricchita da plastiche volute21.

Il disegno, una china su carta, è accluso alla documen-tazione del fondo Capponi – successivi proprietari – rela-tiva all’acquisto dell’edificio. Sebbene lo stemma apposto sul portone sia già quello dei Capponi (uno scudo trincia-to in nero e bianco od argentrincia-to22), i caratteri cinquecente-schi dell’edificio, quali le finestre del piano terreno, il bugnato angolare e il modello del portale, inducono a ritenere che tale rappresentazione grafica ne rispecchiasse lo stato al momento dell’acquisto, oppure costituisse un primo e sommario progetto di ristrutturazione, poco elaborato e dunque più prossimo alle condizioni origina-rie che alle modifiche poi effettivamente realizzate. È dunque plausibile che il documento, quale che ne fosse il movente, attesti in buona parte lo stato del palazzo cinquecentesco appartenuto ai Serroberti.



. Etienne Du Perac - Antonio Lafréry, La pianta di Roma prima di Sisto V, , particolare dell’area di via di Ripetta su cui sorgeva il palazzo all’epoca della famiglia Serroberti.

Roma, Fondazione Besso

Sull’architetto o sul “mastro” muratore che eseguì i la-vori del palazzo per la famiglia Serroberti non risulta, dalle fonti d’archivio che si sono consultate, alcuna indi-cazione. Solo nel Settecento, a distanza di circa duecento anni, comincia ad essere riportata in alcune guide di Ro-ma, assieme alla brevissima descrizione del “palazzo de’

Sig. Capponi”, la notizia, non suffragata però dalla menzione della fonte, che fosse stato “architettato dal Vignola”23. L’ipotesi relativa ad un’intervento del Vignola nella progettazione dell’edificio non appare contrastante, in linea generale, con alcune sue caratteristiche architetto-niche di matrice cinquecentesca e tipologicamente ricon-ducibili agli schemi edilizi che, nella Roma della metà del

XVIsecolo, si erano venuti consolidando per i palazzi cittadini ad opera di grandi architetti come il Sangallo, o lo stesso Vignola. Il tradizionale riferimento a quest’ulti-mo del progetto originario deve, tuttavia, intendersi forse alla stregua non di una vera e propria attribuzione, ma di un’indicazione di scuola, di una maniera esecutiva ispirata a diffusi moduli vignoleschi, evocati, nel caso del nostro palazzo, ad esempio dalla balaustra, di modello non trop-po dissimile da quello della Villa di Caprarola e del Ninfeo di Villa Giulia, dall’ordine dorico delle lesene interne al cortile e all’androne, oppure dal bugnato “rusti-co” impiegato per il portale che ne fa quasi un’autonoma struttura24.

Del resto, l’odierno stato delle conoscenze sulla genesi

cinquecentesca dell’edificio è talmente lacunoso da non consentire, senza l’apporto di basi testuali, sicure attribu-zioni. Pare, in ogni caso, potersi dubitare che la famiglia dei Serroberti, per quanto benestante, potesse pensare di commissionare la propria dimora direttamente ad un architetto negli stessi anni impegnato a realizzare per il pontefice Giulio IIIla Villa sulla via Flaminia; e se ciò an-che potesse ritenersi plausibile, risulterebbe invero inspie-gabile che Francesco e Geronimo, i quali con impegno ed orgoglio si diedero pensiero per la “casa de’ Serroberti”, non ne abbiano mai fatto cenno nei loro documenti.

Sul piano stilistico, inoltre, non meno peso sembrano avere alcuni caratteri architettonici dell’edificio, quali i cantonali in bugnato che ne delimitano la facciata, le fasce marcapiano lineari e le finestre riquadrate da cornici di estrema semplicità, che inducono a riconoscervi una versione sintetica e semplificata del modello di palazzo cittadino ideato da Antonio da Sangallo il Giovane e ripreso, in forme interpretative di poco variate, negli anni immediatamente successivi alla sua morte (), da alcuni suoi allievi ed epigoni.

A questo ambito culturale e, presumibilmente, ad un architetto minore della metà del Cinquecento pare dover-si ricondurre la progettazione del palazzo. L’occadover-sione della presente ricerca e la sua particolare impostazione non hanno consentito l’esplorazione di fondi archivistici ulteriori rispetto a quelli che si sono sistematicamente indagati, i quali potrebbero forse contenere altre notizie sulla cui base formulare una più precisa attribuzione.

NOTE

1Scritture diverse spettanti al Palazzo Capponi, in AC, Archivio Cardelli, Div. I, vol. 70, f.12.

2VANGULIKG. - EUBELC., 1923, III, pp. 19, 183, 196.

3Gli ingenti prestiti per le due imprese ammontarono, rispettivamente, a 30000 e a 40000 ducati.

4LITTAP., 1819-1899, fascicolo 18, tav. III. Per la biografia di Niccolò e Luigi Gaddi si veda ARRIGHIV., 1998, pp.161-164. Su Niccolò Gaddi si veda anche MORONIG., 1840-1879, vol. XXVIII (1844), pp. 91-92, e PROSPERIA., 1981, vol. XIX, pp. 598-602.

5I due motu propri di Leone X sono pubblicati in MERCATIA., 1923, pp.

122-123.

6Un documento datato 13 febbraio 1520 attesta la donazione di un terreno, avvenuta già da qualche tempo, da parte di Leone X, a Niccolò Gaddi, Bartolomeo Della Valle e Raimondo Capodiferro. Per questo docu-mento, conservato in Archivio Vaticano, Arm. 29, T. 70, f.24, cfr. MERCATI A., 1923, pp. 125-126.

7Il Sansovino, architetto del palazzo nel Rione Ponte (oggi palazzo Piccolini-Amici in via del Banco di S. Spirito), fu presumibilmente legato alla famiglia Gaddi da vincoli di amicizia, avendo in precedenza lavorato



. Antonio Tempesta, La pianta di Roma al tempo di Clemente VIII, , particolare dell’area di via di Ripetta su cui sorgeva il palazzo all’epoca della famiglia Serroberti.

Roma, Fondazione Besso

anche per il fratello Giovanni. Non è forse inutile tratteggiare qui la sua personalità di collezionista e di erudito, se ciò può aver influito su presumi-bili attribuzioni alla sua illustre famiglia del palazzo, successivamente operate da altri proprietari. Di Giovanni Gaddi, fratello minore di Luigi e Niccolò e, come quest’ultimo, avviato alla carriera ecclesiastica, è infatti data notizia, nelle Vite del Vasari, delle frequentazioni avute fin dalla giovi-nezza con diversi artisti e con l’ambiente dei collezionisti fiorentini: “Aveva preso dimestichezza grande con Andrea (del Sarto) per le virtù sue Giovanni Gaddi, che fu poi chierico di camera, il quale per delettarsi de l’arte del disegno, faceva del continuo operare Iacopo Sansovino. E così piacendoli la maniera di Andrea, gli fece fare per sé un quadro d’una Nostra Donna, bellissimo; il quale per avervi fatto intorno e modegli et altre fatiche ingegnose, fu stimato la più bella pittura che infino allora Andrea avesse dipinto”. Sempre dal Vasari apprendiamo che Giovanni acquistò diverse “anticaglie” provenienti dalla collezione di sculture anti-che di Lorenzo Ghiberti, fra cui un torso di Satiro, oggi agli Uffizi, e anti-che la sua raccolta d’arte – pare lecito ipotizzarne l’esistenza - comprendeva un disegno di Leonardo da Vinci, avuto in dono da Fabio Segni, raffigurante Nettuno. Alcune lettere a Michelangelo, inoltre, testimoniano l’interesse culturale del Gaddi e lasciano anche supporre una frequentazione di questo artista durante il suo soggiorno romano (VASARIG., (1550), 1986, pp. 258, 549, 704). La competenza artistica e il gusto raffinato di Giovanni contribuirono a procurargli compiti prestigiosi anche nella carriera eccle-siastica: se il fratello Niccolò era stato elevato, dal grato Pontefice, alla porpora cardinalizia, alcuni anni dopo Giovanni veniva dal Pontefice desi-gnato, come si legge in una coeva descrizione della visita di Carlo V, a disporre gli apparati per una degna accoglienza a Roma dell’Imperatore. A tali interessi culturali ed artistici non dovette essere estraneo lo stesso Luigi Gaddi, poiché il Vasari menziona in suo possesso un’importante dipinto del Parmigianino nel quale erano raffigurati “una Madonna con un Cristo,

anche per il fratello Giovanni. Non è forse inutile tratteggiare qui la sua personalità di collezionista e di erudito, se ciò può aver influito su presumi-bili attribuzioni alla sua illustre famiglia del palazzo, successivamente operate da altri proprietari. Di Giovanni Gaddi, fratello minore di Luigi e Niccolò e, come quest’ultimo, avviato alla carriera ecclesiastica, è infatti data notizia, nelle Vite del Vasari, delle frequentazioni avute fin dalla giovi-nezza con diversi artisti e con l’ambiente dei collezionisti fiorentini: “Aveva preso dimestichezza grande con Andrea (del Sarto) per le virtù sue Giovanni Gaddi, che fu poi chierico di camera, il quale per delettarsi de l’arte del disegno, faceva del continuo operare Iacopo Sansovino. E così piacendoli la maniera di Andrea, gli fece fare per sé un quadro d’una Nostra Donna, bellissimo; il quale per avervi fatto intorno e modegli et altre fatiche ingegnose, fu stimato la più bella pittura che infino allora Andrea avesse dipinto”. Sempre dal Vasari apprendiamo che Giovanni acquistò diverse “anticaglie” provenienti dalla collezione di sculture anti-che di Lorenzo Ghiberti, fra cui un torso di Satiro, oggi agli Uffizi, e anti-che la sua raccolta d’arte – pare lecito ipotizzarne l’esistenza - comprendeva un disegno di Leonardo da Vinci, avuto in dono da Fabio Segni, raffigurante Nettuno. Alcune lettere a Michelangelo, inoltre, testimoniano l’interesse culturale del Gaddi e lasciano anche supporre una frequentazione di questo artista durante il suo soggiorno romano (VASARIG., (1550), 1986, pp. 258, 549, 704). La competenza artistica e il gusto raffinato di Giovanni contribuirono a procurargli compiti prestigiosi anche nella carriera eccle-siastica: se il fratello Niccolò era stato elevato, dal grato Pontefice, alla porpora cardinalizia, alcuni anni dopo Giovanni veniva dal Pontefice desi-gnato, come si legge in una coeva descrizione della visita di Carlo V, a disporre gli apparati per una degna accoglienza a Roma dell’Imperatore. A tali interessi culturali ed artistici non dovette essere estraneo lo stesso Luigi Gaddi, poiché il Vasari menziona in suo possesso un’importante dipinto del Parmigianino nel quale erano raffigurati “una Madonna con un Cristo,

Nel documento Palazzo Capponi (pagine 48-54)