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I partiti come strumento per garantire ai cittadini l’esercizio

2. Il ruolo dei partiti

2.2. I partiti come strumento per garantire ai cittadini l’esercizio

L’altra dimensione dei partiti attiene alla funzione strumentale da essi rappresentata in merito alla garanzia dei diritti individuali e in particolare di quelli di partecipazione politica38.

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Art. 14, comma 5, reg. Camera.

36 Quest’ultimo collegamento si realizza, da un lato, attraverso l’adesione dei parlamentari, eletti nella lista collegata al partito, al gruppo che si richiama allo stesso partito; dall’altro lato, attraverso un coinvolgimento anche formale dei responsabili di detti gruppi nelle strutture direttive del partito; e dall’altro ancora, sul piano sostanziale, in stretta dipendenza con del gruppo dalla linea politica decisa dal partito. Tale dipendenza richiede e presuppone una forte disciplina interna, senza la quale lo schema presupposto (partito-gruppo-singolo parlamentare) non raggiunge l’obiettivo voluto. Questa disciplina è talmente forte da far sostenere che a fronte del divieto di mandato imperativo sancito dalla Costituzione si è nei fatti realizzato un “mandato imperativo di partito”, mediante il quale il singolo parlamentare risulta soggetto e vincolato nelle proprie decisioni all’orientamento assunto dal partito.

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A. MANZELLA, op. cit., p. 99. 38

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In questo contesto è prioritaria la considerazione relativa al diritto di iscrizione, che la Costituzione garantisce stabilendo che «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti». Tale formula ribadisce quanto previsto per tutte le forme associative (di cui i partiti fanno parte) dall’art. 18 Cost., secondo cui «i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazioni»39. Ciò si

perché per molto tempo i partiti hanno assolto a questa funzione in senso ampio, come luoghi in cui le persone hanno cercato e trovato un senso di appartenenza che è andato al di là della mera partecipazione politica, assumendo una valenza socializzante in senso generale connessa alla sfera complessiva di vita degli individui. Proprio grazie al forte legame costituito dalla condivisione di una comune visione del mondo e della storia, i partiti italiani hanno infatti svolto una funzione di integrazione sociale a tutto tondo. Attraverso un’organizzazione capillare diffusa nel territorio (le sezioni, le cellule, i circoli…) essi hanno consentito ai cittadini di riconoscervisi al di là delle finalità politiche comuni, garantendo loro un livello di sicurezza sociale, di identificazione e di integrazione sul territorio. Ciò comportava una forte fidelizzazione degli iscritti al partito, la cui adesione difficilmente veniva meno anche nell’ipotesi di cambiamenti significativi di linea politica. Letto positivamente questo fenomeno consente di valorizzare il particolare sviluppo che i partiti, quali formazioni sociali, hanno avuto nell’esperienza italiana contribuendo alla crescita qualitativa del nostro assetto democratico. Tutto ciò viene significativamente meno quando muta la natura del partito e la sua conformazione (vedi nota 74). E sebbene in alcuni partiti si cerca ancora di mantenere quel tipo di impostazione, essa si dimostra chiaramente indebolita (anche a causa dei mutamenti sociali e culturali intervenuti). E. ROSSI, op cit., pp. 29-30.

39 La Costituzione italiana non contiene alcuna indicazione espressa sul problema dei rapporti fra singolo aderente e partito politico, né regola il diritto dei cittadini o degli stranieri ad essere ammessi ovvero a non essere arbitrariamente impediti dall’entrare in un partito. Si tratta di una problematica non irrilevante soprattutto perché, in un sistema politico in cui solo un esiguo numero di partiti riesce di fatto ad assumere un peso determinante nella vita politica nazionale, riconoscere ai partiti la possibilità di respingere a proprio piacimento una domanda di ammissione potrebbe limitare il diritto degli individui alla partecipazione alla vita politica. In altri termini, la facoltà per i cittadini di concorrere alla determinazione della politica nazionale è destinata a rimanere sulla carta se non si ha la possibilità di far parte di uno dei partiti inseriti nel sistema. Di controverso, se in un sistema pluripartitico “oligopolistico” i cittadini non avessero alcun diritto ad essere ammessi ai partiti, quest’ultimi potrebbero controllare di fatto la partecipazione dei cittadini alla vita politica, senza poter essere a loro volta controllati né condizionati.

In questo senso è stata affermata l’esistenza di un obbligo dei partiti di ammettere tutte le persone che, essendo in possesso dei requisiti richiesti dagli statuti, richiedano l’iscrizione e di un corrispondente diritto soggettivo perfetto dei singoli a far parte di un partito. Questo non significa che esista il diritto di iscriversi a un partito contro la volontà dello stesso, perché quest’ultimo ha un legittimo interesse alla salvaguardia della propria identità, cioè in primo luogo della propria caratterizzazione ideologica. Tant’è vero che tutti gli statuti subordinano l’iscrizione dei nuovi associati all’accettazione dei principi ideologici e del programma politico del partito, ai cui organi interni non può essere perciò negata una valutazione in ordine al possesso, da parte di chi chiede l’iscrizione, dei requisisti previsti dallo statuto. Tutto ciò significa che se ad una persona viene rigettata la domanda di ammissione in violazione delle disposizioni statuarie, essa può ricorrere al giudice al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento di rigetto ed eventualmente la

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sostanzia in una serie di diritti connessi alle diverse fasi del rapporto e in particolare nei diritti di costituire un partito, di aderire ad un partito già esistente, di recedere dal partito a cui si è iscritti e di non iscriversi ad alcun partito40.

Gli unici limiti che possono essere introdotti dalla legge sono previsti dall’art. 98 Cost. e riguardano alcune categorie di dipendenti pubblici: i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. Lo scopo della disposizione, attuata peraltro solo con riferimento al personale civile e militare dell’amministrazione di pubblica sicurezza (d.l. 24 aprile 1945, n. 121) e agli appartenenti alle forze di polizia (legge 1° aprile 1981, n. 121), è infatti di evitare che l’appartenenza partitica possa condizionare l’esercizio di funzioni pubbliche particolarmente delicate e per le quali è richiesto un forte grado di dipendenza politica41.

Più delicato e complesso, soprattutto alla luce dell’aumento del fenomeno migratorio nel nostro Paese e della progressiva integrazione dell’Italia nel processo di unificazione europea, è il problema rappresentato dalla necessità di ritenere il diritto sancito dall’art. 49 Cost. limitato ai soli cittadini o di estenderlo anche agli stranieri.42

condanna al risarcimento dei danni subiti. Tuttavia in tale ipotesi il giudice, al fine di non trasformarsi in un «arbitro dell’ortodossia e delle deviazioni dell’ideologia, della verità e dell’eresia», non potrà sindacare il merito del provvedimento (F. RESCIGNO, I partiti politici, in I diritti costituzionali, a cura di R. Nania e P. Ridola, vol. II,

Giappichelli, Torino, 2006, p. 735). I poteri del giudice in tale ambito sono perciò molto ridotti e l’ammissione al partito resta una scelta discrezionale del partito stesso e in particolare dei suoi organismi dirigenti. E. ROSSI, I partiti politici, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 43-44.

40 C. R

OSSANO, voce Partiti politici, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXII, Roma, 1990, Agg. 2002, pp. 1 ss.

41 Il divieto di svolgere determinate attività da parte degli iscritti ad un partito può essere considerato nell’ambito del più generale divieto d’iscrizione ai partiti ,che l’art. 98 Cost. autorizza la legge ad introdurre per particolari categorie di dipendenti pubblici. Entrambe le misure infatti rispondono alla medesima ratio di evitare che i funzionari indicati, per particolarità ed importanza delle funzioni svolte, possano essere sospettati di partigianeria e parzialità. A oggi il divieto di svolgere attività proprie agli iscritti a un partito politico è stato previsto per i giudici costituzionali (art. 8, legge 11 marzo 1953, n. 83) e per i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 33, comma 5, legge 24 marzo 1958, n. 195, aggiunto con l’art. 12, legge 12 aprile 1990, n. 74).

42 La locuzione “cittadini” usata nell’art. 49 Cost. è stata intesa dalla dottrina prevalente come divieto di iscrizione per gli stranieri. Mentre tuttavia alcuni sostengono che tale divieto discenda direttamente ed inderogabilmente dall’art.49 Cost., altri ritengono che esso non sussista in assenza di un espresso intervento legislativo, fermo restando che in ogni caso gli stranieri iscritti non possono compiere atti che presuppongono la cittadinanza italiana (ad esempio presentare candidature).

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Nella realtà attuale i partiti sono liberi di iscrivere chi vogliono e nessun controllo esterno è possibile sul reclutamento e sull’organizzazione interna dei partiti stessi, al fine di non vulnerare la libertà degli associati di valutare liberamente le ammissioni alla qualità di iscritto43. Poiché è necessario che la «politica nazionale» non sia determinata da soggetti esterni rispetto al popolo, l’equilibrio tra queste due realtà è di fatto demandato ai partiti stessi, che possono stabilire nei loro statuti i criteri e regole procedurali e sostanziali per l’ammissione dei cittadini. Al di fuori dei casi indicati la legge non può invece prevedere ulteriori limiti al diritto di iscriversi ai partiti.

Il cittadino tuttavia non può considerarsi garantito nel suo diritto solo in quanto iscritto al partito. Occorre infatti che tale iscrizione si sostanzi in una serie di garanzie atte a far sì che la sua partecipazione alla vita del partito sia effettiva e capace di incidere sulle scelte che il partito stesso è chiamato a realizzare. Tali garanzie sono comunemente definite mediante l’espressione “democrazia interna”, denotante quell’insieme di regole necessarie a far sì che le decisioni assunte dal partito rispondano alla volontà di quanti ad esso partecipano, con la predisposizione di norme e meccanismi interni atti a garantire possibilità e qualità della partecipazione.

Tale tema, investendo in linea generale l’autonomia organizzativa del partito finalizzata alla sua stessa libertà di azione, ha messo in dubbio l’ammissibilità costituzionale di misure legislative tendenti a garantire forme di democrazia interna e tende ad escludere la possibilità di interventi esterni finalizzati a garantire il rispetto delle regole statutariamente poste.

La possibilità di una conduzione autoritaria del partito è contraria alla formulazione dell’art. 49 Cost. che implica che i partiti siano organizzati in modo tale da consentire ai cittadini di esercitare il loro diritto. Tuttavia, anche ammettendo che una qualche regola di democrazia interna sia necessaria, il problema si sposta sulle modalità mediante le quali garantire tale esigenza. L’ipotesi di prevedere una disposizione legislativa che imponga l’adozione di regole formali ha

C. ROSSANO, op. cit., p. 3. Tale situazione non sussiste per i cittadini comunitari che sono titolari dell’elettorato attivo e passivo (elezioni comunali e del parlamento europeo) oltre che nel proprio Stato, anche in quello di residenza nell’ambito comunitario (artt. 19 e 190 del TUE). Essi possono pertanto iscriversi a dei partiti se residenti in Italia, potendosi ritenere che la politica nazionale sia variamente influenzata dal sovrastante livello comunitario.

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un valore molto limitato. Non basta infatti uno statuto democratico per garantire una prassi democratica, soprattutto se le regole statuarie non sono sindacabili ab externo, ad esempio da parte di un giudice. D’altra parte il ruolo peculiare attribuito ai partiti rende impossibile e non auspicabile un controllo interno da parte dei giudici se non in casi eccezionali. La democrazia interna è quindi un principio rimesso sostanzialmente alla buona volontà del partito stesso e dei suoi aderenti. Per tale motivo i numerosi disegni di legge tendenti ad introdurre regole di democraticità, presentati nelle varie legislature, non sono mai giunti ad un esito positivo; e anche laddove delle regole siano state legislativamente poste (ad esempio nella prima legge sul finanziamento pubblico dei partiti), esse non sono mai state di fatto attuate44.