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4 Patrimonio ambientale e paesaggistico

Fabio Taffetani 59, Annette Habluetzel 60, Andrea Lancioni 61, Paolo Perna62 I sette decimi (68,8%) della superficie regionale delle Marche sono costituiti da territorio collinare (comprensivo delle rare pianure). Si tratta di un’area impor- tante e tradizionalmente occupata dalle attività agricole, oltre che dagli insedia- menti urbani, artigianali ed industriali. Eppure, sia dal punto di vista economico che ambientale, le aree coltivate sono considerate un territorio neutro, privo di valori propri, solo un vago ed indistinto sfondo, una quinta della quale mancano precisi elementi identificativi che ci permettano di notare i suoi cambiamenti nel tempo e nello spazio. Il paesaggio delle campagne dell’Italia centrale, per oltre tre secoli (dalla metà del Seicento sino alla metà del Novecento), come osserva- va Sereni (1961) nella Storia del paesaggio agrario italiano, è stato caratterizzato dall’alberata tosco-umbro-marchigiana. L’evoluzione delle tecniche produttive, nell’ultimo mezzo secolo, accompagnata dal grande sviluppo della meccanizza- zione e dall’esplosione dell’industria chimica, ha determinato un enorme cam- biamento nelle modalità di coltivazione che, a loro volta, hanno prodotto pro- fonde trasformazioni del paesaggio e degli ecosistemi agrari. Osservatori attenti della nostra realtà regionale, già alla fine degli anni Settanta, denunciavano mo- dificazioni e rischi. Mangani e Anselmi (1979) così ammonivano ne Il territorio dei beni culturali (1979):

“Se le cose continueranno così come sono andate negli ultimi tempi (ed è evi- dente che il problema è pubblico e non privato) è assai probabile che – senza migliorare l’economia agricola – distruggeremo, in dieci anni, ciò che il conta- dino marchigiano ha costruito in dieci secoli”.

59 Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali; mail: f.taffetani@univpm.it

60 Università Politecnica delle Marche, Scuola di Scienze del Farmaco e dei Prodotti della Salute; mail: annette.habluetzel@unicam.it

61 Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali; mail: andrealancioni@hotmail.com

La politica agricola è, nel frattempo, passata sostanzialmente nelle mani dell’U- nione Europea e gli operatori del settore hanno gradualmente perso le tradizio- nali forme di aiuto e di sostegno, per entrare sempre più negli ingranaggi delle regole del mercato. La necessità di ridurre i tempi di lavorazione e i costi della manodopera ha spinto i produttori agricoli ad ampliare le superfici lavorate (a parità di tempo e di operatori impiegati) e ad ulteriori semplificazioni della vege- tazione marginale, dell’idrografia minore e della morfologia dei terreni, determi- nando una condizione di progressivo aggravamento della fragilità dei versanti. In questo saggio vengono approfondite le dinamiche trasformative delle aree agro- silvo-pastorali, concentrando l’attenzione nel caso studio della Valle del Cossu- dro (Sibillini orientali) che per le caratteristiche geografiche, ambientali e socio economiche, può considerarsi rappresentativa dell’intera area del cratere.

4.1 - Perdita di biodiversità degli agroecosistemi

L’agroecosistema è una forma semplificata dell’ecosistema, in quanto l’ambiente agricolo viene il più possibile adattato alle esigenze produttive, favorendo le spe- cie coltivate a discapito di quelle spontanee. Nel passato, il paesaggio agrario era caratterizzato da un maggior numero di elementi naturali, quali siepi, filari, bo- schetti e prati. Negli ultimi decenni, invece, il progressivo sviluppo della tecno- logia (meccanizzazione, uso massiccio di prodotti di sintesi, monocolture sempre più estese e ripetute, scelte produttive avulse dal territorio) ha portato a una con- tinua e inesorabile semplificazione del sistema, con la cancellazione di gran parte del reticolo idrografico minore e la scomparsa delle aree marginali e il sorgere di vari problemi di carattere ambientale. È stato possibile misurare la perdita di bio- diversità del territorio agricolo marchigiano sulla base di dati diacronici (Taffeta- ni, 2009; Taffetani et al., 2009) e applicando bio-indicatori specifici (Taffetani, Rismondo, 2009; Rismondo et al., 2011; Taffetani et al. 2011), dai quali risulta una vistosa perdita di biodiversità dei boschi residui collinari delle Marche a par- tire dagli anni ’60.

Mentre quanto sopra accennato avveniva nelle zone collinari, vallive e costiere, in quasi tutta la fascia altocollinare e montana si realizzava un rapido e altrettan- to rovinoso abbandono delle attività produttive agricole, zootecniche e forestali (Fig. 1). Paradossalmente i danni derivanti dall’eccessivo sfruttamento in collina

e dall’abbandono del territorio in montagna hanno sortito effetti analoghi: perdi- ta o erosione della biodiversità. Mentre è più facile intuire quanto accaduto nelle zone collinari e vallive (anche se mancano dati che permettano di misurare il gra- do di semplificazione raggiunto), risulta spesso incompreso il fenomeno di im- poverimento della biodiversità avvenuto nelle aree montane e altocollinari: qui infatti si è assistito al processo opposto di abbandono delle attività produttive e di lento ma inesorabile esodo abitativo, con la conseguenza che sono aumentate le superfici forestali (un grado più elevato di maturazione dell’ecosistema) a di- scapito della semplificazione degli ambienti (perdita del mosaico dei campi e dei pascoli) e quindi con perdita di complessità e di biodiversità, per la ridotta capa- cità di offrire ambienti rifugio. In entrambi i casi, dal punto di vista della conser- vazione, è ormai evidente che gli strumenti di intervento non possano più essere costituiti solo da norme e divieti, ma si rende sempre più necessaria una politi- ca di governo del territorio e delle attività produttive attenta alle dinamiche am- bientali ed economico-sociali, oltre che all’interazione che molte scelte in settori produttivi diversi possono avere. È necessario quindi investire nelle attività di ri- cerca e di sperimentazione (ad oggi ancora largamente insufficienti), per avere gli strumenti informativi necessari per operare scelte consapevoli.

4.2 - Cenni storici sull’attività agro-silvo-pastorale e sui fenomeni connessi nell’area dei Sibillini orientali - L’industria laniera e l’allevamento nel XV secolo

L’allevamento ovino rappresenta nel XV secolo la principale risorsa del versan- te orientale dei Monti Sibillini, data l’ampia disponibilità di fertili pascoli, che hanno un ruolo peculiare nello sviluppo della pastorizia. I prodotti di questa at- tività sono carni, latte, formaggi e in particolar modo lana, determinante nello sviluppo dell’attività di produzione dei panni lana. La lavorazione della lana, uni- tamente alla produzione di manufatti d’altro genere, rappresenta, nel corso del 1400, le attività di maggior rilevanza nei centri pedemontani stretti tra le mon- tagne ad ovest e la fascia collinare ad est. Allo stesso tempo, si verifica lo sviluppo delle attività di commercio, che partono dal recinto montano ed alto collinare compreso tra Aso e Tenna, e culminano in coincidenza dei maggiori appunta- menti fieristici della zona, tra i quali sono degni di menzione quelli di Recanati, Norcia e Fermo. Le fiere sono a carattere misto e i prodotti scambiati sono prin-

cipalmente panni lana, formaggio e bestiame in uscita, grano, zucchero, spezie e cera lavorata in entrata. In tale contesto storico, Montefortino si ritaglia un ruo- lo di primaria importanza, sia per ciò che riguarda la produzione che per quanto concerne la commercializzazione delle manifatture laniere. La lana viene lavora- ta nei laboratori comunali, spesso dati in gestione agli stessi commercianti, e si avvalgono della manodopera fornita dai ceti sociali più poveri, spesso pesante- mente indebitati e ricompensati in natura, per mezzo delle provviste alimentari indispensabili all’autosufficienza. La materia prima è ampiamente disponibile sul mercato in quanto reperita lungo tutta la fascia pedemontana, da Amandola a Montemonaco, quest’ultima ad economia strettamente pastorale. In tale conte- sto spazio-temporale, si registra una variegata rete di relazioni fra interessi locali ed esterni, che si avvalgono della presenza di piccoli allevamenti stanziali, delle soccide di piccole greggi ai piccoli proprietari locali, della costituzione di società tra montefortinesi e forenses, che portano alla formazione di masserie vicine an- che ai 1000 capi, della presenza in loco di bestiame transumante, che prima di ripartire per le località basso collinari del versante adriatico viene tosato nei cen- tri subappenninici (Gobbi, 2003). Il Quattrocento inoltre fa anche registrare l’o- rigine di un processo di ruralizzazione della fascia alto-collinare e montana; que- sto avrebbe subito una netta intensificazione nei decenni successivi, dopo che nel Trecento, in seguito a pestilenze e cali demografici, si era verificata la tendenza all’abbandono dei terreni coltivati. In questo periodo storico, per la messa a col- tura delle terre, è anche richiesta manodopera esterna, reperita per lo più grazie alle immigrazioni dai paesi balcanici (Mazzoni, 2000).

4.3 - I processi di espansione agricola nei secoli XVI e XVII

Nel corso del 1500, nei Sibillini adriatici, si diffonde il sistema mezzadrile e si accentua il già citato processo di ruralizzazione. Le cause di questi fenomeni van- no ricercate in avvenimenti storici che furono causa di alcuni cambiamenti for- zati nelle strategie economiche dei comuni dell’area in questione. In primis, si ricordano la grave crisi annonaria e la successiva peste del 1522-1523, che deter- minarono situazioni debitorie ingenti e il netto impoverimento delle popolazio- ni locali. Per far fronte a tale situazione i comuni procedono alla privatizzazio- ne delle terre, all’affitto dei territori comunali ai grandi proprietari e ai borghesi, all’accorpamento dei piccoli appezzamenti montani in estesi pascoli. Il processo

di privatizzazione dei terreni altera gli equilibri di utilizzo del suolo, fino ad allo- ra basati in prevalenza sulla proprietà collettiva, ed incentiva la messa a coltura di molte delle terre che in precedenza erano di proprietà comunale. Nel XVI seco- lo si verifica di conseguenza una migrazione di piccoli agricoltori dalle contrade montane alle zone collinari e vallive; le terre in quota, destinate al pascolo del be- stiame ovino, vengono date in affitto ai migliori offerenti, vale a dire borghesi cit- tadini o, sempre più frequentemente, forestieri, che arrivano dunque a detenere il monopolio sui pascoli montani, tanto da poterli poi subaffittare, in una logica prettamente speculativa. La mancanza di mezzi economici per il pagamento de- gli affitti e la sempre minore disponibilità di risorse pabulari destinate all’utilizzo del bestiame stanziale, determina un netto calo dello stesso, tanto che la maggior parte degli allevatori locali ormai non possiede più di 20 pecore ciascuno. Allo stesso tempo, l’attività pastorale va evolvendosi in attività agricola, fortemente incoraggiata dalle privatizzazioni dei terreni alto-collinari, in cui l’allevamento non rappresenta che una attività complementare, se non addirittura marginale; in questa situazione, cala il numero degli ovini mentre aumentano i bovini, fon- damentali per la lavorazione dei terreni. Mentre l’alta collina e la valle si arricchi- scono di appezzamenti coltivati, gli omogenei pascoli di montagna vengono uti- lizzati dalle greggi transumanti, provenienti in prevalenza dalle campagne laziali e dal vissano; nell’altro versante dei Sibillini infatti la pastorizia rimarrà, per il se- colo in questione ed anche per i successivi, la risorsa principale, in mano ai gran- di proprietari originari di Visso. Questo processo di arricchimento porterà poi gli stessi ad investire i loro capitali in altri settori e in altre regioni, contribuendo all’inizializzazione di un irreversibile distacco tra gli abitanti della montagna e le risorse della stessa. Sempre nel 1500 si verifica il netto calo dell’attività pastorale transumante relativa alle zone basso-collinari e costiere marchigiane, a causa del già descritto processo di appoderamento, in rapido sviluppo in tutta la regione, e delle misure protezionistiche adottate dallo Stato Pontificio in favore delle greggi laziali. Nelle situazioni di maggiore pressione demografica i proprietari locali, per lo più piccoli allevatori ed agricoltori, e gli allevatori forestieri, risultano essere gli attori di un’aspra contesa per quanto riguarda l’utilizzo dei terreni. La delicata si- tuazione impone la mediazione da parte dei comuni e della borghesia cittadina, che ha il fine di instaurare un equilibrio negli usi del suolo tra le due parti. Nono- stante le risorse pabulari montane siano in gran parte utilizzate da allevatori non autoctoni, nel corso del 1500 e per parte del 1600, tuttavia, la pastorizia rimane ancora una risorsa fondamentale per alcuni paesi appenninici, come ad esempio

Montefortino. La borghesia locale infatti detiene ancora il controllo di molti pa- scoli e la produzione di pannilana seppure in calo, è ancora viva. Montemonaco, località montana nella quale la messa a coltura delle terre è stata meno intensa in questo primo periodo, rimane a maggior ragione ancorata alle sue solide tra- dizioni di comunità pastorale. A partire dalla metà del 1600 inizia il processo di separazione definitiva tra utilizzo dei pascoli di montagna e agricoltura collinare e valliva; le cause principali di tale fenomeno risultano essere le gravi carestie e l’epidemia di peste registrate tra 1660 e 1670, il conseguente e definitivo crollo dell’industria laniera in zona, l’impoverimento della borghesia locale e la perdita del controllo dei pascoli, ora esclusivamente in mano a forestieri, l’autosufficien- za foraggera raggiunta dall’economia agricola a prevalente conduzione mezzadri- le nella fascia vallivo- collinare dei Sibillini adriatici (Mazzoni, 2000).

4.4 - La pressione demografica, i fenomeni migratori stagionali e il depau- peramento delle risorse boschive nei secoli XVIII e XIX

Il fenomeno di marginalizzazione e di espulsione della montagna dal sistema produttivo, a favore di una attività prevalentemente agricola, si completa nel 1700. In questo secolo, la pastorizia diviene una attività secondaria per l’econo- mia locale sui Sibillini orientali, soprattutto perché esce definitivamente dal con- trollo della borghesia locale. Se a questa condizione i centri come Montefortino e Amandola trovano rimedio economico con lo sfruttamento delle terre coltiva- bili, ben più grave risulta essere la situazione dell’abitato di Montemonaco, più strettamente legato al territorio montano e all’allevamento delle pecore. Il mas- siccio indebitamento e la vendita di gran parte del bestiame da parte dei proprie- tari locali, priva i medesimi delle uniche risorse materiali di sostentamento. Si assiste anche ad una crescente spinta alla privatizzazione delle risorse collettive, attivamente ostacolata dalle comunanze, che mantengono comunque un ruolo importante nella gestione del territorio di Montemonaco. Le gravi condizioni economiche determinano fenomeni di dissodamento e messa a coltura di terre ad altezze proibitive, fin sulle falde della Sibilla; ma i terreni montani si dimostrano da subito poco produttivi e soggetti all’erosione, e non riescono a soddisfare la ri- chiesta di cereali della popolazione. Non riuscendo a raggiungere l’autosufficien- za con i prodotti agricoli, le popolazioni locali sono costrette a barattare l’unica forza lavoro che è ormai a loro disposizione per continuare a vivere; con queste

premesse prende avvio, a partire dai contesti più marginali, uno dei fenomeni economici e sociali di maggiore importanza dei Sibillini adriatici, cioè l’immi- grazione stagionale verso la Maremma laziale (Gobbi, 2003). Il 1800 è caratte- rizzato da un aumento della pressione demografica e dalla crescente insufficienza di produzioni agricole, che continuano a non garantire la sussistenza degli agri- coltori e delle loro famiglie. In questo periodo i prodotti dell’area montana sono soprattutto granoturco, oltre a ghiande, castagne, fagioli, cicerchia, e in minor parte grano e patate. L’affermazione del mais in montagna era iniziato già a par- tire dalla metà del settecento, in periodi di carestia, grazie alle sue alte rese, all’e- levata adattabilità e alla scarsa esigenza di lavoro; la patata, a causa della diffiden- za degli agricoltori nei confronti della maggior parte delle colture esotiche, viene introdotta invece solo a metà Ottocento (Paci, 1996). Le rotazioni prevedono il succedersi del mais con grano, legumi, foraggi e ancora grano; quest’ultimo è coltivato anche alle quote più alte, alternato solitamente a due anni di pasco- lo. In molte circostanze però lo sfruttamento dei terreni provoca un loro succes- sivo abbandono, seguito da una rapida trasformazione prima in magri pascoli, poi in ginestreti; l’incidenza sulla copertura del suolo di questi ultimi tra 1826 e 1929 nell’area dei Sibillini ascolani registra un incremento netto con passaggio dall’1,7% all’7,8% (Paci, 2001). Tra le altre attività praticate al tempo si ricorda- no, oltre all’agricoltura, il piccolo allevamento, la produzione di legna da fuoco e carbone, la caccia alle colombe, quest’ultima nello specifico soprattutto a Mon- temonaco (Vernelli, 2001). Quel fenomeno migratorio, iniziato già a metà Set- tecento, si intensifica e si estende a tutta l’area pedemontana, fino a che la zona non diviene il più importante bacino di reclutamento per la società armentizia la- ziale. Il flusso di lavoratori stagionali è costituito da contadini proprietari di pic- coli poderi, affittuari agricoli e braccianti che, diversamente dai pastori salariati, si trovano in una costante situazione di precariato, che li costringe a lavori agri- coli di fortuna. L’emigrazione dura da ottobre-novembre a maggio-giugno ed è resa possibile anche dalla complementarietà tra ciclo cerealicolo breve delle cam- pagne tirreniche e ciclo cerealicolo lungo delle zone appenniniche. Il fenomeno migratorio stagionale costringe gli agricoltori proprietari di appezzamenti a sta- re lontani dal loro fondo per buona parte dell’anno contribuendo decisamente a frenare il rinnovamento dell’attività agricola; allo stesso tempo si può constatare l’impoverimento dell’intera struttura socio-economica delle comunità montane, in quanto insieme ai sopraccitati contadini, affittuari e braccianti, spesso sono costretti a partire anche gli artigiani o i lavoratori, le cui attività sono legate alle

attività agricole, e che, allo stato dei fatti nel XIX secolo, trovano maggiori op- portunità di lavoro in aree di residenza non stabile, come l’Agro Romano (Maz- zoni, 2000). Congiuntamente ai fenomeni migratori e di stagnazione economi- ca, all’aumento demografico e alla messa a coltura di quante più terre possibili, questo secolo si distingue nella zona pedemontana ascolana anche per il grave depauperamento delle superfici boscate, dovuto al taglio dell’uomo e dal morso di pecore e capre al pascolo. In una situazione in cui i prodotti agricoli non so- no sufficienti a garantire un equilibrio alimentare e economico, oltre alla vendita della forza lavoro, rimane come ultima risorsa lo sfruttamento delle superfici fo- restali. La vendita sui mercati cittadini interessa, in particolar modo, beni a cui si è già accennato, come carbone e legna da ardere; la grave condizione compor- ta spesso il sacrificio di parte di proprietà collettive, che pure erano considerate inattaccabili e indivisibili dalle popolazioni locali; il disboscamento forsennato causa tra l’altro la definitiva estinzione delle abetaie, intorno alla metà del secolo. Nell’area appenninica comprendente anche i territori di Montemonaco e Mon- tefortino il calo delle superfici forestali sembra meno netto rispetto a quello re- gistrato nel territorio alto collinare ascolano, in quanto i boschi, che nel 1826 coprivano il 17,9% della superficie agraria e forestale, scendono di poco, fino ad attestarsi al 16,8% nel 1910. Questa flessione, all’apparenza abbastanza lieve, ce- la però l’effettiva conversione della maggior parte delle aree di bosco a fustaia in zone ad utilizzo ceduo (Paci, 2001).

4.5 - Il secolo XX: verso l’abbandono della montagna

Prima del XX secolo si assiste ad una polverizzazione delle proprietà private, in seguito all’aumento demografico e ai processi ereditieri. In questo periodo, nel- la zona pedemontana dei Sibillini adriatici si verifica altresì un aumento dei se- minativi; tra i cereali, oltre a grano e mais si coltivano anche segale, orzo, avena, miglio e panico. Per quanto riguarda l’allevamento si registra un aumento del numero degli ovini in un contesto che comunque non lascia presagire migliora- menti sociali ed economici nel quadro del povero e precario equilibrio di sussi- stenza degli abitanti dell’area. Ciò è confermato anche dai più che esigui raccol- ti: il grano in questo periodo rende appena tre sementi (Paci, 2001). Ad inizio 1900, nonostante i massicci investimenti in bonifiche, sistemazioni del terreno e sistemi di scolo per le acque, gli agricoltori montani, alle prese con rese cere-

alicole poverissime a causa del sovrasfruttamento dei terreni, necessitano ancor più delle risorse di boschi e pascoli, anch’esse però ormai gravemente intaccate dai disboscamenti e dall’erosione (Mazzoni, 2000). Col nuovo secolo, le aree pe- demontane dei Sibillini hanno dunque completamente perduto la loro stabilità economica, in un contesto in cui si è ormai imposta la concezione individualisti- ca della proprietà e del profitto; le condizioni di vita sempre più precarie costrin- gono gli abitanti a nuovi fenomeni migratori che, in seguito alla riorganizzazione produttiva delle aziende dell’Agro Romano, da stagionali si fanno permanenti, contribuendo ad un fenomeno di progressivo spopolamento del territorio mon- tano (Paci, 2001). Tali flussi migratori sono diretti prevalentemente verso l’este-