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Pensare in Italiano, scrivere in Inglese

Nel documento Indice Introduzione (pagine 59-65)

Come anticipato nel capitolo precedente, dal punto di vista stilistico il romanzo di Pietro Di Donato si caratterizza soprattutto per un uso particolare e innovativo del linguaggio. Elemento distintivo di Christ in Concrete è infatti un linguaggio estremamente espressivo, che ricalca gli schemi e i ritmi del parlato quotidiano degli immigrati italoamericani della prima metà del secolo scorso: <<the language they pieced together from the idioms of their Old World heritage and the strange diction of the tongue they were compelled to learn>> (Mulas, 1991: 30). Una lingua nuova, ibrida, nata spontaneamente all'interno delle comunità italoamericane e capace di riflettere l'eterogeneità dell'esperienza migratoria (Camilotti, 2010: 403): <<This tongue − liturgical, patriarchal, heroic, diplomatic − belongs to a people whose expression arises in two countries, employing the mythical dignity of a mythical Italy as consolation for, as an incantation over a real Italian America>> (Viscusi, 2006). Una lingua che non è quindi né italiano, né propriamente inglese americano; si tratta piuttosto di un American jargon, che − nonostante la presenza di tratti comuni − non era uguale in tutti i quartieri italiani d'America, ogni Little Italy aveva infatti un proprio distintivo modo di parlare (Mulas, 1991: 308).

Secondo Franco Mulas, il romanzo di Pietro Di Donato rappresenta − tra le altre cose − la celebrazione di ciò che per gli immigrati era contemporaneamente motivo di ghettizzazione e fondamentale strumento di costruzione e preservazione dell'identità italoamericana, ovverosia <<the gift of speech>>, la parola, la lingua (Mulas, 1991: 307).

Il testo di Christ in Concrete è caratterizzato da un alternarsi di narrazione in terza persona, lunghi flussi di coscienza e dialoghi. La

59 narrazione affidata ad una voce fuori campo tradisce, da parte

dell'autore, una notevole padronanza dell'American English (Mulas, 1991: 311); le parti dialogate si distinguono invece per l'impiego di due registri linguistici: il broken English parlato dai personaggi che tentano di padroneggiare l'idioma del paese ospitante, e un inglese utilizzato per suggerire il fatto che i protagonisti stanno in realtà parlando la loro lingua madre e che ha l'obiettivo di riprodurre le strutture e i ritmi di un italiano dialettale (Viscusi, 1981: 35), più specificamente l'abruzzese di Vasto, lingua d'origine della famiglia Di Donato. Mulas scrive:

[...] the seemingly too typical or too picturesque expressions of some of the dialogues, which depend on a mechanical, simplified diction, are in fact keys to the protagonists' culture and serve to preserve their Old World identity [...] By general agreement, the linguistic patterns in the novel constitute the chief characteristic of Di Donato's prose. As Giovanni Sinicropi points out, they "form in their diversity one of the richest linguistic textures to be found in the twentieth-century novel." This richness no doubt draws heavily on the abundance of Italianized expressions which somehow give the narrative both casualness and realism (Mulas, 1991: 313).

Quella che Bachtin chiama eteroglossia (Berman, 1999: 66), ovvero la convivenza all'interno di uno stesso testo di diverse forme di linguaggio, è dunque una delle caratteristiche del romanzo. Lo stesso Di Donato in un'intervista afferma:

I have always thought in Italian and I still do think in Italian, and then I express myself. My English words are recoinage from my Abruzzese-Vasto Italian, because I have never been influenced by the English language. I have always found it inadequate and never, never comparable or as rewarding as the Italian language, the language of my people. It is the anachronism, the irony that these people who could neither read nor write, my mother spoke infinitely richer language than today's college professors. (Di Donato, 1983)

Di Donato, quindi, pensa in italiano e scrive in inglese. Sono numerose, nell'opera, le frasi che si direbbero essere un tentativo di

60 traduzione letterale di costruzioni tipiche dell'italiano e che in inglese

risultano perciò marcate: <<Markedness relates to a choice or patterns of choices that stand out as unusual and may come to the reader's attention>> (Munday, 2016: 99). Fred Gardaphé, nell'introduzione all'edizione di Christ in Concrete del 1993, scrive:

[...] translating the immigrants' Italian into English, as in the speech of uncle Luigi as he lies in a hospital with a leg crushed from a work accident: 'Nurse, nurse, I sense badly... nurse-doctors, I sense ill.' Di Donato renders the Italian reflexive verb sentirsi, 'to feel', into the English 'sense'. In this way Di Donato captures, as no writer before him, Italian American English, a language that is neither Italian nor English, but an amalgam of the two. (Gardaphé, 1993: xii)

Qui di seguito, un altro esempio, tratto dalla seconda sezione del terzo capitolo di Christ in Concrete:

"Ah, the sheets are clean but God only knows how many Christians have decayed on this mattress, for the lice have grown big and bold in my hair and walk down my face. They do keep me awake, sister." (Di Donato, 2004: 102)

Robert Viscusi analizza l'estratto in questione, evidenziando l'influsso della lingua italiana:

Italian presses through the surface of this English. "Christians" is a standard synecdoche for "human beings" in Italian, not English. "They do keep me awake, sister" is an artificial locution meant to sound like a literal rendering of Italian and not like American English idiom at all. (Viscusi, 2006)

In altre occasioni − come per la colorita espressione <<On the tomb of Saint Pimple-legs>> (Di Donato, 2004: 4) − Di Donato sembra aver lavorato troppo di fantasia, elaborando degli idiotismi − o pseudotali − la cui traduzione letterale dà come risultato delle costruzioni decisamente inusuali anche in italiano, a meno che non si tratti di modi di dire locali e di conseguenza noti solo ad una nicchia di popolazione del Belpaese, ma nel caso della frase presa ad esempio è

61 assai probabile che si sia trattato di una formula inventata dall'autore

(Viscusi, 2006).

Oltre alla traduzione letterale di locuzioni proprie di un italiano dialettale, gli altri espedienti ai quali l'autore ricorre per riprodurre quello che era il modo di parlare dei suoi connazionali sono: l'utilizzo di un americano colloquiale (<<'cause>>; <<'tention>>; <<sonofabitch>>); l'eliminazione dell'articolo (<<kiss of sky>>); l'inserimento di parole in italiano o in dialetto (<<Ah, bella casa mio>>; <<padrone>>; <<Jesu-Giuseppe e' Mari>>) (Traldi, 1976: 256); l'aggiunta di suoni vocalici (<<somebodys whose gotta bigga buncha keeds and he alla times talka from somebodys elsa>>; <<I like-a you. You be to good-a by me>>) (Mulas, 1991: 311).

Nella traduzione italiana dell'opera di Pietro Di Donato − intitolata Cristo fra i Muratori (1941) e attribuita, per ragioni politiche, ad Eva Kuhn Amendola, ma il cui autore principale è verosimilmente l'intellettuale comunista Bruno Maffi (Polezzi, 2013: 170) − viene preservata l'eteroglossia del testo di partenza; i tre registri linguistici della versione originale − standard American English, broken English e inglese/italiano − diventano però due nella traduzione, poiché il linguaggio utilizzato per la resa del broken English viene uniformato a quello standard della voce narrante:

Mike the "Barrel-mouth" pretended he was talking to himself and yelled out in his best English... he was always speaking English while the rest carried on in their native Italian. "I don't know myself, but somebodys whose gotta bigga buncha keeds and he alla times talka from somebodys elsa!" (Di Donato, 2004: 4)

Michele, detto Sparafucile, finse di parlare tra sé e sfoggiò il suo più puro americano. Era l'unico, fra i compagni, che biascicasse la lingua del paese, storpiandola con sovrana incoscienza.

<<Quello che non capisco io è come si può, con tutti quei mocciosi in casa, trovare da ridire agli altri.>> (Di Donato, 1961: 8)

Si può notare, nel testo d'arrivo, una omogeneizzazione linguistica operata dal traduttore, che ha determinato un caso di − per dirla con le

62 parole di Antoine Berman − effacement des superpositions de langues

(Berman, 1999: 66), cioè la cancellazione delle sovrapposizioni di lingue, ed un conseguente impoverimento qualitativo: <<Il renvoie au remplacement des termes, expressions, tournures, etc., de l'original par des termes, expressions, tournures, n'ayant ni leur richesse sonore, ni leur richesse signifiante ou − mieux − iconique>> (Berman, 1999: 58). Il traduttore si è concesso inoltre una piccola licenza, sostituendo l'asciutto <<he was always speaking English while the rest carried on in their native Italian>> con delle formule più ricercate: <<storpiandola con sovrana incoscienza>>. Si potrebbe parlare in questo caso di ciò che Berman ha definito ennoblissement: <<la traduction est "plus belle" (formellement) que l'original>> (Berman, 1999: 57).

Per quanto concerne la trasposizione delle parti dialogate in inglese/italiano si è ricorso invece all'uso del dialetto, al fine di conservare il contrasto tra la lingua del narratore e il più ruspante linguaggio dei personaggi; il dialetto che è stato impiegato non è però quello abruzzese, bensì il napoletano, con qualche rara incursione del romanesco. Il perché lo si può soltanto ipotizzare, e l'ipotesi è che la scelta sia ricaduta su quelli che erano all'epoca i dialetti più noti a livello nazionale, poiché erano − rispetto agli altri − quelli maggiormente diffusi e rappresentati: il napoletano era la lingua di canzoni già ai tempi conosciute e apprezzate dentro e fuori i confini italiani − il periodo compreso tra gli inizi dell'Ottocento e l'immediato secondo dopoguerra fu infatti l'età d'oro della canzone napoletana − e il romanesco, usato per la verità solo in un paio di occasioni nel libro, era invece il dialetto della capitale e degli stornelli. L'abruzzese, lingua d'origine dell'autore e della maggior parte dei personaggi di Christ in Concrete, era invece − e lo è ancora oggi − un dialetto poco caratterizzato e di conseguenza meno fruibile.

"On the tomb of Saint Pimple-legs, this little boy my wife is giving me next week shall be the last! Eight hungry little Christians to feed is enough for any man." (Di Donato, 2004: 4)

63 <<Mannaggia a Santa Pustola, chesta che sta venendo è l'ultima

criatura che muglièrema mette al mondo, lo giuro. Dieci bocche da nutri' sò quasi troppe, pe' nu cristiano solo.>> (Di Donato, 1961: 8) "May I be split six ways if I tell not the truth; I say that I love this she-suckling with all the sincerity of my golden heart!" (Di Donato, 2004: 186)

<<Possa morì ammazzato si nun amo 'sta porchetta con tutta la sincerità del mio cuore!>> (Di Donato, 1961: 193)

I traduttori hanno dunque dovuto destreggiarsi nell'utilizzo di un dialetto di cui né Maffi, né la Amendola erano totalmente padroni, date le origini nordiche di entrambi gli intellettuali.

Procediamo, a questo punto, estrapolando dal testo di partenza alcuni esempi emblematici di quell'italiano reso con vocaboli inglesi divenuto una cifra distintiva dello stile di Pietro Di Donato, e analizzando il modo in cui è stato trasposto nella traduzione di Bruno Maffi, coadiuvato da Eva Amendola:

"Such as yourself who frightens even sin." (Di Donato, 2004: 36) "Ma vuie fate spavento perfino al peccato." (Di Donato, 1961: 40)

Si tratta di una formula certamente familiare al pubblico d'arrivo, in quanto trasposizione dell'espressione idiomatica italiana <<brutto come il peccato>>, in Cristo fra i Muratori è stata infatti tradotta letteralmente;

"The head is seen! All shall be well! Force, my child, force!" (Di Donato, 2004: 37)

"Ne', vedo la testa. Tutto andrà bene. Forza, anima mia, forza!" (Di Donato, 1961: 41)

È tipico dell'italiano − e non dell'inglese − utilizzare la parola <<forza>> come grido d'incoraggiamento; anche in questo caso non deve essere stato necessario spremere troppo a lungo le meningi;

"How do you call yourself?" asked Salvatore "Four Eyes." (Di Donato, 2004: 64)

64 "Comme te chiamme?" domandò Salvatore Quattrocchi. (Di Donato,

1961: 69)

Perfetta − per quanto inesatta − traduzione mot à mot dell'italico <<Come ti chiami?>>, quella fatta da Di Donato. <<How do you call yourself?>> e non <<What's your name?>>, proprio perché − come spiegato in precedenza − in questo caso non si tratta di un italiano che cerca di parlare in inglese con tutti i limiti del caso, bensì di un italiano che parla in italiano, seppur messo su carta con termini inglesi.

Nel documento Indice Introduzione (pagine 59-65)

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