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Academic year: 2021

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Introduzione ... 1

Capitolo 1 ... 3

Pietro Di Donato ... 3

Capitolo 2 ... 9

Le Generazioni della Letteratura Italoamericana ... 9

Capitolo 3 ... 30

Christ in Concrete ... 30

3.1 Trama, struttura, temi ... 30

3.2 Stile ... 40

3.3 Fortuna ... 45

Capitolo 4 ... 58

Christ in Concrete e Cristo fra i Muratori ... 58

4.1 Pensare in Italiano, scrivere in Inglese ... 58

4.2 Titolo ... 64

4.3 Job... 65

4.4 Antroponimi ... 66

4.5 Sequenze Futuriste ... 72

4.6 Idiotismi ... 78

4.7 Culturemi ... 80

4.8 Censura ... 83

Conclusioni ... 91

Bibliografia dei testi citati ... 93

Sitografia ... 98

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1

Introduzione

La storia degli italiani d'America ha avuto inizio negli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, vent'anni dopo l'Unità d'Italia. Dal 1880 al 1920 milioni di abitanti del neonato Regno d'Italia attraversarono l'Atlantico alla volta degli Stati Uniti, al tempo protagonisti di una − da poco avviata − rivoluzione industriale, accompagnata da un conseguente processo di urbanizzazione. Per sfuggire alla miseria a cui si era condannati in patria, si partiva dunque alla volta di un luogo che era − nell'immaginario collettivo − promessa di sicuri guadagni e di un'esistenza dignitosa.

Una volta giunti in terra straniera, però, le gioiose aspettative della partenza venivano violentemente soppiantate da una realtà dura e ostile, con la quale i migranti si ritrovavano − loro malgrado − a dover fare i conti: squallidi appartamenti sovrappopolati; diffidenza e disprezzo da parte della popolazione americana, che etichettava gli italiani come pericolosi anarchici, scansafatiche e delinquenti; lavori sottopagati in cantieri e miniere dove in centinaia, in un anno, perdevano la vita a causa di condizioni di sicurezza assai discutibili.

Confinati geograficamente e linguisticamente, gli immigrati ricreavano − nei quartieri da loro abitati − delle "piccole Italie", dove venivano mantenuti usi, costumi e dialetti delle regioni d'origine.

È questa la realtà raccontata da Pietro Di Donato in Christ in Concrete, romanzo autobiografico pubblicato nel 1939 e considerato l'opera in assoluto più rappresentativa della produzione letteraria italoamericana, tanto per i contenuti, quanto per lo stile innovativo della scrittura, in grado di rappresentare con efficacia − attraverso un italiano reso con parole inglesi − il vivace linguaggio degli abitanti dei tenements.

Il presente lavoro di tesi, avente come focus lo studio dell'opera di Di Donato, si pone l'obiettivo di analizzare il modo in cui Christ in Concrete è stato tradotto nella versione italiana realizzata da Bruno Maffi ed Eva Kuhn Amendola e intitolata Cristo fra i Muratori (1941). La varietà degli stili e dei linguaggi che caratterizza il

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2 romanzo dell'autore di origini abruzzesi può infatti aver rappresentato

una sfida, in un lavoro di traduzione che è stato per molti versi, soprattutto dal punto di vista linguistico, un ritorno alle origini.

Il lavoro si apre con il capitolo incentrato sulla figura di Pietro Di Donato, lo scrittore operaio che con Christ in Concrete, suo primo romanzo, assurse a figura fondamentale del panorama letterario italoamericano, ma i cui scritti successivi non furono in grado di eguagliare l'impatto che l'opera di debutto ebbe su pubblico e critica.

Segue una panoramica relativa alla storia e alla letteratura degli italiani d'America dalla fine dell'Ottocento fino agli anni Settanta del secolo scorso; dai racconti dello sradicamento degli "apocalittici integrati" Constantine Panunzio e Pascal D'Angelo, alle saghe familiari − assai diverse fra loro − di Helen Barolini, Mario Puzo e Gay Talese, passando per i capolavori degli autori italoamericani di seconda generazione Pietro Di Donato e John Fante.

Il terzo capitolo è dedicato a Christ in Concrete: la trama, lo stile, i temi, la ricezione, la trasposizione cinematografica e le opere che − assieme al romanzo del 1939 − formano una trilogia che ha per protagonista Paul Di Alba, primogenito di Annunziata e del muratore Geremio e alter ego letterario dell'autore.

Nel quarto capitolo è presente infine un'analisi comparativa del testo scritto da Di Donato e della sua traduzione italiana, con particolare attenzione alla resa dell'inglese/italiano delle parti dialogate e a quelli che si ipotizza possano essere stati i passaggi più problematici.

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3

Capitolo 1 Pietro Di Donato

Pietro Di Donato nasce nella città di West Hoboken, New Jersey, il 3 aprile 1911, messo al mondo sul suolo statunitense da genitori abruzzesi − di Vasto, per la precisione − Annunziata Cinquina e Geremia Di Donato. Geremia, orfano di padre e di madre, giunse ad Ellis Island nell'aprile del 1906 col cognome di Ventura. L'anno seguente scoprì di essere figlio naturale di Filomena Di Donato, la donna che due anni più tardi lo raggiunse dall'Italia assieme a Nunziatina, la sua sposa. Geremia lavorò a lungo, instancabilmente, nei cantieri di un'America sconfinata e spietata che si rivolgeva a lui e ai suoi <<paesani>> con appellativi sprezzanti: Wop, Guinea, Greaseball, Tony Macaroni. Ma bisognava stringere i denti e lavorare finché il lavoro c'era, bisognava farlo per garantire un tetto e del pane alla famiglia.

La famiglia di Geremia e Annunziata nel 1923 conta sette figli e un ottavo in arrivo. È nel giorno di Venerdì Santo di quel nefasto 1923 che il giovanissimo Pietro, all'epoca un ragazzino di non più di dodici anni, si ritrova improvvisamente a dover prendere il posto del capofamiglia: un incidente sul posto di lavoro si è portato via Geremia, tragicamente annegato in una gettata di cemento. L'infanzia è oramai un capitolo da chiudere per Pietro, che diventa a sua volta un muratore, prendendosi sulle spalle la responsabilità di portare a casa quei cinque dollari a settimana necessari − ma non sempre sufficienti

− per il sostentamento dell'intera famiglia, con la quale qualche anno più tardi si sposta a Brooklyn, New York, dove il giovane frequenta sporadicamente le lezioni serali del City College (Mascitti, 2014).

Nel 1927, l'episodio riguardante il processo a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti e la conseguente esecuzione dei due anarchici italiani scuote fortemente le coscienze e la sensibilità della comunità italoamericana. È a seguito di questi avvenimenti che l'allora sedicenne Di Donato prende la decisione di iscriversi al Partito

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4 Comunista (Durante, 2011: 7). Il periodo passato tra le fila del Partito

è assai importante non solo ai fini della formazione civile e politica del giovane Pietro, ma anche per la sua formazione culturale; sono gli anni in cui il ragazzo scopre le opere di Tolstoj, Dostoevskij e di Zola

− scrittore, quest'ultimo, che pare gli fosse particolarmente caro.

Nunziatina muore nel 1932. La perdita della madre determina per Pietro un allontanamento dalla fede, con la quale ha sempre avuto, e continuerà ad avere per il resto della sua esistenza, un rapporto conflittuale.

Una vita tutt'altro che serena, quella di Pietro Di Donato, il cui avvenimento più traumatico − la morte del padre − diviene il soggetto di un racconto breve, pubblicato dalla rivista Esquire nel 1937, che segna l'inizio della carriera letteraria del giovane italoamericano. Il racconto diventerà, due anni più tardi, la parte iniziale del primo romanzo pubblicato da Di Donato, intitolato Christ in Concrete (Mascitti, 2014). Il successo che segue la pubblicazione di Christ in Concrete è immediato, l'opera viene definita il primo romanzo proletario degli anni trenta e nel 1939 si aggiudica il Book of the Month Club, riuscendo ad avere la meglio su quello che è in seguito divenuto uno dei grandi pilastri della letteratura americana, The Grapes of Wrath − noto in Italia col titolo Furore − del californiano John Steinbeck, lo scrittore che ha raccontato i reietti e i diseredati d'America. Entrambi i romanzi sono caratterizzati da una forte impronta sociale e politica e non è un caso. Giuseppe Lombardo scrive a proposito:

Dopo i "ruggenti anni Venti" [...] il romanzo americano vira nettamente verso tematiche di rilevante impatto sociale. Temi quali la dinamica dei rapporti di classe funzionali al modo di produzione capitalistico, lo sfruttamento della massa dei lavoratori salariati, le speculazioni finanziarie a danno dei più deboli, l'ingiustizia profonda di una nazione che coltiva aspirazioni libertarie mentre privilegia il potere del denaro, divengono centrali e stimolano la creatività di artisti che spesso maturano precocemente una istintiva avversione verso il sistema. [...] La Grande Crisi, con l'ulteriore aggravarsi di forme

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5 intollerabili di sperequazione sociale, fornirà lo sfondo "epico" sul

quale gli scrittori metteranno in scena i drammi dell'emarginazione e della miseria nei ghetti urbani come nelle campagne. (Lombardo, 2015: 154-155)

Un'opera di rabbiosa denuncia sociale, Christ in Concrete, scritta per mano di uno che le ingiustizie le ha vissute sulla propria pelle e su quella dei propri cari e che decide allora di farsi portavoce di una comunità la cui realtà era al tempo poco conosciuta, ancor meno raccontata, volutamente ignorata in un'America già da tempo votata al dio Capitale, al Job più e più volte nominato nel libro di Di Donato, con quella lettera maiuscola a volerlo quasi antropomorfizzare − anzi, di più − a volerlo rendere una sorta di entità superiore. <<I wrote it as a fiction, but it's all history>> (Strickland, 1990: 12), afferma lo scrittore in occasione di un'intervista concessa al New York Times nel 1990.

Gli anni successivi alla pubblicazione di Christ in Concrete sono segnati, in America, da Pearl Harbor e dalla entrata in guerra degli Stati Uniti. L'idealista Pietro − che, nonostante la fama acquisita, continua comunque a condurre un'umile esistenza da muratore − si dichiara obiettore di coscienza. Uomo intellettualmente onesto e caparbio, Di Donato sconta questa sua scelta in un campo di reclusione per oppositori politici, a Cooperstown. L'impopolare presa di posizione costa però allo scrittore anche e soprattutto una lunga fase di ghettizzazione letteraria, particolarmente durante il periodo della Guerra Fredda tra USA e URSS, caratterizzato da una crociata anticomunista promossa dal senatore repubblicano Joseph McCarthy, che culminò con una vera e propria caccia alle streghe: in circa sette anni di <<maccartismo>> − dal 1950 al 1957 − numerose personalità appartenenti al mondo della cultura e dello spettacolo, sospettate di avere simpatie per i sovietici, vennero accusate di

<<antiamericanismo>> (Mascitti, 2014).

Nel 1949 viene distribuito nelle sale il film Give Us This Day, del regista canadese Edward Dmytryck. Il film − girato in Inghilterra proprio per non essere sottoposto alle restrizioni imposte dal

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6 maccartismo − è liberamente ispirato al romanzo di Di Donato. Give

Us This Day raccoglie apprezzamenti in tutta Europa e nel 1950 vince un premio alla Mostra del Cinema di Venezia. In territorio statunitense, però, l'opera non suscita altrettanto entusiasmo e anzi vale al suo regista un posto nella "lista nera" stilata dai maccartisti (Traldi, 1976: 256).

La pubblicazione di Christ in Concrete corrisponde non solo al principio della carriera da scrittore di Pietro Di Donato, ma anche al suo momento più alto, forse l'unico in cui la sua opera ottiene riconoscimenti espliciti. Nel 1958 viene pubblicato il romanzo dal titolo This Woman, mentre al 1960 risale Three Circles of Life. I due romanzi raccontano la vita di Paul, l'alter ego di Pietro, rispettivamente in seguito e precedentemente alle vicende narrate in Christ in Concrete. Pietro Di Donato resta quindi, per il momento, all'interno della <<safe zone>> rappresentata dall'opera autobiografica, che tanta fortuna gli ha portato con il libro di esordio.

L'impatto avuto dai due romanzi e l'apprezzamento da parte di pubblico e critica non sono però paragonabili: una tiepida accoglienza viene riservata ai successori di quello che più di vent'anni prima è stato un autentico fenomeno letterario.

Con la pubblicazione di Three Circles of Life si chiude il ciclo autobiografico di Pietro Di Donato. A partire dal 1960, due opere biografiche caratterizzano infatti la nuova fase della carriera letteraria dello scrittore operaio: The Immigrant Saint: The Life of Mother Cabrini (1960) e The Penitent (1962). Protagonista del primo romanzo è Frances Xavier Cabrini, prima santa americana e patrona degli emigranti. L'opera ha un buon riscontro e diventa un classico della letteratura a tema religioso. In The Penitent, invece, Di Donato racconta la controversa figura di Alessandro Serenelli, l'assassino della giovanissima Santa Maria Goretti. Non è uno sbaglio definire entrambi questi romanzi delle vere e proprie indagini giornalistiche, la cui realizzazione porta l'autore a visitare per la prima volta il suo paese d'origine, l'Italia (Mascitti, 2014).

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7 Al 1970 appartiene la raccolta intitolata Naked as an Author,

contenente racconti brevi e articoli, scritti nell'ambito di collaborazioni con note riviste dell'epoca, tra cui Penthouse, la rivista per la quale Di Donato produce un'inchiesta sul caso Aldo Moro.

Diciotto anni dopo il suo primo viaggio, nel 1978 Pietro Di Donato torna quindi in Italia. Un'Italia terribilmente scossa da forti tensioni, l'Italia della lotta armata, del terrorismo e dello stragismo. Sono gli anni di piombo e l'uccisione del presidente della Democrazia Cristiana per mano delle Brigate Rosse è uno degli episodi più emblematici di questo drammatico capitolo della storia italiana. L'articolo, dal titolo Christ in Plastic, si aggiudica in quello stesso anno l'Overseas Press Club of America.

Gli ultimi anni della vita di Pietro Di Donato sono dedicati alla stesura di The Gospels. L'obiettivo è ambizioso:

Pietro immagina un Giudizio Universale ambientato nell'anno 2000.

Dio è rappresentato nei quattro vangeli − Maya, New Testament, Death and Transfiguration e The Last Judgement − da un indiano, da un ebreo, da una donna cinese e, infine, da una donna nera (Angela Davis) che compie la profezia. L'opera è un'invettiva contro i crimini della storia, in particolare del Ventesimo secolo. L'assassinio di Sacco e Vanzetti e dei Rosemberg, l'Olocausto, Hiroshima e Nagasaki, la guerra del Vietnam e il massacro di piazza Tienanmen.

Un libro visionario e difficile da leggere. Anticristiano, antisemita, ambientato in una novella Commedia dantesca, dove i fratelli Kennedy e il segretario di stato alla difesa, Robert McNamara, bruciano nelle fiamme dell'inferno. (Mascitti, 2014)

L'opera rimane però incompiuta, così come inediti restano due scritti dedicati ai luoghi d'origine della famiglia dell'autore: La Presentuosa, ambientato nelle zone della Taranta Peligna, nella provincia di Chieti, e Il Sangue alla Fonte, ambientato a Vasto.

Pietro Di Donato muore nel gennaio del 1992 a causa di un tumore osseo. Osannato ai tempi del suo esordio letterario, primo autore italoamericano ad aver pubblicato un'opera divenuta un bestseller, poi a lungo dimenticato, infine riscoperto e apprezzato in tempi

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8 relativamente recenti. Un destino, questo, condiviso con molti suoi

colleghi e connazionali, che − come lui − hanno raccontato nei loro scritti generazioni di immigrati italiani <<figli di due mondi>>, per usare le parole di Francesco Durante, inevitabilmente scissi tra l'identità americana ed una − ancora assai forte − italianità.

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Capitolo 2

Le Generazioni della Letteratura Italoamericana

From the New World, the remote shores given to us by an Italian navigator; the deep nostalgia which repressed sighs in the depth of the heart; this I pass on to you as a devout son, O my native land.

(Nardi, 1985)

Nel 1861, la proclamazione dell'Unità d'Italia coincise con l'intensificarsi del fenomeno dell'emigrazione italiana verso gli Stati Uniti d'America: tra il 1880 e il 1920 furono cinque milioni, gli italiani trasferitisi negli stati dell'America del Nord. Questa prima fase della diaspora italiana verso gli USA, nota con l'appellativo di Great Migration e il cui inizio risale per l'appunto alla fine dell'Ottocento, si concluse negli anni Venti del Novecento, in concomitanza con l'ascesa del fascismo. Una seconda fase, seppure meno intensa rispetto alla precedente, si ebbe poi dal 1945 − col termine della Seconda Guerra Mondiale − fino agli anni Settanta.

Nel periodo compreso tra il 1876 e il 1900, l'emigrazione interessò in particolare regioni del Nord Italia quali il Piemonte, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia; successivamente furono i territori del Centro Italia e del Meridione, quelli maggiormente colpiti dal fenomeno:

l'Abruzzo, la Calabria e la Sicilia subirono in quegli anni una drastica riduzione del numero dei propri abitanti, specie nelle zone rurali (Durante, 2005: 9).

Si partiva − provvisti di una indispensabile dose di incoscienza − con la speranza di trovare al di là dell'oceano la Terra Promessa entusiasticamente decantata da chi in America c'era stato, più o meno a lungo, ed era poi riuscito a fare ritorno, portando con sé in Italia discrete somme di denaro, i cosiddetti <<uccelli di passaggio>>:

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10 immigrants were guided by the myth that American streets were paved

with gold and believed they could fare l'america or "make America".

The goal for many was to dig for the gold and then bring it back to Italy. These "birds of passage" who did just that, returned to Italy with stories that exaggerated their successes, fueling the desires of peasants who longed for a better life. (Gardaphé, 1996)

I porti dai quali ci si imbarcava più di frequente erano quelli di Genova − per coloro i quali partivano dalle città del Nord − Palermo e Napoli, quest'ultimo era in assoluto il porto più trafficato di tutta l'Europa. Il viaggio dall'Italia agli Stati Uniti durava circa due settimane, a bordo di quegli imponenti piroscafi con le ciminiere fumanti che campeggiano nelle fotografie in bianco e nero oggi conservate nel museo di Ellis Island.

La maggior parte degli emigranti viaggiava in terza classe, alloggiava in maleodoranti cuccette di ferro condivise con altre centinaia di persone e consumava pasti poco invitanti, per lo più zuppe. Alcuni partivano da soli, con l'intento di tornare un giorno non troppo lontano dalle proprie famiglie, altri si imbarcavano assieme ai loro cari, in ogni caso si cercava di rimanere uniti e di non perdere di vista i compaesani, che avrebbero rappresentato − una volta sbarcati,

<<stranieri in terra straniera>> − un'ancora di salvezza fondamentale per sfuggire all'isolamento e all'inevitabile spaesamento (Ricci, 2005).

I giorni di navigazione si rivelavano terribilmente provanti per i migranti, alcuni non superavano il viaggio, uccisi dal tifo o da malattie polmonari, e comunque sopravvivere alla dura traversata transoceanica non garantiva automaticamente la possibilità di entrare in territorio americano. Alla gioia suscitata dal riuscire finalmente a scorgere la Statua della Libertà, infatti, seguiva subito l'angoscia dovuta alla sequela di interrogatori, controlli e visite mediche che i migranti italiani avrebbero dovuto affrontare non appena giunti ad Ellis Island e che per alcuni avrebbero significato l'essere costretti a fare ritorno in patria (Battaglia, 2014). Robert Viscusi, nel suo libro del 2006 intitolato Buried Caesars, and Other Secrets of Italian American Writing, scrive a questo proposito:

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11 When Italians were arriving by the thousands in the United States,

they experienced their passage as an ordeal that changed them. No longer human souls, they became animal cargo, shipped in steerage alongside goats and cattle, medically examined on departure and again on entry, as if they were breeding stock or beasts of burden. (Viscusi, 2006)

Negli anni della Great Migration, gli immigrati provenienti dal Belpaese erano sparsi pressoché in tutta l'America del Nord, ma le città della costa atlantica − in primis, è facile immaginarlo, New York City − erano quelle con maggiore concentrazione di persone di origine italiana. La situazione che si andò a delineare in queste città vide la nascita di ghetti nei quali la comunità italiana aveva ricreato il

<<mondo di partenza>>: quartieri con tenements abitati quasi interamente da famiglie italiane che comunicavano tra di loro parlando il proprio dialetto regionale − abruzzese, siciliano o napoletano che fosse − che acquistavano prodotti rigorosamente italiani in botteghe gestite da italiani, si informavano su giornali italiani e venivano assoldati da datori di lavoro italiani (Durante, 2005: 15). Scrive ancora Viscusi:

The house, the church, and the neighborhood became for many Italian Americans the comune, the encircled map of what they understood, the sacred space where they belonged, the place they would, if possible, never leave. Sometimes it was specifically attached to their towns of origin in Italy. But even when it was not so connected, it acquired its own rationale, its own spectacles of self-possession, its own rituals of permanent habitation. Immigrants called the Italian district la colonia, and it has retained this distinct political identity.

(Viscusi, 2006)

Realtà chiuse insomma − si pensi alla Little Italy di Mulberry Street, a New York, il quartiere italoamericano in assoluto più iconico − i cui componenti raramente si trovavano ad interagire col resto della popolazione <<autoctona>> e questo, inevitabilmente, rallentò il processo di integrazione della comunità italiana all'interno della società statunitense.

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12 Società statunitense che, da parte sua, non nutriva particolare stima nei

confronti dei nuovi arrivati, ai quali affibbiava soprannomi come Macaroni, Wop − termine derivante, secondo alcuni, dalla storpiatura del napoletano guappo; per altri acronimo dell'espressione without papers, ovvero <<senza documenti>> − o Dago, appellativo derisorio attribuito a tutti i soggetti di origini latine, ricavato dal nome Diego.

Trattati come carne da macello sul posto di lavoro − generalmente in cantieri e miniere − in cambio di paghe misere, considerati degli ignoranti e delle teste calde e immancabilmente ricollegati alla figura del criminale, gli italiani emigrati si resero conto ben presto che l'America non corrispondeva affatto al luogo ospitale, con le strade lastricate d'oro, che si erano immaginati ascoltando le storie dei compaesani tornati in patria. Ma loro erano pur sempre i connazionali di Colombo e Vespucci, che l'America l'avevano scoperta e ribattezzata (che poi lo avessero fatto al soldo di altri paesi europei, poco importava), e questo faceva sì che quella terra in qualche modo gli appartenesse, stare lì era un loro diritto, o almeno così credevano (Viscusi, 2006): <<The founding myth for the Italians is this memory of how the rich expelled the poor into the world invented for them by the great Amerigo>> (Viscusi, 1991: 270).

Gino Carlo Speranza − scrittore e avvocato specializzato in diritto dell'immigrazione − in un articolo comparso nel maggio del 1904 sulla rivista The Survey accusa la stampa USA, rea di aver contribuito negli anni ad alimentare i preconcetti che il popolo americano nutriva nei confronti degli italiani:

Non sarebbe difficile citare i quotidiani statunitensi che danno spazio in articoli di cronaca o di fondo a notizie o a problemi non sensazionali che tormentano l'Europa; per quanto riguarda l'Italia, si registra una forte carenza di informazioni relative al progresso politico ed economico del paese, di cui l'americano medio sa poco, per non dire niente. [...] titoli su mezza pagina alla mafia, ma neanche una parola allo straordinario sviluppo industriale dell'Italia settentrionale, nemmeno un accenno alla politica finanziaria che ha portato l'economia italiana al successo! Come si sta impegnando la stampa

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13 americana per agevolare l'assimilazione nella vita politica di questo

<<fattore di disturbo>>? (Speranza, 2005: 55)

Col passare del tempo e l'aumentare del numero di persone giunte negli Stati Uniti, il fenomeno migratorio − con tutte le conseguenze che questo portava con sé, non ultime miseria e delinquenza − divenne difficile da gestire e questa situazione condusse a gravi manifestazioni di intolleranza e alla conseguente diffusione di provvedimenti volti a limitare la presenza di stranieri − non solo italiani − all'interno dei confini americani. Già al 1880 risalgono le prime forme di literacy test, che mettevano alla prova le capacità di lettura e scrittura degli immigrati per valutarne l'effettiva utilità ai fini delle votazioni elettorali. Coloro i quali presentavano delle deficienze venivano discriminati e inesorabilmente etichettati come cittadini di serie B.

L'obiettivo dell'Espionage Act del 1917 era invece quello di espellere dal paese i soggetti sospettati di essere pericolosi rivoluzionari (Durante, 2005: 10). L'Emergency Quota Act e il National Origins Act vennero introdotti rispettivamente nel 1921 e nel 1924. Con l'Emergency Quota Act venne fissato un tetto massimo relativamente al numero di immigrati provenienti dall'Europa dell'Est e del Sud (Rotondi, 2018); questo venne rimpiazzato tre anni più tardi dal National Origins Act, facente parte dell'Immigration Act o Johnson- Reed Act. Si trattava di una legge federale che, attraverso un sistema di quote, stabiliva quanti migranti − in base alla loro nazione di provenienza − potevano entrare in America (Simoncelli, 2015).

Uno dei principali motivi di preoccupazione per gli Stati Uniti era la presenza − tra la popolazione di origini italiane − di numerosi anarchici, i quali, perseguitati in patria, optavano spesso per la fuga in America. Tra le figure di anarchici più note, ci sono senza dubbio il pugliese Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti. Accusati di rapina e omicidio, la loro condanna a morte − avvenuta il 23 agosto 1927 a Charlestown, Massachusetts − fu uno degli eventi più controversi dell'immigrazione italiana negli USA: i due scontarono con la morte sulla sedia elettrica non i crimini di cui erano stati accusati e che − come emerso da testimonianze dell'epoca − non

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14 commisero, bensì il fatto di essere soggetti scomodi a causa delle loro

idee politiche (Camilleri, 2007).

L'anarchismo e la nascita di organizzazioni sindacali come l'Industrial Workers of the World hanno rappresentato un importante capitolo della storia italoamericana:

[...] l'elemento decisivo per la crescita della presenza anarchica tra gli emigrati italiani negli Stati Uniti fu rappresentato dalla diaspora dei leader del movimento, e dalla più o meno lunga permanenza in America di alcune notevoli personalità di agitatori [...] Paul Avrich ha calcolato che tra il 1870 ed il 1940 un centinaio dei circa cinquecento giornali anarchici pubblicati negli Stati Uniti furono prodotti da italiani, cioè dal gruppo etnico più attivo nell'anarchismo. (Durante, 2005: 482)

Le prime voci che si levarono per raccontare − per gridare con rabbia, anzi − la realtà della comunità italiana, con i suoi problemi e le sue miserie, furono dunque quelle di combattivi attivisti politici come Carlo Tresca, Arturo Giovannitti e Luigi Fraina, intellettuali e paladini del proletariato sfruttato.

Uno spaccato di quella che era la condizione dei lavoratori italoamericani lo si trova in un articolo di Pietro Pisani, pubblicato nel 1910 e intitolato L'Emigrazione Italiana nell'America del Nord e la Sua Importanza per l'Avvenire d'Italia. L'inchiesta è stata fatta a Chicago, ma risulta comunque rappresentativa di una situazione generalizzata:

[...] durante un anno risulta che essi lavorano in media sei mesi, o per la natura precaria dei lavori cui sono addetti, o per causa delle intemperie o per la colpa dei bosses: i famigerati dissanguatori dei poveri immigrati, che negli Stati Uniti in forza delle bislacche disposizioni del Labor contract sono gl'intermediari più comuni fra la domanda e l'offerta del lavoro [...] ad una famiglia di cinque persone nei quartieri operai della città occorre un guadagno di almeno 700 dollari all'anno per provvedere sufficientemente al proprio sostentamento. Ora il guadagno medio di un operaio manuale (unskilled worker) si può calcolare a dollari uno e sessanta al giorno

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15 ossia a 10 dollari la settimana per sei giornate lavorative e di 500

dollari all'anno. Come vivono adunque tali famiglie che non possono contare su altra risorsa che il guadagno giornaliero del proprio capo?

Presto detto: di privazioni e di stenti.

Pisani si sofferma poi sulla spinosa questione degli infortuni e delle morti sul lavoro:

La percentuale delle vittime è tale da giustificare il nome di strage industriale [...] Nell'industria edilizia nella quale sono impiegati per i lavori più umili e faticosi i nostri connazionali, la percentuale dei disastrati è del 20 per cento; mentre assai più elevata è quella delle miniere, dove a centinaia si contano ogni anno le vittime italiane.

(Pisani, 1910: 332-334)

Le difficoltà da affrontare erano tante per gli italiani, che − isolati e con un rapporto di vicendevole diffidenza con lo Stato e le forze dell'ordine − si ritrovavano spesso, loro malgrado, ad avere a che fare con le organizzazioni mafiose importate dalle regioni meridionali dell'Italia e insediatesi nelle Little Italy di alcune delle principali città del Nord America, tra cui New York, New Orleans, Chicago e San Francisco. Agli inizi del Novecento gli efferati estorsori della Mano Nera (Black Hand) seminavano il terrore tra i commercianti e i piccoli imprenditori dei quartieri italoamericani, minacciando vendetta, qualora non avessero ricevuto le cifre richieste, con lettere minatorie in cui annunciavano alle loro vittime rapimenti e omicidi. Col Proibizionismo, introdotto negli anni Venti, la criminalità italoamericana − che già monopolizzava i mercati della droga e della prostituzione − aumentò ulteriormente il suo potere attraverso il contrabbando di alcolici. Fu in quel periodo che figure come quelle di Lucky Luciano e Al Capone, in seguito mitizzate dalla letteratura e dal cinema, salirono agli onori delle cronache.

Nel 1941, anno in cui Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti, la ghettizzazione subita dalla popolazione di origini italiane − già associata al mondo criminale e all'anarchismo − non poté che peggiorare: l'Italia era ora una nazione nemica. Come diretta

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16 conseguenza di quell'avvenimento, oltre cinquantamila italiani si

ritrovarono a vivere in condizioni di quasi detenzione domiciliare e in centinaia vennero internati in campi militari. Fu inoltre vietato l'uso della lingua madre, sia per le strade delle città che nei loro stessi quartieri. Questo determinò l'intensificazione del processo di americanizzazione che era già in atto da qualche anno (Viscusi, 2006).

Spiega Durante: <<Si affacciò la necessità di prendere la cittadinanza, di convincersi di essere americani, di risolvere le contraddizioni culturali e pratiche che quella sospensione tra due realtà comportava>> (Durante, 2005: 15). Eppure, forse, fu proprio in quel contesto alieno, che gli italiani iniziarono a delineare una loro identità e a sentire davvero, per la prima volta, un senso di appartenenza nazionale; fu forse proprio allora che gli italiani iniziarono a sentirsi italiani. Helen Barolini scrive a tal proposito:

Gli emigrati che hanno lasciato l'Italia hanno intrapreso il primo passo per sollevarsi da quella «vita solo per metà conscia della razza» col solo gesto di partire per l'America. Quel gesto legò loro e i loro discendenti all'ideale americano del self made man. E il paradosso consiste nel fatto che diventando self made in America, gli italoamericani possono finalmente essere più italiani di quanto avrebbero mai potuto restando nel vecchio mondo in Italia. (Barolini, 1993)

Com'è stato già detto all'inizio di questo capitolo, l'Unità d'Italia era stata appena proclamata, quando gli emigranti cominciarono ad abbandonare in massa i territori depressi dello stivale per cercare fortuna oltreoceano. Ne consegue che all'epoca non si era ancora instillato, negli abitanti delle varie regioni della penisola, un vero e proprio senso di appartenenza all'Italia in quanto nazione, mentre era invece ben radicata in loro una forte identità locale:

Each migrant came from a comune, a city or a town somewhere in the peninsula or on the islands that belong to the nation called Italia- Sulmona, Agrigento, Anacapri and thousands of smaller, lesser-known places. In practice, for many immigrants, one such place stood for Italy. When they spoke of Italy, this comune was the place they meant.

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17 Its people were the population they knew, its concerns were the ones

they carried with them across the sea. (Viscusi, 2006)

Gli effetti della passata frammentazione geo-politica del paese influenzarono, inevitabilmente, anche l'aspetto linguistico: ciascuna comunità aveva mantenuto il proprio dialetto regionale ed era il dialetto, la lingua usata per la comunicazione quotidiana, non l'italiano. La padronanza della lingua nazionale, difatti, era generalmente appannaggio delle persone di estrazione sociale medio- alta con una buona istruzione. È emblematica, a questo proposito, la testimonianza di Viscusi, il quale ricorda la confusione linguistica vissuta in gioventù, in quanto ragazzo nato e cresciuto in America ma di discendenza italiana:

When I was a boy, Italian speech of every kind was around us most of the time at home. My parents gossiped with each other in their own mixtures of Abruzzese and Neapolitan. To us they spoke only English.

My grandparents, all immigrants, spoke their native dialects with one another always, but English to us. Their English was broken with bits of Italian dialect − some of that broken, in its turn, with bits of English. They had developed a creole that people in their own native towns would have had trouble understanding. (Viscusi, 2006)

E ancora:

But even the Italian we heard in those days signified a hole in our understanding. Most of the time we could not decode what our parents were telling one another, much less our grandparents [...] A little later on, we came to learn of the much greater absence signified by another language, "the real Italian" itself, which our grandfather liked to tell us the poet Dante had invented long ago [...] This potent code grew more plainly absent to us as we grew up and came to understand that it was the medium of great poems that we could not read and great philosophers whom we could not understand. (Viscusi, 2006)

Ci si sentiva, dunque, calabresi, molisani, abruzzesi, napoletani, ma non ancora italiani. Il concetto di italianità era, al tempo, ancora in fase di definizione.

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18 Ma cosa si intende per italianità? La nozione di italianità può

racchiudere in sé più elementi: la lingua, il cibo, un sistema di valori, la struttura familiare, un particolare modo di vivere la religione e la fede; l'italianità può essere questo e molto altro (Tamburri, Giordano

& Gardaphé, 1991: 6). Un fattore che ha di certo contribuito grandemente al delineamento dell'identità degli italiani stabilitisi negli Stati Uniti è stato l'emergere di una letteratura prodotta all'interno delle varie <<piccole Italie>> d'America:

The earliest American writers of Italian descent became, in essence, pioneers of Italian/American self-discovery, - definition, and - declamation. Their writing depicted the struggles, the dreams, the nightmares, and the reality of what it meant to be an American of Italian descent. Not by choice, most of them were restricted to life in Little Italys, and thus, their writing began with anecdotal accounts of the joys and sorrows − the reality of life − in these immigrant enclaves. (Tamburri, Giordano & Gardaphé, 1991: 7)

Ci sono voluti oltre cento anni, prima che la comunità italoamericana riuscisse a dare vita ad una letteratura capace di creare identità. Per capire le motivazioni di questo ritardo culturale è bene ricordare due elementi comuni alla maggior parte degli italiani giunti in America tra il 1880 e il 1920: l'appartenenza al mondo contadino e la povertà.

La realtà contadina era infatti caratterizzata da un sostanziale analfabetismo e da una ricca cultura orale. In molti non sapevano né leggere, né − tantomeno − scrivere, e le storie venivano raccontate per lo più a voce, di conseguenza i libri non erano di solito tra i beni che gli emigranti trasportavano nelle loro celeberrime valigie di cartone.

Bisogna poi considerare il fatto che i nuovi arrivati − già incerti nel padroneggiare la lingua madre − si trovavano a doversi confrontare con un idioma a loro totalmente sconosciuto. Le precarie condizioni economiche, inoltre, facevano sì che i ragazzi − non appena raggiunta un'età adeguata per lavorare − lasciassero gli studi per iniziare a contribuire al sostentamento economico della famiglia:

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19 The only books that entered my home were those we smuggled in

from public institutions. Reading anything beyond newspapers and the mail required escaping from my family. My chronic reading was seen as a problem and quickly identified me as the " 'merican", or rebel [...]

For a long time it did not occur to me that what I read was something that could or even should speak to me of my ethnicity. The books I read were written by others about experiences that were not mine.

(Gardaphé, 1996)

Le storie personali non erano contemplate nei racconti tramandati oralmente di generazione in generazione, che servivano per lo più a perpetuare antiche leggende e tradizioni locali; del resto, è sempre stata una caratteristica dell'italiano − incluso il cantastorie − quella di tenere i fatti propri per sé, caratteristica che gli americani associavano generalmente ad un comportamento omertoso. L'esperienza di sradicamento vissuta dagli emigranti ha determinato però, da questo punto di vista, un cambiamento di rotta:

Once the Italian storyteller is uprooted, a sense of self begins to emerge as the dominant material for storytelling [...] But even as storytellers shift towards more personal stories, they continue to exercise caution concerning what can or cannot be communicated.

(Gardaphé, 1996)

Sono infatti delle opere di natura autobiografica, i primi esempi di letteratura italoamericana, tra i quali è il caso di nominare Soul of an Immigrant di Constantine Panunzio (1922) e Son of Italy, del poeta Pascal D'Angelo (1924). Francesco Durante, appropriandosi di una locuzione elaborata da Umberto Eco, attribuisce l'appellattivo di

<<apocalittici integrati>> al gruppo di autori di cui fanno parte Panunzio e D'Angelo, collocabile tra gli italoamericani della colonia e i cosiddetti scrittori di seconda generazione (Durante, 2005: 685). Nei lavori di quella che potremmo quindi definire la prima generazione di narratori italoamericani vengono messe per iscritto le alterne vicende che hanno caratterizzato l'abbandono della terra natia e l'arrivo nel Nuovo Mondo, con tutto il suo inevitabile carico di incognite, fatica, speranze e paure.

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20 L'italoamericano in grado di padroneggiare la lingua del paese

ospitante e di raccontare attraverso questa la propria storia e la propria realtà, si fa portavoce della sua intera comunità, elevandosi dalla condizione di <<bestia da soma>>:

[...] the contemporary autobiographer [...] was better able to negotiate the difference between Italian and American ideas and was thus better able to forge an identity that essentially was a synthesis of the two often conflicting worldviews [...] developing models of self- construction that represented possible ways of moving from an Italian to an Italian American identity. (Gardaphé, 1996)

Arrivato negli Stati Uniti all'età di sedici anni da contadino analfabeta, l'abruzzese Pascal D'Angelo è stato − come anticipato − uno degli apripista della letteratura italoamericana. Imparando da autodidatta a leggere, scrivere e comporre poesie in inglese, D'Angelo è riuscito tenacemente nella non facile impresa di guadagnare l'attenzione e la stima degli editori americani, affermandosi come il pick-and-shovel poet. I suoi versi sono stati pubblicati per la prima volta nel 1922, all'interno della rivista The Nation (Viscusi, 2006).

Tranne che per alcune eccezioni − rappresentate ad esempio dal romanzo I Misteri di Mulberry Street (1893), di Bernardino Ciambelli

− si preferiva, dunque, pubblicare opere scritte in inglese, poiché il pubblico anglofono era certamente più numeroso di quello di origini italiane, il quale era − peraltro − il più delle volte proveniente da zone con bassi livelli di alfabetizzazione (Traldi, 1976: 252). Spesso, quello degli scritti italoamericani è però − soprattutto per quel che riguarda le parti dialogate − un inglese che ricalca costruzioni tipicamente italiane ed è talvolta intervallato da improvvise incursioni dialettali:

Another way in which oral traditions find their way into literature is through the use of dialects [...] This is especially true for those authors whose first language is not (or was not) English, whose characters are depicted in writing as speaking a variation of standard English [...]

Examples of this use of dialect occur in early as well contemporary Italian/American literature. (Gardaphé, 1991: 297)

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21 Se negli anni Venti vengono realizzati i primi importanti lavori che

hanno segnato l'inizio della storia della produzione letteraria italoamericana, è alla fine degli anni Trenta che appartengono quelli che oggi sono considerati i grandi capolavori di questa letteratura, ad opera di una seconda generazione di autori:

A loro spetta il compito di far conoscere la propria gente [...] di fare luce, per esempio, sui gap e i dislivelli generazionali che attraversano il mondo degli immigrati; oltre che di presentare all'America la ricchezza multiforme di una cultura che fino a quel punto era potuta parere muta, incapace di esprimersi se non attraverso la meccanica ripetitività della fatica, i colpi e i gesti ritmati di "pick ad shovel", la pala e il piccone dei poveri immigrati sperduti nelle migliaia di cantieri del paese: per costruirlo, certo, per "fare l'America" come essi stessi dicevano, senza ancora osare, però, l'idea di poterne essere parte. (Durante, 2011: 9)

Il 1938 è l'anno in cui John Fante esordisce ufficialmente col suo Wait Until Spring, Bandini, opera autobiografica in cui l'autore di origini abruzzesi racconta, attraverso lo sguardo del suo alter ego letterario Arturo Bandini, alcuni episodi della sua storia familiare, in particolare la relazione extraconiugale che suo padre − nel romanzo, il passionale muratore Svevo Bandini − ha avuto con una donna americana. Ma in Wait Until Spring, Bandini Fante mette nero su bianco anche i tormenti personali legati ad una identità divisa a metà tra l'origine italiana, che rappresenta per il giovanissimo Arturo motivo di disagio e imbarazzo, e la realtà americana, alla quale vorrebbe disperatamente appartenere. Tormenti che Arturo/John porta con sé fino all'età adulta, come si evince dalla lettura di Ask the Dust, pubblicato nel 1939, il romanzo più noto e apprezzato di Fante. In Ask the Dust, Arturo − lasciatosi alle spalle i freddi inverni del Colorado e trasferitosi a Los Angeles − tenta, con alterne fortune, la carriera di scrittore, accompagnando i suoi romanzi a lunghe lettere accorate, indirizzate all'editore J. C. Hackmuth, personaggio ispirato alla figura di H. L.

Mencken, al tempo una delle voci più autorevoli della letteratura statunitense e destinatario delle altrettanto accorate lettere di Fante. Il

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22 protagonista del racconto si innamora di Camilla Lopez, inquieta

cameriera messicana, che condivide con lui l'amara condizione di marginalità all'interno della società nordamericana:

Lying in my bed I thought about them [...] Smith and Parker and Jones, I had never been one of them. Ah, Camilla! When I was a kid back home in Colorado it was Smith and Parker and Jones who hurt me with their hideous names, called me Wop and Dago and Greaser, and their children hurt me, just as I hurt you tonight. They hurt me so much I could never become one of them, drove me to books, drove me within myself, drove me to run away from that Colorado town, and sometimes, Camilla, when I see their faces I feel the hurt all over again, the old ache there, and sometimes I am glad they are here, dying in the sun, uprooted, tricked by their heartlessness, the same faces, the same set, hard mouths, faces from my home town, fulfilling the emptiness of their lives under a blazing sun. [...] I have vomited at their newspapers, read their literature, observed their customs, eaten their food, desired their women, gaped at their heart. But I am poor, and my name ends with a soft vowel, and they hate me and my father, and my father's father. (Fante, 1980: 46-47)

In Italia, il lavoro di Fante attirò l'attenzione di Elio Vittorini − il più influente critico italiano di letteratura americana assieme a Cesare Pavese − il quale volle tradurre Ask the Dust. La traduzione di Vittorini, dal titolo Il Cammino nella Polvere, venne pubblicata da Mondadori nel 1941, anno assai delicato per quel che riguarda il rapporto fra Italia e Stati Uniti a causa dei motivi accennati in precedenza (Traldi, 1976: 253-254).

Altro esponente di spicco di questa seconda generazione di scrittori italoamericani è Pietro Di Donato, che con Fante non aveva in comune solo il sangue abruzzese, ma anche il fatto di aver pubblicato il romanzo più importante della sua carriera nel 1939. Il romanzo in questione è Christ in Concrete, già trattato brevemente nel primo capitolo e che andremo ad approfondire nei capitoli che seguiranno, trattandosi del focus di questo lavoro di tesi. Christ in Concrete fu la prima opera scritta da un autore di origini italiane a suscitare grande

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23 entusiasmo − seppur di breve durata − nel mondo letterario

statunitense; solo l'uscita di The Godfather di Mario Puzo, quasi trent'anni più tardi, riuscì ad eguagliarne il successo (Fontecchio, 2013).

Nel 1943 esce Mount Allegro: A Memoir of Italian American Life, di Jerre Mangione, anche questo − come suggerisce il sottotitolo − un romanzo autobiografico. In Mount Allegro, Mangione − nato in una famiglia di origini siciliane emigrata in America alla fine dell'Ottocento − descrive la vita nella Little Sicily di Rochester, città dello stato di New York. Nel realizzare questo lavoro c'era da parte dell'autore la volontà di dare al pubblico di lettori un'immagine positiva della comunità siciliana, molto spesso oggetto di diffidenza e giudizi assai aspri. Di Donato, Fante e Mangione sono un esempio di quello che lo studioso americano Daniel Aaron ha definito il primo stadio dell'hyphenate writer: <<This writer not only questions his/her origins, but is indeed bent on disproving the suspicion and prejudices of the dominant culture>> (Tamburri, Giordano & Gardaphé, 1991:

3). Cresciuto con l'imposizione di parlare solo l'italiano − o, per essere più precisi, il dialetto − a casa e l'inglese al di fuori dei confini domestici, anche Mangione, come John Fante e Pietro Di Donato, ha vissuto la condizione dell'essere scisso tra due mondi:

We gradually acquired the notion that we were Italian at home and American (whatever that was) elsewhere. Instinctively, we all sensed the necessity of adapting ourselves to two different worlds. We began to notice that there were marked differences between those worlds, differences that made Americans and my relatives each think of the other as foreigners. (Mangione, 1942: 52)

A differenza dei due autori abruzzesi, però, Mangione non rifiuta, né esalta l'American Dream, come spiegato da Gardaphé: <<Mangione's narrative argues that one can remain rooted in one's culture of descent (...) while consenting to the identity changes demanded of the dominant culture>> (Gardaphé, 1996).

Questo conflitto psicologico, del resto, è una conseguenza inevitabile dello sradicamento causato dall'emigrazione e, non a caso, è uno dei

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24 temi maggiormente trattati nell'ambito della letteratura italoamericana.

È una realtà interstiziale, quella degli immigrati: da una parte, c'è la madrepatria perduta e rievocata con nostalgia; dall'altra, la spietata terra d'arrivo, che può però diventare scenario di sudate vittorie (Marazzi, 2004: 25).

In merito al valore della produzione degli scrittori fin qui presi in considerazione − per molto tempo confinati unicamente al campo della letteratura etnica − si è espresso Francesco Durante, autore di numerose antologie dedicate alla letteratura degli italiani d'America:

[...] una produzione sistematicamente ignorata − se non apertamente deplorata in quanto anacronistica, dilettantesca e insopportabilmente

<<selvatica>> − dalla nostra società letteraria, e che tuttavia rappresenta il luogo in cui la cultura italiana di partenza, ancorché a un livello in genere popolare o semiculto, si contamina con quella americana d'arrivo costruendo un universo imprevedibilmente nuovo;

nonché il momento di passaggio o, per meglio dire, il necessario anello di congiunzione tra l'esperienza dei padri giunti in America armati del solo bagaglio culturale d'origine e quella dei figli che, appena una o due generazioni più tardi, ne avrebbero narrato direttamente in inglese la commovente leggenda. (Durante, 2005: 3) Superato il periodo degli <<scrittori operai>>, negli anni Settanta emerge una terza generazione di autori, i cui esponenti godono di una buona istruzione, non appartengono più al mondo del proletariato e né

− tantomeno − hanno vissuto in prima persona l'esperienza dell'allontanamento dalla propria patria; tuttavia un inesorabile senso di alienazione caratterizza questa nuova generazione di scrittori italoamericani. Alienazione rispetto ad un passato conosciuto solo attraverso i racconti dei genitori e dei nonni, un passato lontano nel tempo e nello spazio e che però forse gli appartiene più di quanto gli appartenga il posto in cui sono invece nati e cresciuti, l'America. Si scrive, quindi, ancora una volta spinti dall'esigenza di trovare delle risposte, di ricostruire, di colmare delle lacune identitarie:

This identity quest is the key to reading the narratives of third- generation Italian American writers, for as their grandparents were

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25 economic and political immigrants, and their parents social

immigrants, they themselves are cultural immigrants. (Gardaphé, 1996)

Tra i prodotti di questa nuova fase − nota con l'appellativo di Italian American Renaissance − vi sono romanzi che mescolano memoria e finzione, come Umbertina (1979), la saga al femminile di Helen Barolini, la cui protagonista principale è appunto Umbertina Longobardi, personaggio ispirato alla nonna calabrese dell'autrice, emigrata negli Stati Uniti durante i primi anni della Great Migration.

A differenziare gli scritti dei narratori di terza generazione da quelli di seconda è appunto la figura del nonno: è ricostruendone il passato, che l'italoamericano di terza generazione diventa in grado di forgiare una sua identità etnica (Gardaphé, 1996). Nel romanzo di Helen Barolini si dipana dunque la storia di quattro generazioni di donne italoamericane attraverso le figure di tre personaggi femminili appartenenti alla stessa famiglia: la nonna, la nipote Marguerite − alter ego della scrittrice − e la pronipote Umbertina, colei che riuscirà nell'intento di fondere i due mondi ai quali appartiene e che, come a voler chiudere il cerchio, porta significativamente il nome della bisnonna. Non viene però dedicato spazio a Carla, figlia di Umbertina e madre di Marguerite. La ragione dell'esclusione di Carla risiede nella sua appartenenza alla seconda generazione di italoamericani, protagonista del già citato processo di americanizzazione, motivo per cui − secondo quanto affermato dalla stessa Barolini − il personaggio risulta assai meno complesso e interessante, rispetto a quelli delle altre donne (Ciani Forza, 2008: 74). Con le vicende narrate in Umbertina − che si verificano all'interno di un arco temporale che va all'incirca dal 1860 al 1975 − l'autrice ha ricostruito la storia dell'emigrazione italoamericana, vissuta dal punto di vista delle donne, e ha ricostruito al contempo la sua stessa identità: <<[...] for Italian American women, writing became not only a means of discovering an American identity but also a means of discovering and creating a human identity>>

(Gardaphé, 1996).

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26 A dieci anni prima dell'uscita di Umbertina risale la pubblicazione di

The Godfather, di Mario Puzo, il romanzo che, assieme a Christ in Concrete di Pietro Di Donato, ha avuto maggiore fortuna nel campo della letteratura italoamericana; fortuna alla quale ha poi contribuito − dal 1972 al 1990 − l'uscita della trilogia omonima diretta da Francis Ford Coppola, con buona pace di chi sperava di riuscire a raccontare la realtà della comunità italiana in America in un modo nuovo, che permettesse di andare al di là dei pregiudizi e degli stereotipi. La saga generazionale di Puzo, con protagonista la famiglia siculoamericana dei Corleone, ha chiaramente poco in comune con quella, più o meno coeva, della Barolini: nessun passato da recuperare, nessuna identità da ricostruire, l'obiettivo − in questo caso − era principalmente il guadagno. L'autore ha infatti abilmente utilizzato la figura del mafioso, che ha sempre esercitato un fascino perverso sull'immaginario collettivo, per realizzare un'opera che fosse in grado di attirare la curiosità del pubblico e di garantire dei buoni incassi, dati anche precedenti fallimenti editoriali, come da lui rivelato in un'intervista fattagli dal conduttore statunitense Larry King nel 1996.

Scrive Alberto Traldi: <<Not only was Puzo able to capitalize on the lure of the American crime syndicates, but by cleverly introducing a subplot set in Sicily, he succeeded in capitalizing on the Sicilian Mafia as well>> (Traldi, 1976: 262).

Nel 1971 viene dato alle stampe Honor Thy Father, di Gay Talese. Il focus è nuovamente la mafia italoamericana, questa volta però non si tratta di un romanzo che racconta vicende fittizie; Honor Thy Father è piuttosto il prodotto di un'inchiesta giornalistica durata sette anni, durante i quali Talese − ex reporter del New York Times − ha avuto modo di confrontarsi lungamente con alcuni componenti della famiglia dei Bonanno − all'epoca una delle cinque principali famiglie criminali che operavano nel territorio newyorchese − e con altri esponenti della malavita italoamericana che le gravitavano attorno.

Nato dal desiderio dell'autore di indagare le dinamiche familiari mafiose e di scoprire in particolare se fosse possibile, per un giovane facente parte di una famiglia di criminali, sfuggire ad un destino

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27 apparentemente già segnato, Honor Thy Father è stato definito da

Gardaphé l'antidoto alla rappresentazione mitica e romantica del fenomeno mafioso fatta da Puzo nel suo The Godfather:

When the average American citizen thought about the Mafia, he usually contemplated scenes of action and violence, of dramatic intrigue and million-dollars schemes, of big black limousines screeching around corners with machines gun bullets spraying the sidewalk − this was the Hollywood version and while much of it was based on reality it also wildly exaggerated that reality, totally ignoring the dominant mood of Mafia existence: a routine of endless waiting, tedium, hiding, excessive smoking, overeating, lack of physical exercise, reclining in rooms behind drawn shades, being bored to death while trying to stay alive. (Gardaphé, 1996)

È possibile riscontrare in quasi tutte le opere trattate in queste pagine la presenza della famiglia, da sempre elemento cardine dell'essere italiani e uno dei temi più ricorrenti della produzione letteraria italoamericana, assieme alla questione dell'identità:

Conosciamo il vincolo: siamo confortati e rassicurati dai legami familiari e tuttavia ci sentiamo intrappolati da quella che Emily Dickinson ha definito «la soffice eclisse», che vuol dire soccombere al seduttivo ma obnubilante ambiente della protettività familiare che indebolisce la nostra volontà. Se partiamo ci sentiamo persi; se restiamo ci blocchiamo. L'ambivalenza è permanente, è vecchia come la storia, è la sostanza della letteratura.

La scrittura italoamericana è piena del dilemma dell'individuo sulla strada della scoperta di se stesso, che è colpito dall'angoscia di quello che sembra un tradimento alla famiglia. L'uscita dalla famiglia o dal quartiere, fa parte della trasformazione intrapresa nella ricerca della propria autonomia. (Barolini, 1993)

Quelli incontrati in questo breve excursus sono alcuni tra gli autori più noti del mondo letterario italoamericano, rappresentativi di importanti fasi e tendenze che hanno caratterizzato la letteratura degli italiani d'America: la cronaca dello sradicamento dalla terra d'origine e del tentativo di trovare il proprio posto in una realtà aliena; le crisi

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28 identitarie causate dall'appartenere a due mondi diversi e che non

sempre si guardano di buon occhio; il recupero del passato, necessario per l'elaborazione di un'identità nuova.

Ai nomi degli scrittori presenti in questo capitolo si aggiungono quelli di Mari Tomasi, Jo Pagano, Joseph Papaleo, Anthony Turano, Gilbert Sorrentino, Don DeLillo, Mary Caponegro, Joseph Tusiani, Carole Maso, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, Giose Rimanelli, Francis Pollini, Bernard De Voto e numerosi altri. Non può che trattarsi di una panoramica parziale di quella che negli anni si è andata definendo come una letteratura nuova ed estremamente variegata nei temi e nei generi, ma che è stata a lungo considerata marginale da parte di critici e studiosi, i quali solo in tempi recenti hanno riconosciuto agli autori italoamericani un effettivo contributo all'arricchimento della letteratura e della cultura degli Stati Uniti:

Come dice il premio Nobel Czeslaw [Miłosz], egli stesso un immigrato: «la lingua è la sola patria». E la patria degli scrittori italoamericani è l'inglese; è l'uso dell'inglese che forma i nostri pensieri e ci rende ciò che siamo. E la nostra destinazione è la letteratura americana [...] L'aver raggiunto il punto in cui siamo tutti uniti in una letteratura pluralista che riflette la società nel suo complesso rappresenta un grande traguardo, conquistato dopo decenni di affermazioni di separatismo da parte di scrittori e scrittrici afroamericani, ebrei, femministe, asiatici, italoamericani e così via.

Una volta presane consapevolezza e messa agli atti, ci siamo incorporati nella totalità come parti identificabili senza perdere l'identità o fonderci; una diversità di voci che riflettono tutte la natura multiforme della letteratura americana. Come dicono i nuovi critici:

tutta la letteratura americana è etnica poiché questa è la natura dell'esperienza americana. Gli atteggiamenti del passato oggi sembrano bizzarri. (Barolini, 1993)

Attualmente continua ad esistere una letteratura realizzata da scrittori con − oramai lontane − origini italiane, ma certo la questione etnica che ha caratterizzato alcuni dei lavori più incisivi della passata

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29 produzione può dirsi tramontata. Già venticinque anni fa Helen

Barolini scriveva:

Noi siamo americani nel parlare, nel leggere, nello scrivere in inglese e la nostra storia è, e continuerà a essere, parte della storia e della letteratura di questa nazione. La nostra comunità è americana e siamo molto diversi rispetto a ciò che manteniamo, o desideriamo mantenere, dell'eredità italiana. (Barolini, 1993)

Oggi gli italoamericani sono perfettamente integrati nel tessuto sociale statunitense, vivono in belle case e i loro figli studiano nelle università della Ivy League. Alcuni di loro − muniti di panama e bermuda − di tanto in tanto si concedono qualche breve soggiorno nella terra degli avi, altri in Italia non ci sono neppure mai stati. In certi casi, quello che sanno a proposito della propria storia glielo ha insegnato Hollywood, conoscono Frank Sinatra e Al Pacino, ma non hanno mai sentito nominare Carlo Tresca (Viscusi, 2006). Negli anni, ci si è forse fatti influenzare più del dovuto dalla rappresentazione stereotipata e spesso caricaturale della realtà italoamericana diffusa dal cinema e dalla televisione. Troppo spesso, la figura dell'italoamericano è ancora associata, nell'immaginario collettivo, a ristoranti con tovaglie a scacchi rossi e bianchi e con appese ai muri le fotografie della torre di Pisa e del Colosseo, e a delinquentelli panciuti con i capelli impomatati che quando parlano usano toni enfatici e gesticolano troppo. Pertanto, alle opere di questi autori − che in passato hanno contribuito a delineare l'identità della comunità italoamericana − spetta adesso il compito di preservarne il ricordo e di svelare, attraverso le loro pagine, tutte le sfaccettature e la complessità della sua storia.

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