PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA (1963-1976)
2.1 PENSIERO SULL’INSEGNAMENTO
«Io so fare solo queste cose - diceva Rossi - per cui posso insegnarvi soltanto quello che so fare. Voi, se siete interessati, fate quello che faccio io insieme a me, poi quando non sarete più miei allievi farete quel cavolo che vorrete».
Luciano Patetta, a proposito di Aldo Rossi225
Nel 1954 Aldo Rossi ha 23 anni. Nonostante la sua condizione di giovane studente, non manca di avere una chiara posizione in merito alla questione dell’insegnamen- to dell’architettura – una questione che probabilmente in quel periodo sente molto e di cui percepisce tutta l’urgenza. In occasione della Conferenza internazionale de- gli studenti di architettura, “Architettura moderna e tradizioni nazionali”, svoltasi a Roma il 15 aprile 1954, avrà modo di esprimerne tale posizione.
Secondo Rossi vi è l’«attuale urgente necessità di costituire una “scuola” di architet- tura capace di promuovere una accorta ricerca degli elementi formali e una intel- ligente catalogazione dei canoni fondamentali del movimento moderno»226. In lui esiste una forte consapevolezza del lascito del periodo razionalista, che gli permette di rilevare la «necessità di un movimento di architettura che si proponga una ac- corta opera di revisione critica e un ragionato assestamento dei motivi linguistici già acquisiti, più che l’invenzione di una ennesima e poco sensata “poetica moder- na”»227. Il suo lavoro all’interno della scuola di architettura lo condurrà verso questo obiettivo, messo sempre più a fuoco nel corso degli anni.
Rossi e altri rappresentanti della sua generazione si pongono nei confronti dell’inse- gnamento con un atteggiamento ben diverso da quello espresso dai maestri con cui si sono formati, Ernesto Rogers in primis, ma anche Ludovico Quaroni e Giuseppe Samonà. Rossi, così come Grassi e altri, non adotterà infatti mai un approccio ma- ieutico con i suoi allievi; piuttosto cercherà di fornire loro risposte il più possibile chiare. In questo senso Daniele Vitale, suo allievo verso la fine degli anni Sessanta, ne ricorda alcuni aspetti che lo distinguevano da Rogers:
225 Luciano Patetta, Diario in pubblico, cit.
226 Situazione dell’architettura in Italia (sommario della relazione dell’arch. Eduardo Vittorio) - Re- lazione tenuta alla Conferenza internazionale degli studenti di architettura “Architettura moderna e tradizioni nazionali” - Roma 15 aprile 1954, in Archivio MAXXI Architettura/Fondo Aldo Rossi/ Faldone 1/Fascicolo D1/1
«Un giorno Rogers aveva spiegato la sua idea di insegnamento, basata sulla libertà individuale dello studente e sul potere maieutico del maestro. Buon maestro era colui che insegnava non una maniera ma un metodo, spingendo ciascuno a scoprire la propria indole e il proprio personale cammino. Rossi aveva dichiarato di non essere d’accordo, perché l’architettura si è costituita nella storia come un sapere, una tecnica, un mestiere, e a partire da questa realtà doveva essere insegnata. Il problema non era di fidare in un metodo in sé labile e incerto, ma di costruire un sistema di conoscenze e un impianto teorico. Né per intervenire sul corpo delle città era sufficiente indicare un procedimento e invocare la qualità delle opere; bisognava trovare delle ragioni fondanti, fissare dei criteri, indicare delle soluzioni»228.
La questione della scuola di architettura è uno degli aspetti su cui Rossi insisterà maggiormente negli anni seguenti, ed essa coincide per lui con la costruzione di una teoria della progettazione che stia a fondamento della scuola stessa:
«la formazione di una teoria della progettazione costituisce l’obiettivo spe- cifico di una scuola di architettura e la sua priorità su ogni altra ricerca è incontestabile. Una teoria della progettazione rappresenta il momento più importante, fondativo, di ogni architettura, e quindi un corso di teoria della progettazione dovrebbe porsi come l’asse principale di una scuola di architet- tura»229.
Rossi esprime questa precisa sintesi alla metà degli anni Sessanta, in occasione del seminario sulla teoria della progettazione coordinato allo IUAV da Giuseppe Sa- monà230. L’esperienza maturata negli anni precedenti sull’insegnamento porta al consolidamento di tale posizione e la definizione di una teoria dell’architettura diventa per Rossi un obiettivo primario. Nella prefazione agli Scritti scelti sull’ar-
chitettura e la città231 Rossi spiega qual fosse la meta da raggiungere attraverso l’in-
228 Daniele Vitale, in Italia 60/70. Una stagione dell’architettura, cit., p.310
229 Aldo Rossi, Architettura per i musei, in AA.VV., Teoria della progettazione architettonica, Dedalo, Bari, 1968, p.123
230 Otto lezioni (di Guido Canella, Mario Coppa, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Alberto Samonà, Gabriele Scimemi, Luciano Semerani e Manfredo Tafuri) sul tema “La teoria della progettazione architettonica” si sono tenute presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia durante l’in- verno e la primavera del 1966.
segnamento:
«mi sembrava necessario porre alcune basi di stabilità soprattutto all’insegna- mento della progettazione che allora si aggirava tra un vago funzionalismo e alcuni assiomi del Movimento Moderno ripetuti stancamente. Così fui at- tratto dall’esigenza di stabilire qualche elemento invariante o stabile [attraver- so] i miei studi sulla città, la tipologia e la morfologia urbana»232.
Nello stesso 1966 Rossi scrive un articolo intitolato La formazione del nuovo ar-
chitetto233, da pubblicare sulla rivista «L’architetto». L’articolo (rimasto poi inedito)
espone la sua posizione in merito al modo in cui l’insegnamento dell’architettura dovrebbe, a suo parere, essere impostato nell’università. Emergono da tale scritto alcune posizioni che egli stesso, nell’ambito dell’insegnamento della progettazione architettonica, metterà effettivamente in pratica, e che la Scuola di Milano, negli anni seguenti, includerà nella propria struttura organizzativa:
«insegnare la progettazione architettonica significa insegnare un sistema de-
finito con cui affrontare e risolvere i problemi; ammetto che possano esservi
diversi sistemi, e che anzi possa essere utile il loro raffronto e il dibattito che essi suscitano, ma sono convinto che l’unica possibilità di uscire seriamente dalla situazione in cui ci troviamo sia quella di offrire a tutti un sistema di progettazione»234.
Rossi sceglie di parlare di progettazione, e non di composizione, perché predilige la concretezza di questo termine, riferendosi esso a «tutta l’attività creativa dell’archi- tetto».
In tale testo Rossi sostiene inoltre che «in una facoltà d’architettura moderna do- vrebbe esistere un solo corso di progettazione continua dal primo all’ultimo anno comprendente anche i problemi di progettazione dell’architettura degli interni e dell’urbanistica». Questo aspetto viene in una certa misura concretizzato pochi anni dopo, a partire dall’anno accademico 1967/68, grazie all’ottenimento da parte
Milano 1975
232 Aldo Rossi, Prefazione, in Id., Scritti scelti sull’architettura e la città 1956-72, cit., p.VIII 233 Aldo Rossi, La formazione del nuovo architetto, dattiloscritto inedito, 1966, in Archivio MAXXI Architettura/Fondo Aldo Rossi/Faldone 2/Fascicolo D2/1
Aldo Rossi, La formazione del nuovo architetto, dattiloscritto inedito, 1966, in Archivio MAXXI Architettura/Fondo Aldo Rossi/Faldone 2/Fascicolo D2/1
del Movimento Studentesco di un’impostazione della Facoltà di Milano basata sui
gruppi di ricerca, che saranno effettivamente destinati a studenti di tutti gli anni e
che prevedranno una ricerca potenzialmente sviluppabile senza soluzione di conti- nuità per gli anni a seguire. Si tratta di ricerche alimentate dagli studenti, e dunque in costante rinnovamento e approfondimento.
«È evidente che il corso di progettazione, così come viene qui inteso, dovrà essere necessariamente centrato sulla teoria architettonica; in altri termini sul- la possibilità di un insegnamento razionale dell’architettura»235
scrive Rossi, intendendo la disciplina architettonica come un blocco comprendente l’architettura, l’urbanistica e l’arredamento, e dunque schierandosi contro le diffuse posizioni che in quegli anni si battevano per la divisione tra questi ambiti, che lui considera gli «elementi costitutivi» dell’architettura; «resta acquisito l’interesse per una progettazione a scala urbana e l’emergere dei problemi della città nel campo dell’architettura».
In linea con l’idea rogersiana dell’architetto-intellettuale, Rossi contribuisce alla formazione di una nuova figura di accademico: nella lotta contro il professionalismo, si va infatti definendo un’idea di architetto che non necessariamente pratica il me- stiere, e che invece si dedica a tempo pieno all’insegnamento. «La figura del profes- sionista che insegna a scuola riesce sempre più difficile da capire e da sostenere»: in tal modo egli si schiera apertamente distinguendo il lavoro svolto in università da quello praticato in uno studio professionale. Ritiene che in università vada svolta principalmente un’attività di progettazione a carattere pubblico, nell’idea di una
comunità universitaria e di messa a frutto di una ricerca collettiva:
«proprio il full-time darebbe al docente, e allo studente, la possibilità di un’e- sperienza di lavoro, cioè di progettazione, molto più ampia di quanto possa offrire l’esperienza del singolo. [...] È falso, mi sembra, affermare quindi che una posizione di questo tipo sia antiprofessionalistica; essa lo è solo nella misura che ritiene essere la libera professione un altro tipo di attività, tanto degna e onesta quanto quella della progettazione e della ricerca universitaria, ma radicalmente diversa»236.
235 Ibidem. 236 Ibidem.
Tale posizione entrerà in contraddizione con quella da Rossi stesso assunta pochi anni dopo, quando comincerà a progettare edifici reali, e dunque a praticare la professione, smettendo così di dedicarsi a tempo pieno all’insegnamento. Del resto è nota la tendenza “assenteistica” di Rossi nel suo ruolo di docente allo IUAV di Venezia; anno dopo anno, la sua attività professionale si intensifica, impegnandolo sempre di più nelle tematiche progettuali del mestiere di architetto.
Erano anni, quelli in cui Rossi scrive questo breve saggio, durante i quali era im- possibile prescindere da una concezione politica e da un posizionamento ideologico che dettasse la linea delle proprie azioni e ne definisse il senso ultimo. Rossi mili- ta all’interno del Partito Comunista Italiano sin dal 1956 e si nutre della cultura marxista che sostanzierà il suo pensiero insieme a numerosi altri riferimenti lette- rari, filosofici, cinematografici quali Antonio Gramsci, Theodor Adorno, Luchino Visconti e Bertrand Russell. Anche nello scritto qui analizzato emergono le sue posizioni politiche: in questa occasione esprime infatti la sua profonda volontà di contribuire alla costruzione di un’università democratica, anche a fronte dei cam- biamenti che questa sta subendo proprio in quegli anni, nella sua trasformazione verso un’università di massa:
«è proprio della democrazia, in quanto società aperta, di permettere a tutti coloro che possiedono le capacità di studio di accedere all’Università senza discriminazione di razza, di censo, di classe [...] Questo non significa che l’U- niversità democratica sia l’Università di massa; proprio nel mettere in primo piano il valore della ricerca e della libera impresa intellettuale dell’università si devono mettere in primo piano i criteri scientifici di selezione del mondo universitario, degli studenti come dei docenti»237.
La lotta politica si traduce in una concezione etica e morale della propria azione: Rossi contempla fortemente la libertà d’azione e di pensiero, e concepisce roger-
sianamente l’università come il luogo il cui obiettivo ultimo è “la produzione della
cultura”, ritenendo «illegittimo che l’insegnamento universitario si rivolga ad altri fatti che non siano il significato delle cose».
Sarà proprio il posizionamento in favore della libertà che nutrirà la sua formazione di docente, ispirato a ciò che Russell sostiene in un suo scritto, vale a dire che il
compito di fondo di un insegnante universitario è quello di «esprimere le proprie credenze e le proprie speranze, siano esse condivise da molti, da pochi o da nessu- no»238. Proprio in questo senso, sarà all’interno dell’università che Rossi darà corpo
alla propria ricerca sull’architettura, aiutato e sostenuto dai numerosi studenti e collaboratori che lo affiancheranno. Proprio insieme a loro perseguirà la costruzione della sua teoria, nell’idea che «ogni facoltà [debba] precisare il carattere del suo inse- gnamento e della sua ricerca fino a costituire una vera e propria tendenza. [Perché] solo la formazione di tendenze permette quel dialogo a livello universitario, esposi- zione verifica e contestazione di tesi diverse, di cui oggi sentiamo la mancanza»239. E
del resto solo la chiarezza di un pensiero si può offrire come strumento di confronto e di dialogo.
Pochi anni dopo, all’inizio del decennio successivo, comincia a emergere in Rossi una posizione meno entusiastica e una maggiore consapevolezza rispetto alla dif- ficoltà di portare avanti il progetto culturale che egli aveva fino a quel momento contribuito ad alimentare. Giunge a constatare un seppur parziale fallimento del suo progetto: «il cambiamento effettivo si è verificato nel passaggio dai corsi alle ricerche: se il corso costituiva l’impalcatura di un sistema didattico di cui si era perso il significato (Hegel e sistematica) la ricerca costituiva una speranza. Oggi dobbiamo constatare che non si è andati molto oltre la speranza»240. Rossi cerca le ragioni di tale sconfitta, e tuttavia non si arrenderà nel perseguimento del proprio obiettivo primario.
Le ragioni che hanno portato a tale condizioni sono espresse in alcuni appunti per- sonali mai pubblicati. Rossi si rende conto che «non si è mai detto come avvenga una ricerca. In realtà il come significa l’unica possibilità concreta di uno svolgimento didattico. Anche noi denunciamo questa crisi che non abbiamo risolto e ha frenato la nostra produzione»241. C’è frustrazione e consapevolezza in tale affermazione:
egli capisce che la scuola ha intrapreso un percorso senza averne offerto gli estremi fondamentali per poterlo affrontare. Si rende conto che sia gli altri docenti che lui
238 Bertrand Russell, Libertà accademica, in Id., Perché non sono cristiano, Tea, Milano 1957, p.136 239 Aldo Rossi, La formazione del nuovo architetto, cit.
240 Considerazioni sulla situazione della Facoltà, materiale didattico relativo al Gruppo di ricerca del Politecnico, fascicolo a stampa della comunicazione di Rossi “Note su alcuni testi di Architettura”, 1970-73, in Archivio MAXXI Architettura/Fondo Aldo Rossi/Faldone 4/Fascicolo D4/1
stesso non hanno del tutto capito come si conduca una ricerca. Inoltre, «nella corsa al carattere progressivo della ricerca i docenti hanno abbandonato quanto costituiva bene o male un loro patrimonio di acquisizioni. Hanno così pensato di cambiare argomento e naturalmente l’argomento più promettente si è rivelato quello di na- tura politico-sociale». Rossi traccia in maniera sintetica ed estremamente lucida la condizione della facoltà, e forse non si sente coinvolto in questo aspetto, consape- vole di aver evitato di impostare la sua ricerca su fondamenti unicamente o princi- palmente ideologici, in favore di un’aderenza alla propria linea culturale.
Ciò che invece lo riguarda è l’ultimo aspetto, secondo il quale «la ricerca, essendo divenuta incommensurabile, ha eliminato ogni possibilità di raffronto». La scuola organizzata secondo i Gruppi di ricerca aveva effettivamente senso a partire dalla possibilità concreta di un continuo raffronto tra le ricerche prodotte. C’è un ripen- samento da parte di Rossi in merito all’impostazione della sperimentazione didatti- ca, che addirittura lo conduce a rivalutare il “corso” nella sua vecchia concezione: il quale «in qualche modo, poneva lo studente in grado di un giudizio comparativo e istituiva una dialettica». Non irrilevante inoltre è il fatto che l’autogestione - da Rossi pienamente condivisa in origine - abbia portato con sé l’abolizione delle va- lutazioni, non solo a livello di giudizio, ma anche come atto in sé. Rossi si accorge dei nefasti risultati di tale impostazione e constata che per quanto «l’eliminazione dell’esame [fosse] sacrosanta come autentica azione contro l’autoritarismo, esso ha [tuttavia] impedito la possibilità di un giudizio».
Notevole risulta la lucidità e l’intelligenza dimostrate da Rossi, contrassegnate da un’onestà intellettuale che gli permette di rivedere le sue stesse posizioni e di sotto- porle a una nuova verifica.
Sarà vent’anni più tardi che, in un articolo per il «Corriere della Sera» del 18 ot- tobre 1990, Rossi si porrà la domanda definitiva, intitolando il suo articolo “Ma ha ancora senso la facoltà di architettura?”242. È ormai trascorso il decennio degli anni Ottanta e l’insegnamento universitario ha conosciuto una crisi che ha deter- minato il fallimento di tutta una serie di questioni sviluppate dentro le facoltà negli anni Sessanta e Settanta. «Un maggior numero di iscritti, un singolare interesse, passione e disordine, notevoli differenze di insegnamento, insufficienza delle aule e tutte quelle carenze che giustamente sono indicate da docenti e studenti» si ma-
242 Aldo Rossi, Ma ha ancora senso la facoltà di architettura?, in Le facoltà di architettura, «Corriere della Sera», 18 ottobre 1990
nifestano in particolare nelle facoltà di architettura. Rossi «cred[e] che quello che rende singolare le Scuole di Architettura non sia una crisi della scuola, ma una crisi della disciplina». Si domanda «come nascono le facoltà di architettura?» e cerca di ricostruire in modo generale l’origine di queste, dalla tentata riunione dell’Ecole des Beaux Arts e dell’Ecole des Ponts et Chaussées: «ma la facoltà di architettura non ha mai realmente risolto i problemi di questa unione».
La sua opinione è sempre più critica con il passare del tempo; la sua posizione è ora diversa da quella sostenuta inizialmente e poi negli anni seguenti, tanto che in questa fase «ved[e] con favore la possibilità di creare delle scuole tecniche dove si formino veramente quegli architetti che la metafora di Adolf Loos ha esternato: “L’architetto è un muratore che ha studiato il latino”. Le scuole non si devono oc- cupare di fornire poetiche». Per quanto Rossi si riferisca alla questione dello stile e non alle teorie dell’architettura, forse consapevole dell’effetto emulatore che il suo insegnamento ha prodotto, rivede - seppur parzialmente - le sue giovanili opinioni:
«noi ammiriamo e studiamo i grandi architetti, ma anche vogliamo insegnare una disciplina precisa, che si possa trasmettere razionalmente, e questa è quel- la che chiamiamo tecnica»243.
Il continuo spostamento delle sue opinioni è segno di molteplici questioni: come già osservato, Rossi interpreta il momento storico che vive, non si fossilizza mai in una posizione indiscutibile; tuttavia, il calo del suo interesse nei confronti dell’inse- gnamento va di pari passo con la crescita del suo successo come architetto di fama internazionale. Sarà dunque a Venezia, negli ultimi anni della sua vita, che denoterà scarsissimo impegno tra le aule universitarie, per lo più delegando ai suoi assistenti il compito di trasmettere il suo messaggio.