Piera Condulmer
A b b i a m o iniziato la serie di questi articoli sull'artigianato torinese, con lo spirito atteggiato ad u n certo sospiroso r i m p i a n t o , come u n a lamentatio p e r u n p a s s a t o p e r d u t o , u n b e n e di cui n o n po-t r e m o p i ù f r u i r e . A v e v a m o la sensazione di essere c o n d a n n a t i , p a r a d o s s a l m e n -te, a vivere nello squallore p e r eccesso di tecnicismo, di p e r f e z i o n i s m o . Concet-ti quesConcet-ti che s e m b r a n o anConcet-titeConcet-tici tra loro, m a in realtà n o n lo sono, p e r c h é se la perfettibilità è aspirazione e prerogativa dello spirito u m a n o , la p e r f e z i o n e rea-lizzata d a l l ' u o m o , con la sua avanza-tissima tecnologia, h a un che di disu-m a n o , e ci ridisu-mane estraneo, e a n d i a disu-m o istintivamente alla ricerca di quell'atti-m o d ' i quell'atti-m p e r f e z i o n e che ce lo faccia sen-tire più vicino alla nostra condizione i m p e r f e t t a .
La ripetizione m e c c a n i c a e in serie an-che dell'oggetto più bello, estremamen-te l o n t a n o o r m a i dal calore u m a n o del p r o t o t i p o , p u r nella r i p r o d u z i o n e esat-tissima, n o n dà gioia, p e r c h é la s e n t i a m o o r m a i m a t e r i a inerte, dalla q u a l e la creatività iniziale è esalata.
Questi pensieri mi si sono fatti presenti alla m e n t e r i p e r c o r r e n d o il c a m m i n o dell'artigianato della ceramica in Pie-m o n t e e più p a r t i c o l a r Pie-m e n t e a T o r i n o . Ma forse lo s p u n t o mi è derivato dal-l'aver visto aprirsi nel centro della città u n a botteguccia di ceramista artigiano, a r r e d a t a in assoluta semplicità, con esposti nell'incavo di u n m u r o i suoi lavori a p p e n a plasmati o già decorati, i suoi attrezzi, i suoi sacchetti di belle figuline, di argille. Lavori più raffinati, m e n o raffinati, m a pieni di vita; il vasa-io intento al suo lavoro copiava il mo-dello che aveva nella sua m e n t e , e aveva evidente il piacere del f a r e , del dar c o r p o ad u n a idea.
Sono nostalgie dell'individuale che riaf-fiorano di f r o n t e allo s t a n d a r d , e che a poco a p o c o i n v a d e r a n n o a n c h e il c o n s u m o in quei settori d o v e ciò è pos-sibile, e l'artigianato, liberato da certe pastoie mortificanti la sua necessaria libertà, d o v r à p u r rifiorire come neces-saria ed inalienabile attività u m a n a , con tutti i suoi benefici influssi sociali. Ed ora v e n i a m o a l l ' a r g o m e n t o che inte-ressa queste note: i maiolicari in Pie-m o n t e , o Pie-meglio a T o r i n o , per restrin-gere u n p o c o la trattazione, a n c h e se per iniziare il discorso storico d o b b i a m o uscirne. I n f a t t i è a Pollenzo e ad Asti che d o b b i a m o riferirci p e r i n t r o d u r r e questo discorso a p r o p o s i t o del paese s u b a l p i n o , r i c o r r e n d o alle testimonian-ze, a n c h e se fugaci, di d u e scrittori la-tini: Marziale in u n o dei suoi
Epigram-mi (il X I V ) accenna in f o r m a amEpigram-mirati-
ammirati-va ai ammirati-vari p r o d o t t i di cui è c a p a c e la ricca città provinciale di Pollenzo: Non tantum pullo lugentes veliere lanas Sed solet et calices haec dare terra suos
m e n t r e Plinio (Naturalis Historia XXXV v. 46) rivendica all'Italia gloria di vasi belli, che n o n sono p u r a p r e r o g a t i v a di S a m o : « Et calicum t a n t u m , S u r r e n t u m , Asta, Pollentia... ». E C l a u d i a n o a n c o r a ne ricorda i celebri vasi in terracotta e in vetro. Poi u n g r a n silenzio, giustifi-cato per Pollenzo dalla enigmatica to-tale distruzione della ricca e g a u d e n t e città, n o n si sa se per causa, o in con-c o m i t a n z a con-con i ripetuti assalti di Ala-rico e dei Visigoti.
D o b b i a m o perciò giungere alla riorga-nizzazione della vita comunale, per ave-re ragione di ricercaave-re negli antichi or-dinamenti riguardanti le arti e i me-stieri, qualcosa che riguardi quest'arte; ma, strano a dirsi, negli Ordinati del Consiglio Comunale di Torino per gli anni 1374-1375, tra i ventisei gruppi di attività elencate come tenute a fornire e portare i ceri per la festa di S. Gio-vanni, n o n ne ho trovata u n a che po-tesse corrispondere all'attività del va-saio, del figulo, o del fornaciaio. Allora andai avanti nel tempo fino alle Costituzioni di Amedeo V i l i del 1430, stabilenti la disciplina delle arti e dei mestieri; m a n e p p u r e li h o trovato men-zionati i miei maiolicari.
Proseguiamo il nostro c a m m i n o storico fino all'Editto di Carlo Emanuele I, del gennnaio 1580 e troviamo che si fa « obbligo a tutti gli artisti e mercanti, ognuno secondo la sua arte, fra due mesi dopo la pubblicazione della pre-sente, abbiano tutti a consegnarsi, e loro lavoranti e garzoni, luogo per luo-go, e eleggere tra loro di ciascun arte, tre delli più sufficienti, dei quali due sa-sanno chiamati massari e il terzo prio-re ». Lo stesso duca nelle Costituzioni del 1619 elencava c i n q u a n t u n gruppi di attività (escluse le professioni
no-bili) tenuti alla iscrizione obbligatoria
nella matricola dell'arte, e tra essi trovo i chincaglieri, e più oltre fornaciari: possiamo annettere i figuli, i vasai ad u n a di queste categorie?
È strano, perché se ci spingiamo innan-zi nella ricerca fino alle Costituinnan-zioni di Vittorio A m e d e o II, che ridistribuisce le forze di lavoro in ventidue università, soggette alla vigilanza statutaria del Consolato, e alla vigilanza produttiva e di moralità professionale del Consi-glio del Commercio, n e m m e n o f r a esse trovo i ceramisti, e dire che da Ema-nuele Filiberto in poi, duchi e re f u r o n o tutti preoccupati di dotare il proprio paese anche di questa attività. Questa infatti come le altre, s'inquadrava nella disciplina economica dello Stato, rap-presentava la possibilità di sottrarsi al-l'importazione da altri paesi, q u a n d o negli usi domestici il legno e lo sta-gno per le classi umili, e l'oro e l'ar-gento e il vermeil per le alte classi,
do-vettero essere sostituite con la terraglia, la maiolica, come stoviglie d'uso, in at-tesa di poter realizzare il sogno della porcellana cinese.
Sappiamo viceversa, che Emanuele Fi-liberto al rientro nei suoi stati, si pre-m u r ò di propre-muovere quest'arte e per sottrarsi alla importazione e per procu-rare nuovi posti di lavoro ai suoi sudditi affamati di lavoro. Ed allora ricorse a quei maestri che tra Faenza e U r b i n o stavano d a n d o celebrità alla ceramica italiana: ed ecco il celebre Orazio Fon-tana venire a Torino e Antonio N a n i da Urbino. Questi anzi risiedeva a pa-lazzo, come u n o di quegli artefici che il duca ospitava per averli sempre a di-sposizione nel suo laboratorio, q u a n d o le cure di governo gli consentivano di andarvi per le sue esperienze di alchi-mia, o a studiare nuove macchine, sen-za mai dare tregua alla sua attività, dice l'ambasciatore veneziano Francesco Morosini nella sua Relazione al Senato della Serenissima.
La conferma dell'interesse del duca per l'attività figulina a Torino, ci vie-ne data dal Registro dei conti della Te-soreria generale, che presenta frequenti pagamenti ai due artefici nominati, fin dalla sua permanenza a Rivoli, e cioè dal 1562. Il D u b o i n poi nella sua
Rac-colta di leggi editti ecc. (Voi. XIX)
regi-stra il perentorio divieto del duca di estrarre terra di Cumiana senza permis-sione e tanto peggio di esportarla f u o r i dei suoi stati: « Nessuno ardisca
estrar-Recipiente particolare di cui al castello di Masin
vi è una collezione. Questo porta appunto scritto
sotto il manico « Masino ».
re f u o r i dello stato terra di Cumiana e di Piossasco, perché si fa crusoli si pel servizio delle nostre artiglierie e per l'uso di artefici ». Si riferiva cioè alla quarzite di quei terreni.
Nel Museo d'arte antica di Torino, nel-la raccolta delle ceramiche donate da Emanuele Tapparelli d'Azeglio, vi è un cestello in maiolica con la scritta sul retro « Fatta a T o r i n o a di 12 setebre 1577 », che è da attribuire a questa prima m a n i f a t t u r a , eseguito nello stile compendiario dei faentini Virgiliotto e Bettisi, che pare siano venuti pure a To-rino. Questa f r e q u e n z a di ceramisti feantini p u ò essere legata alla presenza qui del pittore Alessandro Ardente, di Faenza, che dal 1572 rimase a lungo coi Savoia.
La ceramica faentina dal '400 era assur-ta a grande rinomanza per essere pas-sata dalla terracotta, o mezza pasta co-perta da vernice piombifera, alla maio-lica sottile e leggera coperta da uno smalto fluido e brillante, con decorazio-ni sempre raffinate, specie nel secondo periodo, con colori chiari ma vividi (il — berettino — o azzurro pallido), con il centro occupato da ritratti, e il bordo ornato da mascheroni, la cui b a r b a si articola in arabeschi.
Altri esemplari di questo periodo in To-rino, p u r t r o p p o non si sono potuti re-perire, e questo donato dal d A z e g l i o , fu comperato dal diplomatico piemonte-se alla Galleria Raynol di Londra.
L'interesse sabaudo alla industria cera-mica continua con Carlo Emanuele I, il quale consente che venga aperta u n a manifattura a certo Simone Fasola con-cedendogli l'esclusiva per dieci anni, perché « ha introdotto l'arte di far ma-iorica et vasi turchini nella città nostra di Asti » e ciò in data 15 luglio 1581. In quel di Torino viceversa, nel 1616 concede venga aperto un laboratorio di ceramiche ai limiti del Regio Parco e accetta l'offerta di Tadea di Dus, ve-dova di un ceramista faentino che lavo-rava a Lodi, allora importante centro di tale lavorazione della ceramica. Ma questa impresa pare non abbia sortito molto b u o n esito e nulla è rimasto a testimoniare della sua produzione, cosi come nulla ci è rimasto di un'altra ma-nifattura apertasi nel 1621 in Borgo Po. Più interessante viceversa risulta quella per la quale Cesare Bianchi, un ligure, ottenne regia patente nel 1649 e venne privilegiata con esenzioni fiscali, dal pagamento dei pedaggi pel trasporto di quanto necessario alla fabbrica, e l'esclusiva per dieci anni. Di questa ma-nifattura è stato t r a m a n d a t o il nome del capo fabbrica, che risulta essere stato certo Nicola Corradi di Arbasola, il che dimostra che l'attuale Albissola già era in grado di esportare m a n o d'opera qualificata; ad Albissola poi avevano compilato gli Statuti dei fi-glili.
Questa fabbrica adottò a T o r i n o il mar-chio dello scudo crociato di Savoia sor-montato dalla corona ducale, e tentò di rispondere ai desideri dei duchi di realizzare pezzi che tentassero una so-miglianza coi rarissimi e costosissimi prodotti cinesi, realizzati in quella por-cellana che per gli occidentali era an-cora un sogno poterla p r o d u r r e . Le ci-neserie infatti erano divenute u n a m o d a ossessiva, e i vari principi andavano a gara nello sforzo di riprodurla da noi, se non nella sostanza almeno nella de-corazione; perciò abbiamo ora le cera-miche orientaleggianti, con decorazioni cioè di uccelli e animali vari tra un
fo-gliame delicatamente variopinto su di uno sfondo di vernice bianca.
Tuttavia il maiolicaro a Torino pare non avesse molta fortuna, e certo ciò dipendeva dalla scarsa conoscenza dei suoli piemontesi, dall'assenza quasi del-lo studio chimico di essi, poiché la chi-mica era ancora confusa con l'alchimia, che non aveva compiuto la sua evolu-zione. Era questione di miscelature e di dosaggio che dovranno attendere ancora circa un secolo, a Torino, il loro scien-ziato e il loro artista. Perciò anche se belle, le nostre ceramiche presentavano poca resistenza al fuoco, o la vernice troppo facile a screpolarsi, o la fragilità del pezzo, o porosità non molto igie-nica.
Ben più attivo perciò era questo arti-gianato sul suolo monregalese, ricco di strati profondi d'argilla figulina, di banchi di quarzite, di dolomia, tanto che G. B. Botteri dice che a Chiusa di Pesio nel 1763 vi erano ben 31 fabbri-che di stoviglie, mentre, secondo alcuni, già nel '600 tale attività dava luogo ad un interessante movimento di denaro, che G . Prato calcola sulle 250.000 lire all'anno.
Era tuttavia u n artigianato u n poco campagnolo, di poche pretese, che sod-disfaceva le esigenze pratiche di u n a popolazione che andava aumentando, e si preoccupava di rispondere ad esse con miglioramenti tecnici più che este-tici, per giungere ad u n a maggiore soli-dità con un migliore impasto e omoge-neità, provando vari sistemi di cottura, perché questa avvenisse uniformemente. Vi era stato però certo Stefano Olivero che mescolando argilla con la piombag-gine, avea ottenuto crogiuoli eccellenti. Ancora a Castellamonte il maneggio delle argille era un'attività che andava facendosi caratteristica; con la sua ar-gilla bigia esso produceva bensì stovi-glie correnti di larghissimo uso, ma an-che era capace di maiolian-che fini, come due bei vasi esistenti, al castello di Ma-sino, con e senza coperchio, di cui u n o con decorazione decisamente orientaleg-giante stanno a dimostrare. La sua gran rinomanza peraltro è legata alle stufe, ai caminetti, agli scaldini, nei quali stru-menti calorifici l'artigiano immetteva spesso il suo estro decorativo.
T r a queste fortune e sfortune dei vasai piemontesi e torinesi, la corte per l'ap-provvigionamento delle maioliche di cui necessitava, si rivolgeva alla produzio-ne savoproduzio-nese, cui si era legata, molto probabilmente attraverso il pittore Bar-tolomeo Guidobono, divenuto affresca-tore del convento di S. Francesco da Paola in Torino, e apprezzato pittore di corte. Egli era figlio di u n noto maioli-caro di Savona, Girolamo Guidobono, ed il p a d r e lo aveva iniziato nella sua arte, lo aveva mandato a studiare a Par-ma, e poi a Venezia perché imparasse l'arte del colore. Con questi studi e con il suo estro, egli era cosi in grado di af-fermarsi come pittore, e nello stesso tem-po come capace decoratore di ceramiche,
che rendeva festose con scene bosche-recce e danze di amorini, creando quel-lo stile vecchia Savona, con cui ha p u r e arredato tante antiche farmacie, alli-neando sui loro scaffali quelle bellissime arberelle, con o senza coperchio, che dovevano contenere i toccasana dell'epo-ca, polveri di sterco di topo, di corno sinistro di bue, ecc., e tra esse, al cen-tro, troneggiava sempre il grande vaso artisticamente il più bello, spesso in bronzo, m a più spesso in ceramica, per contenere la regina dei rimedi universa-li: la Teriaca
Ci avviciniamo cosi a quel fortunoso secolo X V I I I che rimarrà cruciale nella storia di questo settore dell'attività in occidente, lanciata alla scoperta del caolino come materia p r i m a , non suffi-cientemente studiata, p e r ottenere le bramate porcellane cinesi, bianchissime, trasparentissime, leggerissime, irraggiun-gibili per l'estrema costosità, se non dai grandi della terra. Pungolo reso più acuto dall'instaurarsi anche di una moda letteraria dell'esotismo, favorita dai molti viaggi che le scoperte scientifiche rendevano più celebri per mare. L'Oriente entra nelle opere di Voltaire, di Montesquieu, di Goethe in varia gui-sa, alle corti e nei palazzi padronali il salotto cinese viene quasi d'obbligo con tappezzerie, decorazioni, laccature ade-guate, in attesa delle cineserie in porcel-lana casalinga, quando n o n è possibile procurarsi le autentiche.
Ma del grande assalto alla porcellana, parlerò altra volta, ora dobbiamo
rima-nere alla propedeutica di essa, per cosi dire, a quella ceramica, a quella maio-lica che i re sabaudi tentano di far svi-luppare artisticamente, sempre all'ar-rembaggio di impresari artisti e corag-giosi su cui riversare i loro favori e i loro privilegi, per dare al proprio regno una produzione di pregio.
All'inizio del secolo tuttavia non sono da trascurare certe ragioni storiche e politiche che h a n n o movimentato il mondo della ceramica trasformandolo in moda. Tali f u r o n o le miserrime condi-zioni cui era giunto l'erario francese pel dissanguamento di ogni residuo che le ostinate guerre imperialistiche di Lui-gi XIV avevano provocato. Si rese ne-cessaria l'offerta alla patria degli ori e degli argenti della aristocrazia francese, che dovette spogliarsi di tutti i suoi bei servizi da tavola e soprammobili, ricorrendo alla ceramica per la sosti-tuzione.
Dalla necessità alla m o d a il passo f u breve, e f u tosto compiuto anche da chi non si trovava nelle stesse condizioni di necessità patriottica. E allora inizia la rincorsa al bello in questa produzione, e la caccia agli artisti più abili che sap-piano infonderlo anche nell'utile. Si disse allora che la Francia si sia messa tutta en fàience, espressione che indica chiaramente come la Francia non si sia resa maestra nostra in materia, m a che abbia attinto dal glorioso passato italiano faentino, che aveva dato bel-lezza non solo a semplici oggetti, ma a pavimenti di cappelle, a facciate di pa-lazzi, a cuspidi di campanili, senza con-tare la grande arte dei Della Robbia. Che poi certe nostre abilità e certi no-stri gusti si siano naturalizzati in Fran-cia e si siano riespressi come francesi o
inglesi, ciò non sopprime la loro origi-ne. Origine che perciò è molto più an-tica del 1709, anno dell'Editto di requi-sizione francese dei preziosi, ma che p u ò risalire a Carlo IX o a Francesco I d'Angoulème, attraverso i molti artisti italiani fatti affluire colà e a lungo ospi-tati. Influssi rinvigoriti dal trasferimen-to in Francia di Luigi Gonzaga diventa-to duca di Nevers attraverso il suo ma-trimonio con Enrichetta di Clèves, che invitò con mecenatesca larghezza artisti
Zuppiera rococò decorata con scene mitologiche e girali.
e artigiani italiani del campo della ce-ramica, tra i quali ricordiamo, verso la fine del '500 i fratelli Domenico, Batti-sta e Agostino Conradi, di Albissola, il che spiega il prevalere della decorazione azzurra del primo periodo delle cerami-che neverine, mentre il soggetto mitolo-gico della parte figurativa è faentino. Nel X V I I I secolo questa sintesi stilistica torna in Italia come stile di Nevers, allo stesso m o d o che lo stile detto di Moustier ha la sua paternità nel pittore fiorentino Tempesta, e lo stile detto alla Bèrein è quel grottesco stilizzato da Marot e da Bérain partito dalla rina-scenza faentina.
Ed ecco la terra piemontese regalare ai re sabaudi un nome, Rossetti, che f u per quasi un secolo il nome di una dina-stia, proveniente da Macello o da Ca-vour, anche se l'origine potrebbe darsi fosse lombarda, perché a Lodi già c'era una manifattura Rossetti, prima che a Torino o contemporaneamente a To-rino.
Noi poniamo l'inizio dell'attività di que-sti maiolicari verso il 1722, anche se quella ufficiale rimane alla data del Me-moriale a capi del 16 marzo 1725, con cui il re concedeva a Giorgio Rossetti i richiesti permessi, le concessioni, le esenzioni richieste, accordava il privile-gio di vendita e di fabbricazione e l'e-sclusiva, vietando l'importazione con-correnziale dall'estero. In più concedeva un prestito, senza interessi, di lire 3000 per far avanzare l'arte sua; prestito che,
avallato dal nipote Giovanni Battista, f u portato ad 8000 lire alle stesse condi-zioni. Un altro nipote, Giorgio Giacin-to, era andato a fare esperienze a Mar-siglia poi aveva lavorato a Lodi, e forse f u il canale attraverso cui tornò in Ita-lia dalla Francia, quello stile a grotte-sche che ne era partito nel '500, stiliz-zato e ribattezstiliz-zato dal Bérain. L'impianto sarebbe avvenuto in contra-da di Po; la lavorazione incomincia, ma non ci vengono indicate le terre im-piegate, si pensa tuttavia che venisse impiegata la magnesite di Baldissero come componente principale. Il primo periodo è ancora caratterizzato da una monocromia azzurrina divenuta cara ai Savoia, nella quale il pittore Gratapa-glia ha inserito la presenza di un gial-lino e verdino, come il piatto esistente al Museo civico di Torino presenta, con l'episodio di Susanna sul fondo, e i contorni lobati, firmato al retro
Gra-tapaglia Fe Taur, e il grande piatto da
servizio di più di mezzo metro di dia-metro, con al centro lo stemma sabaudo con la corona ducale, in un trofeo di armi. Ma se questo piatto viene attri-buito ai Rossetti, bisognerebbe pensare che essi lavorassero in Torino molto prima di ottenere le Patenti regie, certo prima del 1713, ché altrimenti avrebbe-ro dovuto disegnare la coavrebbe-rona reale e non quella ducale. Perciò questi esem-plari potrebbero non essere ancora dei Rossetti, ma forse di una fabbrica del Gratapaglia. Piatti col marchio di fab-brica adottato dai Rossetti, T R (cioè Torino Rossetti) nel primo periodo, non ne possediamo; il più antico firmato e j datato col marchio T. R. Fabbrica di
Torino 1736 dipinto da Giorgio Giacin-to Rossetti, si trova al Museo delle
cera-miche di Sèvres, dove emigrò in epoca napoleonica, q u a n d o s'impiantò tale museo, al quale Napoleone volle fosse preposto A. Brongniart e dove trovansi altri begli esemplari firmati da Giorgio Giacinto Rossetti, ma prodotti nella ma-nifattura di Lodi. Gli esemplari firmati j G. Rossetti esistenti a Torino a Palazzo M a d a m a , attribuibili a Giorgio Giacin-to, con decorazione azzurrina alla Bérain, potrebbero essere anche di Giorgio o di Giobatta, e per u n a più
Cestello in stile compendiario con al centro scenetta umoristica, in policromia.
Accanto: // marchio di fabbrica di Torino.
(Torino, Museo Civico).
precisa attribuzione occorrerebbe fare uno studio di raffronto con la produzio-ne di Lodi.
Vi è un periodo non b e n chiarito circa la permanenza di questa ditta in Torino, e cioè tra il 1728 e il 1736, in cui la loro fabbrica risulta passata al banchiere Pietro Bistorto, per poi ritornare nel '37 ai Rossetti, anzi a Giorgio Giacinto Ros-setti che si dichiarava « già introduttore della maiolica e dopo riformatore della medesima » non solo, m a volle impian-tare anche u n a fabbrica per la porcel-lana fine e trasparente. Di questa nuova e breve attività per ora n o n ci