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Nel documento DIS NZErOy UNIVERSITY OF ILLINOIS AT (pagine 55-61)

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roso ogni aspetto della natura e ogni moto dell’animo umano;

in lui, che componeva alcuni trattati nel medievale e uni- versale latino e altri nel nuovo volgare, reso potentissimo nella prosa non meno che nel verso; in lui, teologo e in- sieme vario e sensibilissimo poeta. E queste due forze ga- gliarde e parimente sincere sono da dire il precedente vero e la materia del poema, di gran lunga più ricca, mol- teplice e complessa di quella che appare involuta, o solo in talune sue parti, nelle opere minori.

Per tale materia, Dante si lega all’età sua e insieme, come si è detto, la produce e costituisce. Ma poiché quella materia nel suo spirito si formò in poesia, egli ne sorpassa il valore immediato e pratico, e crea cosa che non ha pre- cedenti fuori di sé stessa. Della poesia, invero, non è dato ritrovare mai fonti poetiche, e quelle di tal sorta, che ta- lora si additano per Dante come per altri, — le opere della poesia e letteratura anteriore, da lui conosciute e di cui risenti l’efficacia, — non sono punto poetiche, quali paiono superficialmente considerate, ma stanno anch'esse, rispetto alla nuova opera, come elementi materiali, alla pari di tutti gli altri elementi storici. In poesia, Dante creò una nuova

« tonalità », in cui le varie forze e tendenze, sue e della età sua, si riunirono e si fusero, risolvendosi nell’eternamente umano.

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LA STRUTTURA DELLA « COMMEDIA >»

E LA POESIA.

Se alla ferma fede nella vita oltremondana come vera ed eterna vita si univa nell’animo di Dante fortissimo il sen- timento delle cose mondane, se al suo poema posero mano

«e cielo e terra », la conseguenza che si presenta aperta è, che a rigor di termini la rappresentazione dell’ altro mondo, dell’ Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, non po- teva essere soggetto intrinseco della sua poesia né motivo generatore e dominante. Una rappresentazione di questa sorta avrebbe richiesto un assoluto predominio del sentire del trascendente su quello dell’immanente, una disposizione qual’è propria dei mistici ed asceti, aborrente dal mondo, aspra e feroce, o estasiata e beata, e di cui è dato rinve- nire qualche poetico assaggio nell’innografia cristiana o in alcuni cantici di fra Iacopone. Il ritmo sarebbe stato allora molto accelerato, e'le immagini affioranti e sparenti, ener- giche in certi tratti, vaghe e sfumate nel resto, quali si accennano nelle aspirazioni e nel terrore, premute d’ogni intorno dalla presenza del Dio. Ciò che più volte si è detto dai critici del Paradiso dantesco, che non si sarebbe dovuto svolgere come particolareggiata descrizione, ma condensare

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tutto in un alato canto lirico, esprimente l’aspirazione a non so che divino e inattingibile, sarebbe da dire, tal quale, dell’ Inferno, mutando bensi l’aspirazione nel suo contrario, nel terrore e orrore, e del Purgatorio, cangiandola in un misto di timore e di speranza, di ambascia e di gioia.

Ma Dante, quando compose la Commedia, non era in questa stretta condizione di spirito, sibbene in una assai più varia e complessa, e l’altro mondo non si sovrapponeva nella sua commossa fantasia al mondo, si invece apparte- neva con esso a un sol mondo, al mondo del suo interes- samento spirituale, nel quale l’uno e l’altro avevano parte, e il secondo forse maggiore che non il primo, e certo non minore, sicché il primo non poteva per niun conto sover- chiare e assoggettarsi l’altro.

Le contradizioni in cui ci si avvolge sempre che, nel- l’appressarsi al godimento e al giudizio della poesia della Commedia, non si muova da questo preliminare riconosci- mento, che soggetto o motivo poetico di essa non è la rap- presentazione dell’altro mondo, si fanno evidenti nell'esame dell’opposta sentenza. Alla quale sostanzialmente è da ri- durre anche la formula, che soggetto sia «il mondo guar- dato dall’altro mondo », semplice variante, perché è chiaro che nessun mistico o asceta può mai abolire il mondo, ma solo negarlo nell’altro, guardarlo dall’altezza dell’altro come stadio inferiore e superato. E guardare il mondo dal- - l’altro mondo importa lo scolorarsi di tutte le cose umane, il disinteresse che si stabilisce verso di esse, l'indifferenza per la particolarità degli affetti e delle azioni, per gli in- dividui nella loro individualità, che verigono generalizzati e ripartiti unicamente in eletti e reprobi, quali che siano stati i loro caratteri, le loro opere, le passioni e virtù loro, la loro grandezza terrena. Senonché in Dante non accade nulla di tutto questo; e, come il suo affetto corre per cento vie e non per l’unica della venerazione per gli eletti e del rac-

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capriccio pei reprobi, cosi il suo giudizio non si restringe in quello legale o divino dell’ «è salvo » e dell’ «è dannato», ma si allarga a giudizio morale, e discerne il bene nei dannati e il male nei salvati,-e perfino lascia prorompere liberamente amori e odî, simpatie e antipatie, trattando le ombre come cosa salda, gli spiriti giudicati e fissati nell’ al- tro mondo come uomini multilateri e in efficacia vitale.

Ciò vedono e sanno anche i sostenitori della defini- zione che ora si esamina, sicché proseguono col dire che

«Dante è andato nell’altro mondo portando seco tutte le passioni del mondo ». Che è proprio come non si può (almeno poeticamente) andare nell’altro mondo, il quale esige che si svestano tutte le passioni umane e si guardino le cose con altr’occhio, con l’occhio di chi si è risvegliato da un affannoso e brutto sogno e si ritrova nella vera e radiosa realtà. Onde l’ulteriore conseguenza di quella errata definizione è un’ac- cusa a Dante, tacciato d’illogico per aver fatto il contrario di ciò che s’era proposto: quasi che Dante avesse fatto ossia operato qualcosa, e non semplicemente poetato. E poe- tando sul sentimento cosi vario e complesso che si è de- finito, non poteva essere illogico, perché il sentimento non è mai né logico né illogico; e illogico, cioè non interamente armonico, era, in certo senso, solo il suo sistema di pen- siero, come, del resto, il sistema di ogni uomo e di ogni filosofo, che sempre ha qualche lato non armonizzato e non logico, che è appunto quello da cui nasce il nuovo pen- siero o il progresso che si chiami.

Al riconoscimento di sopra enunciato, oltre la conferma negativa che viene dall’esame di questa sentenza, si po- trebbero ritrovare conferme positive in altri detti, com’è quello che il filosofo in Dante sia « medievale» e il poeta

« moderno » (il primo, cioè, ascetico e mistico nel propo- sito, e il secondo passionale e politico nel fatto), e simili;

e anche in certe vicende di fortuna toccate alla Commedia, ‘

in particolare lo scontento più volte attestato dagli spiriti mistici o fantasiosi verso la rappresentazione che quel poema loro forniva dell’oltremondo, la quale sembrava a essi troppo determinata e contornata, troppo calma, con troppo poco inferno nell’inferno, e troppo poco paradiso nel paradiso, e troppo poco purgatorio, ossia attivo sforzo di redenzione e purgazione, nel purgatorio. Ma più persuasive di queste prove indirette sono le prove dirette, offerte dalle impressioni che ognuno raccoglie nel leggere la Commedia o dai ricordi che serba delle letture. Non è certamente la visione dell'altro mondo quella che rimane come immagine sintetica delle impressioni provate, non la perdizione terrificante dell’ In- ferno, o il travaglio di dolore e speranza del Purgatorio, o la felicità del Paradiso; ma, sopra le tante e diverse figure di personaggi dalla vigorosa tempra o dalle ardenti pas- sioni o dai violenti e truci atteggiamenti o dai sensi miti e gentili o dalla mente serena; sopra gli spettacoli di pae- saggi ora orridi e adusti, ora freschi e deliziosi, ora cupi per tenebre, ora allagati di luce; sopra le scene risonanti di parole pietose, elevate, gravi d’ammonimenti e d’inse- gnamenti, sdegnose, irate, solenni; l’immagine che si leva di una volontà robusta, di un cuore esperto, di un intel- letto sicuro, l’immagine di Dante: sicché si sarebbe inclini a non dare tutti i torti a quello scrittore settecentesco, che voleva togliere alla Divina Commedia il suo titolo vulgato e sostituirvi l’altro di Danteide. Non vero orrore, nell’In- ferno, per la dannazione, ma dimestichezza, tenerezza, af- fetto, riverenza per molti dei dannati, i quali, da lor parte, come se stessero in un carcere o in un esilio terreno, molta sollecitudine si danno della loro fama, e si adoperano a cor- reggere gl’ingiusti giudizî, che corrono sul loro conto:

la «tema d’infamia» li tormenta più delle pene infernali.

Accade perfino che essi celiino o quasi, o almeno placida-

‘mente conversino, scambiando notizie e riflessioni, come,

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per dirne una, il frate Catalano, l’ipocrita tristo che incede sotto il peso della cappa di piombo, il quale, allorché Virgilio, dalle informazioni che da lui ascolta, s’accorge d’essere stato ingannato dai demonî, osserva con deliziosa bonomia:

«Io udi’ già dire a Bologna Del diavol vizî assai, tra’ quali udi’ Ch’egli è bugiardo e padre di menzogna ». Ci volevano, a quanto sembra, Bologna, e le lezioni della sua Università, per far sospettare a uno che stava nell’Inferno che cosa fossero i diavoli. E celia Virgilio, il quale, rivolgendo una domanda al falsario coperto di scabbia, e che si gratta con le unghie furiosamente, rafforza la richiesta con l’augurio ironico: «se l’unghia ti basti Eternalmente a cotesto lavoro».

E Beatrice, nel Paradiso, all’udir Dante che, con riverenza impacciata, dà del voi a Cacciaguida, « ridendo parve quella che tossio Al primo fallo seritto di Ginevra »: maliziosa e birichina come la dama di Malehaut alla prima dichiarazione d’amore che si fanno Ginevra e Lancellotto nel romanzo.

Senza dubbio, Dante non ismarrisce la riflessa consapevo- lezza ch’egli è nell’altro mondo, che s’aggira nel cieco regno, nell’abisso infernale, tra le disperate atrocità della dannazione; ed esce di tempo in tempo in esclamazioni sul tipo: «O potenza di Dio, quanto è severa Che cotai colpi per vendetta croscia!»; «Oh sovra tutte mal creata plebe Che sta nel loco onde parlare è duro, Me’ foste state qui pecore o zebe! »; ovvero afferma che le «diverse piaghe » avevano «inebbriato» le luci sue, sicché « dello stare a piangere eran vaghe», e che ancor gli «duole», pur che si «rimembri». Nel Paradiso, innanzi alla rosa dei beati, procura di significare la forza immensa onde lo spettacolo lo percoteva e rapiva; e ricorre, come a misura da molti- plicare, al paragone dello stupore che coglie i barbari del settentrione al vedere Roma e i suoi edifizî e monumenti, e ne deduce: «Io che al divino dall’umano, All’eterno dal tempo ero venuto, E di Fiorenza in popol giusto e sano,

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