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Nel documento DIS NZErOy UNIVERSITY OF ILLINOIS AT (pagine 191-197)

se fosse « moins naturel », germanico. Riconoscendo, al pari del Fauriel, la duplice ispirazione del poema, « l’une in- stinctive et passionnée et l’autre studieuse et scolastique », ritrovava in questa duplicità la cagione delle bellezze sublimi che vi sono e dei particolari estranei, importanti bensi pei contemporanei ma fastidiosi ai moderni; e coneludeva che

«ses fautes, ses inégalités ne semblent pas altérer l’originalité puissante et continue de son style», né «le génie de l’expres- sion», che è in lui ammirevole, perché egli scrisse sempre

<avec la méme inspiration de verve et d’amour ». In Inghil- terra, il Coleridge ! vedeva in Dante «la combinazione della poesia con la dottrina, che è uno dei caratteri della poesia cristiana », sebbene gli sembrasse che Dante non fosse cosi ben riuscito in questa unione come il Milton; ammirava, d’altra parte, «la vivezza, la connessione logica, il vigore ed energia » della espressione di Dante, che vince quella di ogni altro poeta, anche del Milton, e il suo pittoresco, che non ha pari nei moderni e negli antichi, ed è intonato allo stile severo di Pindaro più che di altri; e non gli sfuggiva quel che in Dante è di compiacenza d'artista pel linguag- gio, per la bella ed efficace parola. Il Carlyle, continuando senza saperlo un pensiero del Vico, riponeva la «qualità centrale» di Dante, dalla quale tutte le altre fluiscono come da fonte naturale, nella «grandezza del cuore »; lo vedeva bensi stretto e partigiano nelle cose della fede, ma, nono- stante ciò, profondo, non «world-wide, but world-deep», onde la sua « abrupt precision» e pur naturale, quel suo pronun- ciare « a smiting word », una parola che colpisce, e poi silen- zio, non altro da aggiungere; sentiva in lui una melodia con- tinua, il «canto fermo». Il Macaulay notava la tristezza di

4 I luoghi del Coleridge e degli altri inglesi, in séguito mento- vati, sono raccolti nella citata opera del Toynbee; sicché mi rispar-

mio particolari citazioni. :

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Dante, dal cui animo era sparito ogni amore che non fosse la passione mezzo mistica per la sua sepolta Beatrice, e la mi- santropia ne aveva preso il posto, sicché, « esule feroce ed agitato, anche nel Paradiso tra i beati non è beato, non partecipa alla loro felicità »; lamentava l’importanza data dai commentatori alla fisica, metafisica e teologia di Dante, tutte cattive nel loro genere, e alle allegorie, con lo scoprirvi significati che l’autore non vi aveva posti, laddove «le grandi facoltà della sua immaginazione e la forza incom- parabile del suo stile, non furono né ammirate né imitate »;

e faceva molte osservazioni sul carattere delle metafore e comparazioni, sul finito e determinato e misurato che è nelle figurazioni di Dante, per esempio nel Lucifero, diversa- mente che nel Milton, e, particolarmente, sulla mitologia, che al Macaulay pareva della specie più antica e colossale, informata non allo spirito di Ovidio e di Claudiano, ma a quello di Omero e di Eschilo; i Minosse, Caronte e Plutone danteschi sono (egli diceva) « assolutamente spaventevoli », e l’uso dei nomi classici nell’ Inferno «insinua nella mente un’idea vaga e tremenda di qualche rivelazione misteriosa, anteriore a ogni storia scritta, i cui frammenti dispersi potevano essere stati conservati tra le imposture e le su- perstizioni di religioni più recenti». Anche cominciò a re- vocarsi in dubbio il tradizionale giudizio che la poesia di Dante scemi di forze e vada svanendo nel passare dall’ In- fevno al Purgatorio e dal Purgatorio al Paradiso. Il Villemain stimava ancora che, essendo l’imperfezione umana meno possente nel dipingere la felicità che i patimenti, il Paradiso avesse offerto al poeta meno che l’Inferno, e costrettolo a rifarsi con la scolastica, esposta bensi con rara capacità espressiva ma tuttavia fredda e noiosa; e il Coleridge pre- feriva l’ Inferno, perché Dante vi aveva potuto mettere molto più di vita terrena. Ma il Fauriel, ammettendo le grandi bellezze dell’ Inferno, affermava che le più grandi

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sono incontestabilmente nelle altre duecantiche; il Tommaseo credeva « più pure e più nuove le bellezze del Purgatorio, e quelle del Paradiso meno continove ma pi intense e, dopo la Bibbia, le più alte che si siano cantate mai »; lo Shelley teneva poema più bello, di quello dell’ Inferno, il Purgatorio, e coi « più acuti critici» giudicava che bisognasse invertire la graduatoria volgare e farla ascendente dall’ Inferno al Paradiso; il Carlyle toccò il punto giusto quando, nel di- chiararsi in disaccordo con molta parte della critica moderna sulla preferenza data all’ Inferno, manifestava l’avviso che ciò dipendesse dal « nostro generale byronismo nel gusto, che sembra essere un sentimento transitorio ».

Il motivo critico dei due Danti e della dualità della Commedia, che al Bouterweck si era presentato come una di- stinzione e diversità tra il « sistema » e la poesia del poema, e ad altri, meno esattamente, come un contrasto tra il Dante teologo e il Dante poeta, se non costituisce propriamente il problema centrale della critica dantesca, è certamente il problema preliminare, che questa si trova innanzi. Intorno a siffatto problema, nessuno tanto si travagliò quanto Fran- cesco de Sanctis, le cui meditazioni su Dante cominciarono nelle lezioni napoletane del 1842-43, proseguirono nelle con- ferenze torinesi del 1854-55 e in un libro non condotto a termine su Dante, e furono messe a stampa nei saggi sui principali episodî dell’ Inferno e nel lungo capitolo sulla Commedia, inserito nella Storia della letteratura del 1869-70, estratti compilati sul manoscritto del libro di dieci anni innanzi, che, come ora si è detto, non fu mai compiuto '. Le indagini del De Sanctis su questo argomento non giunsero, dunque, mai a piena maturità e furono piuttosto arrestate che concluse; e ciò giova tener presente per quello che si osser -

i B. Croce, Gti scritti di F. de Sanctis e la loro varia fortuna (Bari,

1917), p. 30.

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verà. Invero, la soluzione che egli dette del problema della dualità forse non fu molto felice, perché il rapporto dei due Danti, variamente atteggiato dai suoi predecessori, fu da lui concepito come quello tra allegorismo e poesia (0, come anche talvolta disse, tra cielo e terra), laddove esso era effettivamente e propriamente (come bene aveva visto o intravisto il Bouterweck) dualità, e talora dissidio, di struttura e poesia. Egli descrisse, per conseguenza, un Dante «sublime ignorante», ignaro della sua vera grandezza;

illogico nel suo fare, che, gran poeta qual era, si ribellava involontariamente e inconsapevolmente alle intenzioni che si era prefisso, all’allegorismo, e si lasciava soverchiare da quella che chiamava « bella menzogna », onde la Commedia sarebbe riuscita <il Medioevo realizzato come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei ». La quale lotta può essere nella nostra immaginazione come simbolo del con- trasto tra la realtà della poesia e le teorie di Dante critico, ma nor era in Dante poeta, che di solito lasciava l’allegoria nell’esterno e altra volta interrompeva la poesia per sod- disfare propositi allegorizzanti, e, soddisfatti questi propo- siti e riposando sulle sue teorie, creava con lieta tranquil- lità di poeta. Malgrado quella dubbia spiegazione teorica, il De Sanctis era tuttavia animato dalla sana tendenza, propria dei critici romantici, a sciogliere il Dante poeta dalla con- fusione col Dante teologo, filosofo e pratico, e a considerarlo per sé, e a svalutare l’allegoria, sebbene non definisse esatta- mente la natura di questo procedimento espressivo. Maggior merito gli si deve in questa parte riconoscere, a paragone di altri critici romantici, i quali, nel compiere l’anzidetta liberazione della poesia dalla non poesia, gettavano via l’ele- mento religioso e mistico come impoetico e serbavano solo quello politico e storico. Il tedesco Vischer, per esempio, contemporaneo e collega del De Sanctis, ripetendo, nella sua Estetica, il concetto dello Hegel circa la Commedia, che sa-

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rebbe « epopea religiosa », accusava nella forma dell’opera una contradizione con l’essenza del poema epico, che richiede un mondo reale e umano, e giudicava poetiche le sole parti

« storiche » ‘; e il critico italiano, invece, rifiutando la re- ligiosità allegorica, non chiuse gli occhi alla « religiosità concreta, in figure tradizionali e familiari », che è nel poema,

«ed è poesia» °. E analizzò come fin allora nessun altro aveva saputo, e fece sentire nella loro poetica bellezza, i canti di Francesca, di Farinata, di Ugolino, di Pier della Vigna, e anche alcune parti del Purgatorio e del Paradiso, sorpassando non meno il modo umanistico di sminuzzare le « bellezze di Dante » (sul qual argomento aveva composto un libro il Cesari), che quello aforistico e generico dei cri- tici romantici, dei quali solo il Fauriel aveva tentato l’esame particolare di episodî della Commedia.

Per l’importanza grande di tali sue trattazioni, che sono da considerare nella storia degli studî su Dante vera pietra miliare, bisogna tuttavia avvertire che ciò che abbiamo notato in genere, nell’introduzione a questo libro, sui li- miti e sui difetti della estetica idealistica e della critica romantica, si riferisce in modo precipuo, e honoris causa, alla critica dantesca del De Sanctis. Quando egli meditava sull’argomento, risentiva forte gl’influssi letterarî del ro- manticismo e quelli filosofici dell’estetica hegeliana, dei quali non si liberò mai del tutto, sebbene introducesse in séguito nel suo sistema critico aleune correzioni in senso che potrebbe dirsi « veristico », cioè altresi romantico. Si atteneva, dunque, in certo modo, all’ideale che il Carlyle aveva denunziato come « byronismo », alla poesia di pas-

4 Aesthetik, III, sez. II, $ 878, e per una conversazione in pro- posito del De Sanctis col Vischer, Croce) Saggio sullo Hegel e altri scritti di storia della filosofia (Bari, 1913), pp. 393-94.

2 Storia della letter. ital., ed. Croce, I, 167.

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sione violenta; e l’ Inferno gli pareva più poetico delle altre due cantiche, perché la vita terrena vi è, a suo dire, ripro- dotta tale e quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente ai dannati, laddove, salendo agli altri due regni, si va dagli individui alla specie e dalla specie al ge- nere, e l’arte si fa povera e monotona, e i personaggi del Purgatorio hanno la bellezza ma anche la monotonia della calma, non agitati e appassionati, non più, come nell’ In- ferno, grandi individui storici, possenti creature della fan- tasia. Le grandi figure poetiche di Dante sono, a suo avviso, tra gl’incontinenti e i violenti, dov'è il mondo della tra- gedia e dell’epopea, Francesca e Farinata; e giudica che Francesca è poetica perché peccatrice, e che la poesia della donna è nella debolezza, nell’abbandono, nel pec- care, e che, man mano che si discende nell’ Inferno, sce- mando la passione, prevalendo il vizio, si perviene al bello negativo, al brutto, alla prosa, il cui valore artistico è riposto soltanto nella reazione soggettiva e nella comicità.

Per conseguenza, le figure di Dante, rapidamente disegnate nei loro tratti salienti, gli sembravano accenni di qualcosa che dovesse svolgersi nell’avvenire, che aspettasse la sua piena vita dallo Shakespeare e dalla letteratura moderna in genere, e, per sé prese, ancora involute, troppo semplici, troppo sommarie, con alcunché di astratto ed immobile *.

Si atteneva altresi al concetto realistico della rappresenta- zione artistica, e stimava rappresentabile e bene rappre- sentato l'Inferno, che il poeta coglie « nel vivo stesso della.

realtà in mezzo a cui si trova», laddove « pel cristiano la vita degli altri due mondi non ha riscontro nella realtà, ed è di pura fantasia, cavata dall’astratto del dovere e del

1 Oltre la chiusa del cap. sulla Commedia nella Storia della lette- ratura e i saggi su Francesca, Farinata e Ugolino, cfr. un luogo de- gli Scritti varì, ed. Croce, I, 300-302 n.

B. Croce, La poesia di Dante. 13

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