2 Secondo capitolo
3.1 Politiche industriali e politiche per l‟innovazione nell‟Unione Europea
Una prima versione di politica industriale europea fece la sua comparsa in occasione della crisi degli anni settanta. La Comunità europea non aveva ancora sviluppato una propria visione in questo senso, così le sue azioni finirono talvolta per contrastare gli stessi principi del Trattato delle Comunità Europee (TCE): vi era infatti una prevalenza di tipiche misure “d'emergenza”, adottate normalmente dagli Stati in momenti di recessione come sussidi per aiutare le imprese più importanti, insieme ad altre misure che incoraggiavano la costituzione di accordi fra imprese dello stesso settore denominati “cartelli di crisi".
Con il Trattato di Maastricht (1992) si inaugura una fase di reale sforzo per la costituzione di un mercato unico. Secondo questo nuovo documento, alle istituzioni europee spettava il compito di vigilare contro la costituzione di monopoli o la presenza di imprese in posizione dominante perché aiutate dai governi dei singoli paesi membri. A queste misure classiche di tutela della concorrenza si aggiungevano le politiche per il coordinamento e lo sviluppo delle attività di ricerca (di base ma soprattutto applicata) il cui ruolo sarebbe stato quello di aprire la strada a nuove e più efficienti tecnologie e agevolare la nascita e l‟ingresso nei mercati di nuove imprese ad alto contenuto tecnologico. In teoria infatti, una maggiore quantità di imprese all‟interno di un mercato aumenta la dinamicità concorrenziale e determina una tendenza verso l‟abbandono spontaneo delle tecnologie meno efficienti e costose. Il coordinamento di tutti gli enti a vario titolo coinvolti nell‟attività di ricerca si traduceva in questo caso nella promozione di collaborazioni transfrontaliere, in particolar modo tra imprese di nazionalità diversa, nella condivisione e
96 nello scambio di conoscenze scientifiche e tecnologiche. Tale è stata, ed è tuttora, la funzione dei Programmi Quadro per la ricerca: si tratta di programmi comunitari che si articolano in una serie di azioni diverse per disciplina di riferimento e formula organizzativa adottata. Questi stessi programmi svolgono anche la funzione di indicare ai governi i settori più promettenti su cui puntare configurandosi come modelli per i programmi nazionali.
Il passaggio intermedio tra la concezione “costruttivista” prevalente negli anni settanta e la visione di lungo periodo della crescita contenuta nella Strategia di Lisbona è caratterizzato dall‟abbandono delle classiche politiche industriali per far posto a “politiche per la competitività delle imprese” che si concretizzavano prevalentemente in misure a carattere orizzontale quindi non più a favore di uno e pochi settori ma dirette potenzialmente a tutte le imprese.
L‟espressione “politica industriale” ricompare nel dibattito istituzionale e accademico europeo solo nei primi anni del nuovo millennio con un‟accezione più ampia rispetto al passato. I processi di de-localizzazzione e “terziarizzazione” dell‟economia avevano infatti determinato un progressivo arretramento dei settori industriali di tutti i paesi membri. Per fronteggiare questi fenomeni era quindi necessaria una nuova politica industriale a carattere europeo. In merito a queste tendenze la Commissione si esprimeva indicando come questioni centrali la scarsa specializzazione delle industrie europee in settori innovativi o ad alto contenuto tecnologico e i bassi livelli di produttività (Commissione europea, 2003). Indicatori sul valore aggiunto, sulla specializzazione e sull‟intensità di R&S nel periodo dall‟inizio degli anni novanta al 2002 restituivano l‟immagine di un‟industria europea dominata dalla quota delle tecnologie di fascia media. Le stesse tendenze si sono manifestate con più evidenza nel corso del decennio successivo: se il settore hi-tech ha mantenuto, a distanza di pochi anni, un ruolo marginale, l'industria medium-tech, che ha mostrato prestazioni migliori, era rappresentata per lo più da un gruppo chiuso costituito da poche grandi imprese. I soggetti che avevano intenzione di fare il loro ingresso in questo mercato venivano quindi scoraggiati dalle forti barriere in entrata. Di solito una maggiore presenza di aziende che costituiscono l‟avanguardia nelle nuove tecnologie, fra le altre cose, è in grado di aumentare la dinamicità delle altre aziende e migliorare le performance sulla produttività.
97 I dati non uniformi sull‟investimento in R&S in questo periodo nell‟Unione europea riflettono la varietà di approcci all‟innovazione (che corrisponde ad una varietà di approcci alla politica industriale) presente nei governi dei paesi membri. Il gruppo dei paesi scandinavi, fra gli altri, ha mostrato i dati migliori poiché ha adottato da tempo una visione di lungo periodo riuscendo in alcuni casi a superare abbondantemente gli obiettivi concordati con gli altri governi europei (cfr. Lotti in de Blasio e Lotti, 2008).
La specializzazione nei settori hi-tech era dunque la via indicata dalla Commissione per l‟industria europea. Il settore dell‟alta tecnologia fra tutti è infatti quello che garantisce migliori prospettive di crescita e, sviluppandosi grazie a una continua attività di sperimentazione e ricerca, è in grado di fornire soluzioni innovative (sia in termini di prodotto che di processo) a tutti gli altri settori industriali. Per la Commissione non bisognava più indugiare nell‟intraprendere scelte radicali: la strategicità dei nuovi settori era già stata intuita da alcuni paesi in via di sviluppo i quali avevano ormai accumulato un vantaggio comparato nei settori tradizionali e stavano procedendo a esplorare i settori a più alto contenuto tecnologico, in maniera analoga a quanto era avvenuto in Giappone negli anni ottanta.
Dalla lettura di alcune comunicazioni pubblicate dalla Commissione europea successive al varo della Strategia di Lisbona, si può quindi astrarre una nuova concezione della politica industriale: l‟implementazione di una serie di azioni integrate, coerenti e di carattere orizzontale volte a rendere i mercati più efficienti e a guidare il cambiamento tecnologico unita a un limitato ricorso a interventi diretti (che in ogni caso corrispondono a misure più complesse rispetto a semplici sussidi) e solo al fine di superare alcuni problemi di singoli settori. Il compito delle istituzioni europee consiste qui nell'attività di regolamentazione e monitoraggio delle condizioni concorrenziali oltre allo studio e all'esercizio costante della funzione di indirizzo economico nei confronti dei governi.
La capacità di affrontare i problemi comuni con azioni congiunte appariva come la soluzione più appropriata per i problemi di competitività che avevano colpito le imprese europee a seguito della globalizzazione dei mercati. Ciò era vero soprattutto per quel che riguardava la promozione di nuovi settori: il livello europeo sarebbe stato in grado di aggregare soggetti diversi come imprese ed enti pubblici, esponenti di differenti contesti industriali e scientifici al fine di riunire tutte le risorse necessarie per costituire dei centri di eccellenza. Questi ultimi sarebbero stati incaricati di esplorare nuove frontiere
98 tecnologiche e per questo avrebbero rappresentato le “culle” delle nuove imprese ad alto contenuto tecnologico.
Ma, stando agli assetti istituzionali di dieci anni fa (che corrispondono pressappoco a quelli attuali), l'azione della Commissione non poteva andare oltre la mera esortazione perché le politiche industriali rimanevano di competenza dei singoli Stati. Nell'unico settore in cui questa istituzione manteneva un più ampio margine di manovra, le politiche scientifiche e tecnologiche, non era stata destinata un'adeguata quantità di risorse. Nonostante ciò la azioni più incisive si sono evidenziate in questo campo con la costituzione del Consiglio Europeo delle Ricerca (CER o ERC) e dell'Istituto Tecnologico Europeo (ITE o EIT).
La mancata corrispondenza fra dimensione pertinente alla definizione di più efficaci politiche ed effettivi poteri della Commissione costituiva uno dei tanti paradossi presenti nell'Unione europea, il quale, secondo alcuni, avrebbe finito col determinare l'esito negativo dell'intera Strategia. Per altri invece, l'accentramento della gestione di un così vasto contesto economico sarebbe risultata poco efficiente. Una serie di centri decisionali periferici avrebbe infatti permesso una maggiore attenzione alle specificità e bisogni del territorio e quindi migliori politiche. L'apparente paradosso si sarebbe in realtà tradotto in opportunità se le istituzioni europee avessero interpretato il loro ruolo cercando di individuare sempre nuovi percorsi di crescita per l'intera Unione e di stimolare in tutti i livelli di governo sottostanti ad adottare micropolitiche che si “intonassero” con le indicazioni della Commissione o dei Consigli europei.
La Strategia di Lisbona ha rappresentato la sintesi per eccellenza del modello di politica industriale proposto dalla Commissione. Quest'ultima però non è potuta andare oltre le funzioni di verifica dei progressi compiuti in ciascuno Stato e promozione delle best practices. Gli obiettivi generali sono rimasti al rango di esortazioni politiche e al di fuori delle politiche tecnologiche, le azioni congiunte sono state poche (Bianchi e Labory, 2009). Nondimeno, il metodo di coordinamento aperto si configura come un tentativo di attribuire maggiori competenze alla Commissione nella promozione di politiche per lo sviluppo.
In occasione del rilancio intermedio della Strategia (2005) la politica industriale europea ha assunto “il compito di definire condizioni favorevoli allo sviluppo e all'innovazione delle imprese per attrarre investimenti e lavoro” (Bianchi e Labory, 2009)
99 ma ciò che è rimasto costante a partire dal 2000 in poi è la natura collaborativa di tali politiche. Esse infatti mantengono tuttora una struttura che richiede il contributo di un insieme vasto e diversificato di soggetti per raggiungere obiettivi comuni e che sfrutta la possibilità di agire di volta in volta al livello governativo più adeguato.
Una quota consistente delle attuali politiche industriali è occupata dalla promozione di nuovi settori ed è quindi strettamente connessa con le politiche per l'innovazione. Il punto di vista assunto dalla Commissione è in questo caso tipicamente evoluzionista: l'innovazione è il prodotto di un processo in cui sono parte attiva sia enti pubblici che privati e che si articola in una serie di relazioni secondo schemi non predefiniti. La riflessione sull'importanza dell'innovazione nel contesto europeo inizia con le prime politiche per la competitività ma raggiunge un livello di consapevolezza più compiuto con il Libro verde (Commissione europea, 1995). In esso si afferma che l'intervento delle istituzioni pubbliche di qualsiasi livello può essere decisivo nel migliorare i sistemi innovativi di riferimento tramite un impulso all'esplorazione dei nuovi settori e un'attività di analisi costante che permetta di captare i segnali giusti per indicare i passi successivi da compiere e risultare più competitivi nel lungo periodo.
Altro concetto mutuato dal paradigma evoluzionista è il sistema innovativo nazionale (SIN) inteso come un ambiente che sviluppa uno specifico modo di gestire il processo innovativo cui contribuiscono le imprese appartenenti a un determinato settore e i relativi utenti ma anche i sistemi educativi, università, centri di ricerca, le istituzioni pubbliche e sociali. Accanto al concetto di sistema innovativo nazionale assume un'importanza sempre maggiore quello di un sistema innovativo locale. All'interno di unità territoriali più ristrette infatti si sviluppano più rapidamente le reti di condivisione delle risorse innovative proprie delle PMI e si assiste a una vivace circolazione di informazioni e nuove conoscenze che costituisce il clima ideale di sviluppo per le innovazioni e le imprese dinamiche, in grado di competere anche in contesti più ampi. In particolare, le tecnologie di fascia alta in cui il veicolo di sviluppo è costituito da un insieme di informazioni specifiche, la dimensione regionale permette a imprese e enti di ricerca di beneficiare della vicinanza geografica che risulta determinante nella produzione e diffusione di conoscenza rilevante. Emblematico è il caso dei cluster statunitensi in cui sono concentrate le principali imprese del settore informatico.
100 Il costante riferimento delle politiche europee al contesto sociale emerge anche in relazione alle politiche tecnologiche: la definizione stessa di innovazione contenuta nel Libro Verde mantiene un'accezione ampia arrivando a comprendere tutti quegli elementi di novità a carattere sia economico che sociale che vengono prodotti e diffusi con l'effetto di rispondere tramite espedienti sempre migliori alle esigenze dei singoli consumatori o dell'intera società.
Per Bianchi e Labory (2009) la nascita e l‟utilizzo sistematico di metodi aggregativi da parte della Commissione costituisce un tipico caso in cui “mater artium necessitas”: se l'organo europeo in cui coesistono poteri legislativi ed esecutivi, la Commissione, si è spesso dovuto scontrare con la sua mancanza di legittimità ad agire in maniera incisiva in ambito industriale, ciò non ha scoraggiato il suo slancio propulsivo che si è tradotto in particolare nell'avvio di fenomeni connettivi all'interno della Comunità. É quindi sorto un nuovo metodo di politica industriale, riconoscibile come comunitario, incentrato sulla promozione di network formati dagli attori dei sistemi innovativi nazionali, su base settoriale o territoriale (o entrambe).
Il networking è sorto come valida alternativa allorché si notò l'inefficacia di politiche “calate dall'alto”, specialmente per quel che riguardava l'innovazione e la competitività. Dalla metà degli anni ottanta questo approccio è divenuto prevalente e ha dato luogo a fenomeni integrativi degni di nota in vari campi. Il banco di prova si ebbe con i programmi settoriali di ricerca che riuscirono nell'intento di far convergere i sistemi universitari e innovativi dei vari paesi membri. L'instaurazione di contesti collaborativi cui prendevano parte individui impegnati in attività di ricerca ma con diversi background, ha infatti superato i prevedibili effetti di arricchimento e stimolo reciproco: tramite tali progetti congiunti sono state progressivamente erose le specificità che rendevano incompatibili i singoli sistemi innovativi dando luogo a una sorta di armonizzazione spontanea.
I maggiori vantaggi di una politica comunitaria fondata sul networking si sono evidenziati però nei programmi di cooperazione nella R&S che hanno visto come protagoniste le imprese. La costituzione di reti su base settoriale o territoriale rappresenta in qualche modo l'esito di una riflessione sulla configurazione organizzativa da impiegare in un'impresa in rapporto all'attività innovativa (cfr. secondo capitolo). Varie esperienze fra cui i distretti italiani, le agglomerazioni specifiche giapponesi e i cluster americani
101 avevano consolidato nel policy-maker europeo la convinzione che raggruppando diversi soggetti sotto un unico progetto si sarebbe potuta raggiungere la massa critica tale da far ricadere le esternalità dell'attività cooperativa sugli stessi partecipanti secondo il rispettivo contributo. Tali programmi non prevedevano alcuna variazione nella struttura della singola impresa e si concretizzavano in formazioni che trovavano la ragion d'essere nel raggiungimento di un obiettivo comune. Questa precisazione aiuta a comprendere la circostanza per cui le politiche di networking potessero inserirsi in un ambiente concorrenziale senza intaccarlo.
I casi di maggiore interesse sono rappresentati dalle reti locali, in special modo quelle composte da PMI, in cui le autorità pubbliche svolgono l'insostituibile funzione di stimolo all'aumento e accelerazione delle relazioni di interscambio tra imprese ma anche tra queste e università specializzate, scuole, associazioni di categoria (in alcuni casi anche Camere di Commercio) o qualsiasi altra istituzione che caratterizzi il tessuto economico e sociale e insista in un territorio ben definito. Le istituzioni comunitarie hanno spesso interpretato questo ruolo predisponendo infrastrutture di vario tipo come centri per il trasferimento tecnologico o istituzioni ponte, laboratori, parchi scientifici, centri di consulenza, ecc. cercando di agire sugli specifici punti di “frizione” di ciascun sistema innovativo locale.
In relazione al settore delle tecnologie informatiche va menzionata l'esperienza tutta europea dell'European Strategic Programme for Research and Development in Information Technology (ESPRIT, vedi primo capitolo). Si tratta di un programma nato all'inizio degli anni ottanta su impulso del commissario Davignon con l'intento di sviluppare una forma di cooperazione intracomunitaria. I campi di azione individuati corrispondevano alle esigenze espresse dalle principali imprese europee attive in questi nuovi mercati: oltre al sostegno alla ricerca pre-competitiva nei settori applicativi più promettenti, ciò che veniva richiesto alle autorità pubbliche era la possibilità di disporre delle tecnologie di base più utili per sviluppare una specializzazione europea nella produzione di determinati beni e l'imposizione di standard che rendessero compatibili fra loro i prodotti informatici provenienti da diverse imprese della Comunità. In effetti in quel periodo l'industria informatica europea appariva suddivisa in diverse realtà: rispetto alla metà degli anni settanta alcune imprese erano scomparse, altre avevano scelto di collaborare con gli ormai leader americani e giapponesi limitatamente ad alcune componenti, infine alcuni “campioni nazionali” (francesi e italiani) sopravvivevano
102 esclusivamente grazie agli aiuti di Stato. Probabilmente le imprese europee compresero troppo tardi la fondamentale importanza della R&S per rimanere competitivi nel medio e lungo periodo. Il programma Esprit risulta interessante perché nel passaggio dalla prima fase (1984-87) alla seconda (1988-92) si compie una transizione verso metodi comunitari maggiormente centrati sulla promozione della cooperazione fra imprese. Purtroppo però le occasioni di collaborazione predisposte dalla Commissione non ebbero molto seguito. Al networking furono infatti preferite scelte individuali operate dalle singole imprese e, in particolari periodi di crisi, azioni governative di stampo “protezionista”.
L'idea che attraverso le politiche di networking la Commissione potesse agire efficacemente in direzione di una maggiore integrazione dei sistemi innovativi e che quest'ultima rappresentasse il primo passo verso l'integrazione dei sistemi economici condusse al varo del primo Programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (o Programma quadro poliennale, Pqp). Le precedenti esperienze di programmi per la ricerca (fra cui lo stesso Esprit) erano state possibili grazie all'art. 235 del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (TCE, 1957) che stabiliva per la Commissione la possibilità di intraprendere azioni al di fuori di quelle previste dal trattato stesso, qualora queste fossero risultate funzionali al raggiungimento di uno o più obiettivi comunitari. In coincidenza con la fine del primo Pqp (1984-87) venne approvato l'Atto Unico Europeo, un trattato di modifica del precedente TCE il quale sancì l'ingresso delle politiche per la R&S fra materie di competenza comunitaria. Ma la convalida definitiva della tendenza in atto di progressiva “europeizzazione” delle politiche per la ricerca arrivò con il Trattato dell'Unione europea (TUE, 1992). Il successivo quarto Pqp (1994-1998) rappresenta quindi il momento in cui la Commissione raggiunge la piena coscienza del proprio ruolo di promotore delle attività innovative. Nel documento programmatico ad esempio si trova per la prima volta una classificazione delle aree di intervento. La prima area viene indicata con l'espressione “grande scienza” con cui la Commissione intende tutte quelle attività di ricerca fondamentale che hanno bisogno di raggiungere una “massa critica” per la complessità della strumentazione o la vastità di risorse richieste; il secondo ambito riguarda attività di ricerca e sperimentazione tecnologica che costituiscono investimenti di medio-lungo periodo adatti a servire un ampio numero e un'ampia varietà di imprese ma che presuppongono intense relazioni di collaborazione tra enti pubblici e privati; la terza area concerne le azioni volte a stimolare l'imprenditorialità innovativa nell'ottica del rafforzamento del mercato unico; infine gli interventi del quarto ambito hanno carattere
103 normativo, di fissazione degli standard tecnici di compatibilità e di armonizzazione dei sistemi innovativi. Gli strumenti di armonizzazione sono utilizzati per facilitare la circolazione delle risorse (sia umane che scientifico-tecnologiche) in modo da creare reti di innovatori che possano operare all'interno di un unico, vasto spazio della ricerca. Fra questi spicca il mutuo riconoscimento: uno strumento che ha soppiantato gli improduttivi interventi regolatori basati su una struttura top-down. Ma ciò in cui si confida maggiormente è la stessa esperienza dell'incontro e del lavoro svolto fianco a fianco tra studenti o ricercatori di pari grado, portatori di modelli innovativi differenti attraverso il quale si producono sicuri effetti di integrazione e convergenza dal basso: l'organizzazione del lavoro, di ricerca ad esempio forzerà i diversi partecipanti dei progetti a definire delle procedure e dei protocolli di comunicazione condivisi.
La ricetta adottata dalla Comunità per superare gli attriti causati dall'interazione fra i diversi sistemi innovativi e le resistenze insite nella stessa natura delle istituzioni (che, ricordiamo, sono parte di “sistemi” nazionali) consiste quindi nell'avvio di una molteplicità di reti basate sulla cooperazione. Viene così richiesto a tutti i soggetti partecipanti, in particolare alle imprese, di reimpostare le proprie strategie sfruttando al massimo la possibilità di instaurare nuovi tipi di relazioni, come la complementarità, che si vadano ad aggiungere ai preesistenti rapporti di concorrenza o competizione. Ma perché vi sia complementarità è necessaria la varietà: i network innovativi infatti sono distinguibili da cartelli o trust perché favoriscono la cooperazione fra individui con diverse specializzazioni anziché la collusione fra imprese simili.