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Politiche europee per l'innovazione: la Strategia di Lisbona

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Academic year: 2021

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3 Indice

Introduzione... 5

1. Primo capitolo………. 8

1.1 Storia della Strategia di Lisbona... 8

1.1.1 Un‟economia basata sulla conoscenza... 9

1.1.2 Rinnovare il Modello Sociale Europeo……….. 11

1.1.3 Processi decisionali... 13

1.2 Il Processo che condusse alla Strategia di Lisbona... 13

1.2.1 I processi di Cardiff e Colonia………... 20

1.2.2 Il rilancio della Strategia……… 22

1.2.2.1 Società della conoscenza………... 25

1.2.2.2 Promozione della concorrenza……… 27

1.2.2.3 Un clima più favorevole alle imprese……….. 29

1.2.2.4 Una nuova idea di mercato del lavoro……… 30

1.2.2.5 Strategie economico-ambientali……….. 31

1.2.3 Valutazione della Commissione ……… 40

1.3 Critiche alla realizzazione della Strategia di Lisbona……… 46

1.4 L’iniziativa “Europa 2020”………. 48

2 Secondo capitolo……….. 53

2.1 Elementi di economia dell’innovazione... 53

2.1.1 Le fonti dell‟innovazione……….. 55

2.1.2 L‟innovazione come processo………... 55

2.1.3 Innovazione nell‟impresa e nelle istituzioni………. 56

2.1.4 Diffusione delle innovazioni……… 57

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2.1.6 Valutazione della ricerca……… 68

2.2 Elementi di economia della conoscenza……….. 69

2.2.1 Incentivi alla produzione di conoscenza……… 70

2.2.2 Produzione e diffusione della conoscenza………. 73

2.2.3 Ricerca e Sviluppo (Research and Development)……….. 77

2.3 Politiche per l’innovazione………... 81

2.3.1 Come viene giustificato l‟intervento pubblico nella corrente neoclassica………. 82

2.3.2 Strumenti di politica dell‟innovazione ………. 83

2.3.3 Alcune cause di inefficienza degli strumenti di politica per l‟innovazione ……… 86

2.3.4 Il modello evolutivo……… 87

2.3.5 Recenti sviluppi delle politiche per l‟innovazione………. 90

3 Terzo Capitolo………... 94

3.1 Politiche industriali e politiche per l‟innovazione nell‟Unione Europea... 95

3.2 Evoluzione dei Programmi Quadro poliennali per la ricerca... 106

3.3 Recenti sviluppi della politica europea per la ricerca e l‟innovazione... 108

3.4 Considerazioni sulle performance della Strategia di Lisbona rispetto ai suoi principali indicatori……….. 110

3.5 Politiche per la ricerca e l‟innovazione in Italia………... 117

3.5.1 Le università italiane……….. 127

3.6 Politiche per la ricerca e l‟innivazione nelle regioni italiane……… 129

Conclusioni... 133

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5 INTRODUZIONE

Il presente lavoro si prefigge l'obiettivo di formulare un primo bilancio del programma per la crescita e l'occupazione nell'Unione Europea denominato “Strategia di Lisbona”. Questa analisi giunge a poca distanza dalla conclusione del processo che ha ricevuto il suo primo impulso dal Consiglio europeo nel marzo 2000, che ha preso il nome di “processo di Lisbona”, e si concentra in particolare sulle politiche per la ricerca e l'innovazione.

La Commissione europea ha già espresso il proprio giudizio sull'attuazione del programma sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, utilizzando lo stesso metodo di benchmarking che sin dall'inizio del processo è stato presentato come mezzo rilevante per il confronto e il reciproco apprendimento degli attori coinvolti nelle politiche di Lisbona. Per quanto lucide e obiettive, le valutazioni intermedie e finali mantengono un tono positivo e ottimistico anche di fronte all'evidente divario fra obiettivi prefissati e risultati raggiunti. Gli studiosi di politiche sociali (fra cui Barbier e Pochet) hanno invece parlato di un fallimento, aggravato ulteriormente dalla riduzione dello spazio dedicato agli obiettivi occupazionali e di inclusione sociale.

Ciò che in realtà appare più interessante in questa prima esperienza di programmazione degli interventi economici interna alla Comunità europea è forse la focalizzazione sul concetto di “società della conoscenza”, assunto come obiettivo fondamentale dell'insieme di azioni implementate. Questo concetto si presenta come ampliamento della precedente espressione “economia della conoscenza” assai utilizzata alla fine degli anni novanta (grazie anche alla pubblicazione di alcuni documenti da parte dell'OECD, cfr. ad esempio OECD, 1999) per indicare la più probabile evoluzione dell'economia di fine millennio. In effetti tale espressione indica il nuovo assetto economico globale, caratterizzato dalla predominanza della tecnologie informatiche e della comunicazione e dalla loro capacità di creare delle reti a un livello di complessità sempre maggiore. Contemporaneamente a questi fenomeni si assiste ad un aumento dell'importanza della “intelligenza fluida delle persone” o della cosiddetta tacit knowledge quali elementi in grado di determinare un aumento della produttività. Il modello di società europea proposto a Lisbona nel 2000 si caratterizza per il forte accento sulle attività scientifiche e in generale sulla produzione, diffusione e apprendimento di nuova

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6 conoscenza come fattori cruciali per costruire la competitività delle economie europee nel nuovo contesto internazionale caratterizzato dalla progressiva integrazione dei mercati e dalla crescente importanza rivestita dai paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina).

La tesi è suddivisa in tre capitoli. Il primo capitolo adotta un approccio storico-istituzionale nel descrivere le premesse, il contesto e le idee che maggiormente hanno influito sull'adozione della strategia e sul processo che ne è scaturito. Le novità principali hanno riguardato l'apporto concettuale della società ed economia basate sulla conoscenza ma anche l'introduzione di nuovi strumenti di governance come ad esempio il metodo di coordinamento aperto. È stato inoltre proposto un nuovo Modello Sociale Europeo in cui l'occupazione riveste il ruolo di principale fattore di inclusione sociale insieme alla promozione di programmi di lifelong learning che puntino a valorizzare l'individuo e favoriscano una transizione virtuosa verso mercati del lavoro più dinamici. Ci si è poi concentrati sul ripensamento dell'intero programma di Lisbona, avvenuto intorno al 2005 grazie all'analisi svolta dal gruppo ad alto livello guidato da Wim Kok. Tale riflessione intermedia ha permesso l'individuazione di due punti di riferimento, occupazione e competitività, e di cinque priorità: innovazione, imprenditorialità, concorrenza, mercato del lavoro e sviluppo sostenibile, da tenere presenti nell'ideazione e implementazione delle politiche. In occasione della revisione sono stati anche fissati i parametri quantitativi da raggiungere entro il 2010. È poi sembrato opportuno integrare l'analisi condotta dalla stessa Commissione, sugli ostacoli incontrati e le debolezze intrinseche della Strategia, con alcune considerazioni critiche emerse già prima che il programma giungesse a conclusione. Il capitolo si chiude con un accenno alla nuova Strategia Europa 2020.

Il secondo capitolo adotta invece un approccio microeconomico nel descrivere come la conoscenza e l'innovazione sono gradualmente entrate a far parte degli elementi rilevanti nelle analisi economiche. Gli argomenti trattati mettono in luce i vari aspetti dell'innovazione e includono degli approfondimenti sull'attività condotta all'interno delle imprese finalizzata alla creazione di nuove scoperte e applicazioni, ovvero la ricerca e sviluppo (R&S). Quest‟ultima in realtà non è da considerarsi l‟unica fonte di innovazione perché spesso a risultare determinanti sono forme di conoscenza non codificabili ma accumulabili quasi prevalentemente sulla base dell‟esperienza, denominate tacit knowledge. La conoscenza (sia formale che informale) appare un bene dai caratteri atipici, in grado di produrre effetti come l‟aumento della produttività. Differenze nelle performance fra sistemi economici e imprese sono allora spiegabili sulla base del diverso

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7 ruolo attribuito alla conoscenza e alla sua gestione in ciascun contesto. È possibile valutare le attività di produzione e accumulazione di conoscenza attraverso l‟uso di indicatori i quali rendono conto sia dell‟intensità dell‟investimento sia dei suoi risultati. Dati sulla quantità e qualità dei brevetti e delle pubblicazioni scientifiche sono particolarmente importanti per rendere conto delle capacità innovative di un sistema regionale o nazionale. Il brevetto è qui descritto anche come strumento utilizzato da governi e altre autorità pubbliche da un lato per regolare l‟ambito dei diritti di proprietà intellettuale cercando di rendere fruibili i risultati delle attività di ricerca e nello stesso tempo proteggere (per un periodo limitato) i diritti di sfruttamento commerciale in capo al soggetto che ha compiuto la ricerca. Ci si è poi soffermati sul confronto tra il paradigma neoclassico e quello evolutivo, in particolare rispetto alle politiche per l'innovazione al fine di spiegare le ragioni che hanno spinto governi e organizzazioni internazionali ad adottare determinate misure e programmi. Si è infine dato uno sguardo alle tendenze più recenti sulle misure per l‟innovazione in Unione Europea.

Il terzo ed ultimo capitolo si apre con un breve excursus sugli eventi e le correnti politico-economiche che hanno caratterizzato il decennio appena passato. In questo modo risulta possibile considerare la Strategia di Lisbona da un'ulteriore punto di vista. Ciò che viene maggiormente evidenziata è la dimensione delle politiche per l'innovazione all'interno del più vasto contesto di evoluzione delle politiche industriali europee. Il networking, o l'insieme di azioni finalizzate all'aumento delle interazioni fra diversi soggetti, emerge quale vera cifra del processo di integrazione europea, segnatamente in ambito economico. L'esperienza dei Programmi quadro per la ricerca è l'esempio più evidente di quanto questo strumento possa risultare efficace. Sono stati poi inseriti alcuni accenni alle politiche per l'innovazione implementate dalle amministrazioni italiane centrali e regionali. Il modo in cui sistema universitario italiano è cambiato negli ultimi anni è emblematico di una perdurante situazione che oscilla fra l‟immobilismo e la contraddizione: ad una dotazione di risorse insufficiente si aggiungono problemi di coordinamento fra diversi organi e livelli di governo analoghi a quelli riscontrati nell‟attuazione della Strategia di Lisbona.

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8 PRIMO CAPITOLO

1.1. Storia della “Strategia di Lisbona”

Durante la sessione straordinaria del Consiglio europeo, tenutasi a Lisbona il 23 e 24 marzo 2000, i capi di Stato e di governo dei quindici Stati membri allora facenti parte dell‟Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia) individuarono alcuni obiettivi strategici per lo sviluppo e l‟occupazione da raggiungere mediante l‟attuazione di una serie di riforme entro il 2010. L‟obiettivo strategico individuato era fare dell‟Unione Europea “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” (Consiglio Europeo, 2000).

Gli obiettivi considerati prioritari in quell‟occasione erano il risultato della combinazione di diversi processi già avviati in alcune precedenti riunioni del Consiglio Europeo, e in particolare a Lussemburgo (1997), Cardiff (1998) e Colonia (1999). Ciò che però era mancato nelle precedenti occasioni era la percezione che i mutamenti sopraggiunti e posti sotto il nome di “globalizzazione” richiedevano delle risposte sottoforma di azioni comuni, coordinate e trasversali sia a livello dei diversi Stati membri sia a livello dei diversi settori della politica comune e nazionale. Per affrontare le sfide dell‟economia e la concorrenza di Stati Uniti e di paesi emergenti come India e Cina, l‟Unione godeva di dati relativi a disoccupazione, inflazione, tassi d‟interesse e disavanzi del settore pubblico sostanzialmente positivi e stabili; un patrimonio di risorse umane con uno fra i più alti livelli di formazione e un ottimo sistema di protezione sociale. Inoltre l'istituzione di un mercato unico aveva creato molte opportunità per le imprese e per gli altri soggetti economici; opportunità destinate ad aumentare in previsione dell‟allargamento dell‟Unione verso l‟Est. D‟altra parte problemi come disoccupazione strutturale di lungo periodo, insufficiente partecipazione di donne e lavoratori anziani, un settore dei servizi di telecomunicazione e delle tecnologie informatiche (ICT, Information and Communiation Technology) di cui ancora non si erano percepite le potenzialità anche come nuova opportunità di occupazione, perduranti squilibri regionali rendevano la necessità di riforme più urgente dato che ci si trovava in un momento di ripresa economica.

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9 Il traguardo prospettato a Lisbona, da raggiungere tramite una “strategia globale”, appariva ambizioso: creare una società e un‟economia della conoscenza, in cui le istituzioni erano chiamate a dare attuazione a determinate riforme strutturali dando priorità alle tecnologie dell‟informazione e alle politiche dell‟innovazione. Associare un‟economia dinamica a sistemi di welfare e protezione sociale adeguati (cioè applicare il concetto di Modello Sociale Europeo) era la sfida dell‟Agenda di Lisbona. Di conseguenza gli obiettivi di quest‟ultima erano la piena occupazione, una maggiore coesione sociale unita a un tasso medio di crescita economica pari al 3% e, dal momento che le riforme riguardavano in massima parte settori di quasi esclusiva competenza nazionale e regionale, era stato predisposto un nuovo metodo, detto di “coordinamento aperto” che andasse oltre il mero impegno politico e in cui il Consiglio Europeo svolgesse il ruolo di coordinatore.

1.1.1.“Un’economia basata sulla conoscenza”

Precedenti studi e decisioni prese in seno al Consiglio e alla Commissione (ad esempio la comunicazione della Commissione “Strategie per l'occupazione nella società dell'informazione”(Commissione europea, 2000) e il piano di digitalizzazione “eEurope”, in cui era chiaro sin dall‟inizio il ruolo centrale delle istituzioni europee nella gestione della transizione verso nuove tecnologie, mettevano in evidenza gli effetti positivi del passaggio ad una società con servizi di comunicazione telematica all‟avanguardia oltreché basata sulla conoscenza: nuovi settori di impiego di forza lavoro, possibilità di crescita e maggiore benessere dei cittadini. L‟obiettivo specifico era quello di rendere accessibile al maggior numero di individui possibile un'“infrastruttura di comunicazioni” (Conclusioni del Consiglio Europeo, 2000, pag. 2) mezzo indispensabile per raggiungere informazioni di qualsiasi tipo. Tale accessibilità veniva declinata anche in termini di connessione a basso costo e di servizi di telecomunicazione efficienti e diversificati. L‟informazione come base della costruzione di un sapere: questo era il primo passo per la creazione di tecnologie che sapessero risolvere problemi moderni e promuovere l‟inclusione sociale. Il Consiglio Europeo a tale proposito auspicava la nascita di un‟amministrazione digitalizzata e dinamica, capace di riconoscere e sfruttare tutte le potenzialità dell‟ICT. Il modello a cui l‟Europa guardava era chiaramente quello degli Stati Uniti in cui, anche grazie alle azioni intraprese durante gli anni novanta con il governo Clinton (e il fondamentale contributo

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10 dell'allora vicepresidente Al Gore) una connessione veloce che collegava cittadini e imprese era già diventata un veicolo di sviluppo.

Erano necessarie nuove norme che gettassero le basi per la diffusione di pratiche come il commercio elettronico, ad esempio attraverso mezzi di tutela del diritto d‟autore o la predisposizione di forme di pagamento elettronico. Per far sì che aumentasse la fiducia dei consumatori verso nuove forme di acquisto era necessario anche fornire un quadro di garanzie giurisdizionali e forme alternative di risoluzione delle controversie. L‟invito era rivolto a Commissione e Consiglio affinché presentassero in tempi brevi delle congrue proposte di legge volte anche a liberalizzare i relativi mercati e abbassare i prezzi dei servizi. Ovviamente i singoli Stati erano chiamati a fare la loro parte in modo da rendere effettivo per tutti, in particolare per le scuole, l‟accesso a basso costo a reti interconnesse ad alta velocità e ai relativi contenuti.

Ricerca e sviluppo erano settori il cui contributo era considerato cruciale in quanto principali propulsori di innovazione, crescita e quindi occupazione. Per incentivare tali attività sia a livello pubblico che privato, era necessario creare uno “spazio europeo della ricerca”, insieme ovviamente all‟impiego di adeguate risorse che fungessero da incentivi per le imprese e per i singoli ricercatori (con l‟intento di combattere il fenomeno della “fuga dei cervelli”), uno snellimento delle procedure burocratiche e infine un sistema di certificazione e tutela dei brevetti efficace su scala comunitaria. Per far questo era indispensabile individuare i centri di eccellenza, coordinare programmi di ricerca sia a livello nazionale che europeo attraverso una rete veloce di interconnessione per le comunicazioni scientifiche, facilitare la circolazione di ricercatori nell‟area europea, predisporre politiche fiscali per spronare le imprese a investire in R&S e/o per dare un supporto alla nuove imprese ad alto contenuto tecnologico, stabilire indicatori per confrontare i livelli di innovazione, utilizzare il “metodo di coordinamento aperto” per gestire l‟implementazione delle riforme, condurre analisi comparative delle diverse esperienze e valutare periodicamente i risultati ottenuti soprattutto in termini di effetti sull‟occupazione.

Per indirizzare le imprese di piccole o medie dimensioni (sono infatti le PMI a costituire la stragrande maggioranza delle imprese europee) verso gli obiettivi di Lisbona, bisognava alleggerire l‟onere burocratico, valutando di volta in volta l‟impatto di nuove norme in termini di costi per le aziende, e potenziare i circoli virtuosi di innovazione fra

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11 imprese, servizi di consulenza, mercati finanziari, enti di ricerca ecc. Anche in questo caso venne chiesto alle istituzioni europee di produrre relazioni su questioni come la qualità del contesto normativo nei confronti dell‟attività imprenditoriale e di proporre iniziative per finanziare a vario titolo PMI (soprattutto quelle che operavano nel settore delle ICT), utilizzando fra gli altri, gli strumenti forniti dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) e dal Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI).

Un ruolo di prim‟ordine spettava chiaramente al mercato dei capitali la cui riforma doveva andare in direzione di una maggiore trasparenza, integrazione ed efficienza. Tale mercato dei capitali di rischio era chiamato a interagire con e incentivare le iniziative più innovative. Per fare questo era necessario eliminare le barriere che si interponevano fra gli investitori e determinati fondi o titoli attraverso un piano d‟azione per servizi finanziari o, in generale, un lavoro congiunto di autorità competenti per i mercati finanziari per creare mercati effettivamente trasparenti stabilendo regole chiare per bilanci di società e per gli istituti di credito.

Anche la gestione delle finanze pubbliche era chiamata ad un ripensamento, tanto più che si prospettava un cambiamento radicale come il passaggio ad un‟economia della conoscenza e che si stava attraversando un momento di ripresa economica. Quest‟ultima condizione costituiva un‟occasione per un programma di “sostenibilità a lungo termine” in vista di futuri problemi come l‟invecchiamento della popolazione. Le istituzioni europee dovevano quindi favorire il dibattito sulle politiche strutturali più adatte ad attuare l‟Agenda di Lisbona. Il Consiglio raccomandava fra le altre cose un alleggerimento dell‟onere fiscale sul lavoro scarsamente qualificato e un impulso verso l‟accumulazione di capitale.

1.1.2. Rinnovare il Modello Sociale Europeo

Secondo Anthony Giddens il Modello Sociale Europeo (MSE) “non è un concetto unitario, ma è un mix di valori, di conquiste e di aspirazioni, con forma variabile e con diverso grado di realizzazione negli stati europei”(testo integrale disponibile su www.italianieuropei.it). Questo concetto dinamico, nella definizione della Strategia di Lisbona, si concretizzava nello sviluppo di uno stato sociale attivo. L‟investimento nelle persone prospettato significava anche formazione lungo le diverse fasi della vita (rivolta ai

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12 giovani ma anche ad adulti disoccupati e a soggetti con competenze professionali a rischio di obsolescenza) e mirava a creare nuove competenze di base. Si trattava di aumentare gli investimenti in risorse umane; creare dei “centri locali di apprendimento polifunzionali” utilizzando le strutture delle scuole al fine di diffondere competenze nel campo dell‟informatica, delle tecnologie, delle lingue straniere e altri tipi di abilità trasversali; incentivare il proseguimento degli studi oltre gli anni di obbligo scolastico; “fluidificare” la circolazione di studenti, ricercatori e docenti (principali veicoli di sapere) potenziando i programmi di mobilità; adottare un sistema unitario di certificazione delle competenze e un modello unico di curriculum vitae.

In materia di occupazione la Strategia di Lisbona si incrociava e andava a integrare il processo iniziato a Lussemburgo nel 1997. La chiave per ottenere una migliore occupabilità era stata individuata nella formazione continua declinata in termini di qualificazione (o più spesso ri-qualificazione) o di apprendimento (o aggiornamento) sul luogo di lavoro. Il profilo delle imprese virtuose quindi si arricchiva: ad aspetti come alti livelli di specializzazione dei propri dipendenti si aggiungeva l‟adattabilità di questi ultimi allo svolgimento di nuove mansioni, l‟esercizio ad un continuo apprendimento e la predisposizione dell‟impresa alla variabilità degli orari di lavoro.

Coerentemente con il modello di società che la Strategia voleva proporre, venivano incoraggiate misure volte a eliminare disparità di genere e a facilitare combinazioni ottimali fra lavoro e vita familiare. L‟obiettivo di passare da un tasso di occupazione del 61% al 70% entro il 2010 era finalizzato alla sostenibilità a lungo termine dei sistemi di protezione sociale (in particolare di quelli pensionistici). Ma anche questi ultimi dovevano subire delle riforme e per definirle insieme ai singoli Stati membri era stato formato un Gruppo ad alto livello “Protezione Sociale”.

Le condizioni precedentemente descritte erano inoltre indispensabili per realizzare un ambiente di partecipazione e di inclusione sociale poiché secondo il Consiglio europeo “il lavoro costituisce la migliore salvaguardia contro l‟esclusione sociale”(Conclusioni del Consiglio Europeo, 2000). Pertanto si rendeva necessaria un‟analisi su questi temi e la formulazione di indicatori sintetici comuni finalizzati a un migliore confronto. L‟inclusione inoltre non doveva riguardare solo l‟ambito occupazionale ma anche quelli dell‟istruzione, della sanità ecc.

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13 1.1.3. Processi decisionali

Per quanto riguarda le modalità di definizione delle decisioni, la Strategia di Lisbona intendeva appoggiarsi sui processi già avviati di Lussemburgo, Cardiff e Colonia o sulle diverse formazioni del Consiglio. In particolare il Consiglio europeo avrebbe assunto un ruolo preminente sul coordinamento e monitoraggio delle politiche comunitarie e dei singoli Stati membri in occasione delle riunioni annuali di primavera (che in tal modo venivano istituzionalizzate). La Commissione d‟altra parte era chiamata a presentare annualmente una relazione in cui sarebbero stati riportati i dati sugli indicatori strutturali di cui sopra e sullo stato delle riforme.

Il metodo di coordinamento aperto, caratterizzato da scadenze a breve, medio e lungo termine per il conseguimento degli obiettivi (questi ultimi definiti sia in termini qualitativi che quantitativi) e una costante attività di confronto fra le diverse esperienze, avrebbe consentito di mantenere una coerenza di fondo tra le politiche su vari livelli. In un‟ottica di decentramento venivano coinvolte anche le realtà locali e regionali sia istituzionali che in forma di associazioni al fine anche di creare dei “laboratori di soluzioni” tramite partenariati o altro.

Proprio lo strumento del partenariato avrebbe permesso al settore pubblico di instaurare un dialogo con il settore privato per orientare le risorse necessarie e realizzare tutti i punti della Strategia utilizzando tutti gli strumenti normativi e non che sarebbero stati messi a punto. Infine anche la BEI con il suo progetto “Iniziativa Innovazione 2000” avrebbe contribuito a finanziare i programmi e le imprese attraverso la predisposizione di un fondo per PMI per operazioni a capitale di rischio e in generale avrebbe adottato altre misure volte a dare attuazione ai programmi di Lisbona di cui si è parlato.

1.2. Il processo che portò alla Strategia di Lisbona.

Ripercorreremo adesso le tappe fondamentali del percorso che portò alla definizione di una strategia articolata per la promozione della crescita e del benessere sociale al fine de inquadrarne meglio la natura e gli elementi di cui essa si compone.

Uno dei primi tavoli di discussione sul ruolo che avrebbero dovuto svolgere scienza e tecnologia all'interno del processo di integrazione economica in Europa è stato il

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14 programma promosso dalla Commissione Forecast and Assessment in the field of Science and Technology (FAST). Si parla di Fast I e II per distinguere il primo periodo (1978-1982), caratterizzato da un dibattito incentrato sulla società dell'informazione, sulla biosocietà, sul mutamento del lavoro e dell'occupazione; dal secondo periodo (1983-1987) focalizzato su quattro diversi ambiti: le interazioni fra tecnologia e occupazione, il primo tentativo di sviluppare congiuntamente tecnologie di sfruttamento delle risorse rinnovabili, le configurazioni industriali che avrebbero assunto il settore delle comunicazioni e quello agroalimentare, lo sviluppo del mercato dei servizi, il mutamento tecnologico. Si trattava di un progetto che mirava da un lato a concepire percorsi di consolidamento della competitività delle economie europee, dall'altro a fare delle previsioni e ad escogitare le dovute contromisure per evitare gli effetti perversi (soprattutto di tipo sociale) che una società basata sulla scienza avrebbe potuto causare.

Di orientamento più specifico è stato invece l'European Strategic Programme for Research and development in Information Technology (ESPRIT) nato nel 1983 e votato a sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie informatiche. Questo insieme di programmi fu fra i primi a prevedere un sostegno comunitario in forma di sussidio alle imprese che intendevano introdurre applicazioni informatiche nella propria attività. I settori di intervento andavano dallo sviluppo hardware e software all'utilizzo di strumenti informatici di gestione della produzione o di operazioni amministrative. I cinque progetti (che avrebbero esplicato la loro efficacia a partire dal 1984 fino alla metà degli anni novanta) avevano a che fare per lo più con uno sviluppo industriale pre-competitivo e individuavano da subito gli interlocutori provenienti dal settore industriale insieme ai quali sarebbe stato sviluppato ciascun piano (fra questi anche l'italiana Olivetti).

Il progetto Eureka è stato uno dei primi programmi di cooperazione internazionale con l'obiettivo di costituire una rete di enti che a vario titolo si occupavano di ricerca e sviluppo in modo da esplorare a pieno le potenzialità di questa attività e fornire alle imprese europee un mezzo per acquisire (o ri-acquisire) un vantaggio competitivo nei mercati di riferimento. Il rischio con il quale i governi dovevano fare i conti nel 1985 era analogo a quello cui quindici anni dopo si cercherà di far fronte attraverso la Strategia di Lisbona: una situazione di perdurante ritardo tecnologico che avrebbe portato con sé una regressione economica e un conseguente malessere sociale. Fu il premier francese Mitterand a parlare per la prima volta di questo programma ma sulle prime si pensò a un progetto scientifico analogo al laboratorio dell'Organizzazione Europea per la Ricerca

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15 Nucleare (CERN), al FAST o addirittura al progetto di difesa spaziale americano. In realtà vi era in Eureka un elemento di novità dato dalla centralità assunta dall'attività di R&S o comunque dal sostegno privilegiato alle attività innovative che facevano capo alle imprese attraverso una formula che stimolava la collaborazione fra le imprese stesse. Ma cosa spingeva i diciassette paesi a dotarsi di una rete comune della ricerca? Il problema cui si voleva porre fine era una eccessiva frammentazione delle attività di R&S che isolava le singole imprese e gli interi sistemi nazionali. Eureka era il primo tentativo di promozione della collaborazione e dell'interscambio in un settore che, se sfruttato adeguatamente, avrebbe determinato un “balzo” tutto europeo nella ricerca, nella tecnologia e nello sviluppo di nuovi prodotti in grado di sorpassare i sistemi industriali statunitensi ed asiatici. Fra le altre cose, si pensava alla costituzione di una normativa europea sullo sviluppo di nuovi prodotti e si limitava l'intervento governativo allo stanziamento di fondi finalizzato al sostegno parziale dei progetti.

Nei tre mesi trascorsi tra la prima riunione dei ministri degli esteri e della ricerca, svoltasi a Parigi, e la seconda di Hannover vennero presentati numerosi progetti e tra essi furono poi scelti quelli che si distinsero per il coinvolgimento di due o più imprese di nazionalità diversa o che riguardarono ambiti come la robotica, lo sviluppo di strumentazione hardware e applicazioni software. Nel frattempo erano maturate delle perplessità che si concentravano sulla mancanza di indicazioni riguardo la reale entità degli stanziamenti previsti da ciascuno Stato e sul “dimorfismo” che si sarebbe verificato tra progetti a finanziamento pubblico e progetti sostenuti da imprese private. Inoltre risultava difficile classificare un progetto del genere fra le politiche di integrazione europea anche di fronte al ruolo attivo giocato dalla Commissione europea. D'altra parte lo stesso Parlamento europeo nel 1986 rigettò il progetto come totalmente difforme dal modello di politica europea. Le ragioni per giustificare questo rifiuto furono il fatto che il programma non poggiava su solide basi né su studi empirici e non presentava neppure quella struttura complessa all'interno della quale si trovavano misure differenziate per ciascun settore della ricerca. Infine il programma Eureka sarebbe stato all'interno della Comunità europea un doppio rispetto ad altri progetti come Esprit. In altre parole i “natali francesi” di questa iniziativa e la preferenza di metodi di decisione diversi da quello comunitario erano da considerare come sintomi di una crisi delle istituzioni comunitarie e un indebolimento delle tendenze verso una maggiore integrazione, passate in secondo piano rispetto alle tendenze governative. Tuttavia un elemento di forte connessione fra Eureka e i programmi

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16 comunitari era dato dall'enorme importanza che per entrambi rivestiva l'obiettivo di un mercato comune. In effetti l'imposizione di standard industriali, la promozione di procedure e certificati riconosciuti e uguali in tutta la comunità, la predisposizione di gare di appalto aperte e trasparenti o in generale l'abbattimento di barriere e ostacoli alla circolazione di prodotti, processi e servizi erano tutte misure che avrebbero agito in direzione di un aumento delle occasioni di scambio e collaborazione da un lato, e una maggiore integrazione economica dall'altro. É lo stesso documento programmatico di Eureka, la cosiddetta Hannover declaration, a stabilire rapporti di complementarietà e reciproco beneficio tra le sue azioni e quelle comunitarie. È innegabile come lo sviluppo e il successo di un programma esterno alla Comunità europea come Eureka (che oggi conta 39 membri) deve molto al processo di progressiva integrazione promosso nell'ambito dei trattati di Roma (TCE 1957) e di Maastricht (TUE 1992) e inoltre un programma incentrato sulla ricerca e lo sviluppo pre-competitivo ha rappresentato un'esperienza preziosa per la definizione di una strategia comunitaria per l'innovazione. In effetti alcuni punti cardine di Eureka si ritrovano quindici anni dopo nella Strategia di Lisbona, in particolare: una serie di misure volte ad aumentare le esperienze di collaborazione fra imprese e istituti di ricerca in ambito di tecnologie informatiche, robotica, materiali, laser, biotecnologie ecc., la concentrazione degli sforzi in settori capaci di far raggiungere migliori risultati in termini di produttività e competitività anche a livello internazionale, la volontà di rispondere ai problemi specifici che incontrano le PMI quando decidono di affrontare un investimento in R&S, l'intuizione della strategicità di istituzioni in cui sistematizzare il trasferimento tecnologico. In aggiunta, lungo gli ormai ventisei anni di vita di Eureka, altre occasioni di connessione con la Strategia sono state rappresentate ad esempio dai progetti di costituzione di clusters innovativi, la messa a punto di procedure per la valutazione del lavoro svolto, i progetti che hanno visto la Commissione come partner principale e, a partire dal 2003, le azioni volte ad aumentare la spesa complessiva in R&S fino a raggiungere l'obiettivo posto dal Consiglio europeo di Barcellona (3% del Pil). La sintonia di fondo fra i due programmi si può far risalire al contributo dato nella prima riunione di Parigi dall'allora presidente della Commissione Jaques Delors, lo stesso che nel 1993 sistematizzerà nel Libro Bianco “Crescita, competitività e occupazione” la sua idea di una politica per l'innovazione come mezzo per la piena realizzazione e sostenibilità a lungo termine del Modello Sociale Europeo, un'idea che è parte integrante della Strategia di Lisbona

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17 In particolare all'interno del Libro Bianco Delors si focalizzava sui problemi dell‟Unione Europea all‟indomani dell‟entrata in vigore del Trattato di Maastricht conducendo un‟analisi approfondita dei punti i forza e di debolezza dell‟economia europea. Secondo Delors lungo i venticinque anni precedenti un basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro unito a un incremento della forza lavoro avevano condotto a una crescita costante del numero dei disoccupati fino a raggiungere un tasso che oscillava intorno all‟11% (nel 1993 i disoccupati erano circa 18 milioni). Secondo la Commissione tale assetto negativo era da imputare ad alcune scelte di politica economica e monetaria dei singoli Stati. Dato che dall'analisi degli andamenti demografici emergeva una tendenza all'aumento dell'offerta di lavoro era necessario individuare il punto di crescita ottimale per raggiungere il livello di occupazione desiderato. Delors presentava due soluzioni alternative e argomentava la scelta di una crescita sostenuta associata ad una maggiore intensità occupazionale poiché questa era l‟opzione che permetteva una maggiore sostenibilità sociale ed ambientale, ad esempio con la creazione di 15 milioni di posti di lavoro entro il 2000 grazie ad un ritmo costante di crescita e a un migliore sfruttamento delle risorse già disponibili.

Delors individuava anche i tre principali ambiti della politica economica europea: quadro macroeconomico, interventi sull‟economia di carattere strutturale, riforma del mercato del lavoro. Tale impostazione verrà poi ripresa nel corso di alcune successive riunioni del Consiglio europeo fino a dare vita ai tre “processi”: rispettivamente, processo di Colonia, processo di Cardiff e processo di Lussemburgo.

I rischi derivanti dalla concorrenza di Stati Uniti e di paesi emergenti, e le opportunità da cogliere, legate alla caratteristiche intrinseche delle economie europee, venivano ripresentati sette anni dopo nelle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona, quando si era già conclusa la terza ed ultima fase del processo di unificazione economica e monetaria. Il confronto con le economie concorrenti americane e asiatiche è un continuo nell‟analisi del presidente e mette in evidenza la necessità di un ripensamento delle politiche economiche in direzione di una maggiore lungimiranza. Ad esempio si rendeva necessario spostare gli investimenti da mercati a crescita debole verso mercati ad alto valore aggiunto (come il settore dell‟ICT, l‟elettronica, la robotica ecc.) e in generale aumentare le risorse impiegate nella ricerca e sviluppo e nei settori ad alto contenuto tecnologico.

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18 La soluzione presentata dal Libro Bianco si articolava in cinque obiettivi strumentali ad ottenere un livello di crescita sostenibile in relazione al “Modello Sociale Europeo” e in un contesto di stabilità monetaria e ambientale. Un ruolo di prim‟ordine sarebbe spettato alle piccole e medie imprese (vero motore dell‟economia europea) verso cui sarebbero state adottate una serie di misure di sostegno e di impulso come riforme di semplificazione normativa, la creazione di reti di imprese e l‟implementazione di politiche volte a creare migliori condizioni di concorrenza e di accesso al credito. Le PMI, presso le quali trovavano lavoro circa i 2/3 della manodopera europea, avevano (ed hanno) un ruolo centrale anche dal punto di vista occupazionale. Ma la disoccupazione andava combattuta anche con riforme mirate nel mercato del lavoro che in Europa diventava sempre più rigido e costoso. L‟obiettivo di rendere il lavoro più flessibile, sia dal punto di vista dell‟organizzazione dell‟orario di lavoro, sia per retribuzione, mobilità e adattamento alle nuove esigenze del mercato, non doveva però far perdere di vista un adeguato livello di protezione sociale (il concetto sintetizzato con il termine “flessicurezza”). I governi degli Stati membri erano direttamente chiamati ad agire in modo da ridurre i pesanti costi non salariali, i prelievi diretti sul lavoro (cresciuti ad un ritmo doppio rispetto a quelli statunitensi), che ricadevano sulle imprese e le costringevano ad assunzioni minime o addirittura a soluzioni “in nero” soprattutto per quel che riguardava il lavoro poco qualificato. Quest‟ultimo tipo di lavoro inoltre veniva normalmente fornito dallo Stato sottoforma di “servizi socialmente utili”. Questi, secondo Delors, avrebbero potuto costituire un “bacino d‟impiego” portando alla luce 3 milioni di nuovi posti di lavoro. Per sopperire alla riduzione delle entrate nel bilancio dello Stato conseguente all‟adozione di tali misure fiscali, era prevista l‟istituzione di tasse “verdi”, destinate ad avere un effetto deterrente verso pratiche dannose verso l‟ambiente.

Scomponendo i dati relativi alla disoccupazione per avere informazioni più dettagliate, si scopriva che la maggior parte dei 18 milioni di disoccupati era costituita da inoccupati di lungo periodo e giovani, ma emergeva anche una disoccupazione “tecnologica”. Seppure generalmente la manodopera europea si caratterizzava per un‟elevata qualificazione, si vedeva sempre più spesso costretta a scontare un deficit di competitività poiché ad un determinato livello di istruzione iniziale non veniva associata un formazione che rendesse la persona e il suo bagaglio di conoscenze dinamiche e adattabili. Si ritrovano qui concetti destinati ad avere una grande fortuna come “valorizzazione del capitale umano” e “formazione continua” da applicare attraverso

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19 tirocini, nuove forme di apprendistato, corsi pratici e un'applicazione dei sussidi ad attività di riqualificazione, oltre a forme di incentivi alla formazione all‟interno delle aziende.

L‟esigenza di riformare il trattato di Maastricht al fine di predisporre strumenti per “promuovere l‟occupazione” e “raggiungere un livello di occupazione elevato senza indebolire la competitività dell‟UE”(tale principio viene stabilito nell'art. 2 TUE ma originariamente non rientrava fra le competenze della Comunità europea), era emersa con l‟istituzione della Conferenza Intergovernativa ma soprattutto con le decisioni del Consiglio europeo di Essen, che per la prima volta si focalizzavano anche sull‟occupazione con indirizzi a breve e medio termine muovendo i primi passi verso una strategia coordinata che si avvaleva dello strumento decisionale dell‟orientamento comune. La strategia di Essen si articolava in cinque obiettivi indicati agli Stati sotto forma di raccomandazioni, che riprendevano le linee di azione del Libro Bianco “Crescita, Competitività e Innovazione”. Un‟altra azione di rilievo fu il “Patto di fiducia: azione per l‟occupazione” con cui la Commissione cercò di spronare i soggetti coinvolti a tutti i livelli di governo a concludere accordi che avessero come obiettivo ultimo la lotta alla disoccupazione.

Una delle novità del trattato di Amsterdam (firmato nell‟ottobre 1997), tappa finale del processo di riforma dei Trattati di Roma e di Maastricht, fu l‟introduzione di una serie di articoli sulla promozione dell‟occupazione i quali andarono a comporre il titolo VIII del TCE. Ciò ebbe come conseguenza l‟istituzionalizzazione delle iniziative statali e della Commissione in questo ambito, una valutazione delle politiche economiche anche in termini di impatto sul mercato del lavoro, l‟impegno della Commissione di redigere un rapporto annuale sulla situazione occupazionale e le azioni intraprese e di proporre orientamenti comuni, da discutere e votare a maggioranza qualificata in seno al Consiglio. Quest‟ultimo poteva adottare misure di incentivazione insieme al Parlamento europeo tramite la procedura di approvazione degli atti denominata codecisione, che mette sullo stesso piano Consiglio dell'Unione Europea e l'assemblea di Strasburgo. Purtroppo tutti questi strumenti non si discostavano molto da impulsi meramente politici: pochi di essi mantenevano infatti un‟efficacia vincolante. Infine, il nuovo art. 130 TCE istituiva un “Comitato per l‟occupazione” con funzioni consultive rispetto alla Commissione e ai governi degli Stati membri su questioni inerenti il mercato del lavoro e la lotta alla disoccupazione.

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20 1.2.1. I processi di Cardiff e Colonia

Il Consiglio europeo di Cardiff (Consiglio europeo, 1998) prese le mosse da documenti e relazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie e dagli Stati membri, così come era stato stabilito a Lussemburgo, per definire una strategia finalizzata ad una crescita economica socialmente sostenibile. Il Consiglio di Cardiff raccomandava ai governi l‟avvio di riforme strutturali che da un lato applicassero discipline di bilancio rigorose, dall‟altro rimuovessero gli ostacoli all‟attività imprenditoriale, armonizzando le relative norme e criteri fiscali, realizzando un mercato unico che favorisse di fatto la concorrenza e la circolazione di beni, servizi, lavoratori, capitali a vantaggio dei cittadini. A tal fine veniva istituita una task force per la predisposizione di contesti più favorevoli rispetto all‟imprenditorialità (BEST), o per semplificare la legislazione del mercato interno (SLIM).

Emergeva così l‟esigenza di creare per mezzo di azioni coordinate un‟Europa che primeggiasse per ricerca e innovazione, più competitiva senza per questo rinunciare ad un buon livello di welfare state o più in generale, di benessere. Sei mesi prima della riunione di Cardiff alcuni degli Stati membri avevano firmato il protocollo di Kyoto e nella città gallese veniva chiesto di tenere fede agli impegni presi in campo ambientale anche attraverso programmi comunitari come il pacchetto di misure “Auto-oil”. Le diverse composizioni del Consiglio avrebbero dovuto elaborare strategie pertinenti ai loro settori per realizzare un‟integrazione ambientale e uno sviluppo sostenibile. Inoltre dovevano essere sfruttate tutte le opportunità offerte dalla rete internet per incentivare il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini attraverso la messa a punto di siti istituzionali semplici e aggiornati, in attuazione del principio di trasparenza, evidenziato dal trattato di Amsterdam,

Con il Consiglio europeo di Colonia (Consiglio europeo, 1999) viene istituito il “Patto europeo per l‟occupazione”. In pratica viene ribadita la necessità di porre l‟occupazione come fulcro delle politiche e riforme economiche. Il Patto poggia su tre pilastri, due dei quali corrispondono all‟insieme di azioni già avviate nell‟ambito dei processi di Lussemburgo e di Cardiff (riguardanti rispettivamente la promozione dell‟imprenditorialità e dell‟occupabilità) e, in sinergia con la terza fase del Unione Economica e Monetaria (iniziata nel gennaio 1999 con la fissazione di tassi di cambio irrevocabili tra l'Euro e le valute dei paesi membri e l'inaugurazione di una politica

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21 monetaria unica sotto la guida della Banca Centrale Europea ), la predisposizione di un mercato unico competitivo ed efficiente attraverso riforme strutturali. In particolare veniva avvertita l‟esigenza di integrare maggiormente il mercato dei servizi e di sfruttare il potenziale fornito dalle tecnologie dell‟informazione sia in termini di sviluppo economico che sociale. Il terzo pilastro è costituito dal dialogo macroeconomico inteso a perseguire obiettivi di sviluppo e benessere insieme a stabilità dei prezzi. Si rendeva necessario un coordinamento degli interventi anche in campi quali politica fiscale, politica monetaria, livelli delle retribuzioni e l‟instaurazione di dinamiche di interazione fra queste. Tale dialogo macroeconomico doveva avvenire in seno al Consiglio ECOFIN (che riunisce i ministri dell'economia e delle finanze degli Stati membri) e coinvolgere le altre istituzioni europee. In particolare veniva posta attenzione sulle questioni di bilancio come il rispetto dei parametri del Patto di stabilità e crescita (deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e debito pubblico al di sotto del 60% del Pil) e la necessità di riformare i bilanci pubblici per affrontare le sfide future come l‟invecchiamento della popolazione. Il problema era che il Patto non predisponeva alcuno strumento o istituzione ad hoc. Soprattutto per quanto attiene al dialogo macroeconomico, mancavano studi, previsioni e modelli da adottare per intraprendere un‟azione coerente su vari fronti. Inoltre mancava una sede istituzionalizzata che riunisse fra gli altri, le parti sociali, il Consiglio e la Commissione e favorisse il dibattito e lo scambio delle migliori pratiche in una o in tutte le parti di questa strategia globale.

Per il dialogo macroeconomico veniva adottato un approccio in due fasi: per prima cosa, fu costituito un gruppo di lavoro in seno al Comitato di politica economica in collaborazione col Comitato per l‟occupazione e il mercato del lavoro (gruppo che coinvolgeva, fra gli altri, i rappresentati della Banca Centrale Europea e del Gruppo macroeconomico del dialogo sociale) per la parte tecnica; per la parte politica si richiedeva di programmare le riunioni prima dell‟adozione da parte della Commissione della raccomandazione sugli orientamenti generali della politica economica e prima della presentazione delle previsioni di autunno e della relazione economica annuale della Commissione.

Come si vede l‟analisi della presidenza del Consiglio europeo è molto lucida e richiama continuamente alla necessità di un coinvolgimento maggiore dei soggetti al fine di cogliere sin da subito le opportunità offerte dal mercato unico e allontanare i rischi di recessione insiti nel sistema Europa.

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22 1.2.2. Il rilancio della strategia

Il 2005 doveva rappresentare il punto mediano del periodo di riforme prospettato dal Consiglio di Lisbona nel 2000. Già prima di giungere al Consiglio di primavera di quell‟anno era chiaro che le azioni intraprese erano state marginali e, facendo un bilancio, le attività finalizzate al rafforzamento dell‟innovazione e della competitività nell‟Unione Europea risultavano del tutto insufficienti. In effetti data la mancanza di impegni precisi e vincolanti, la Strategia di Lisbona si limitava a rappresentare un modo per classificare gli Stati europei sulla base di diversi indici economici con il rischio di incentivare più il divario che la convergenza fra le diverse economie. Inoltre la volontà di raggruppare riforme di vario genere in un‟unica strategia aveva fatto sì che l‟insieme degli obiettivi risultasse poco chiaro e per certi versi incoerente. Da qui la necessità di rivedere l‟intero processo e rilanciarlo con le dovute modifiche.

Nel novembre del 2004 il “gruppo ad alto livello”, una sorta di task force creata dalla Commissione e presieduta dall‟ex primo ministro dei Paesi Bassi Wim Kok, rese noti i risultati del suo lavoro con la relazione “Affrontare la sfida” (Kok, 2004) in cui venivano date delle indicazioni sotto forma di raccomandazioni. La relazione riaffermava l‟esigenza di riforme, diventate ormai sempre più necessarie e urgenti, facendo anche notare quale era stato l'elemento fragile nella strategia: un approccio troppo ottimistico verso gli effetti della società ed economia della conoscenza e una minore attenzione verso l‟industria tradizionale. Tale ottimismo peraltro sarebbe scomparso dalla retorica politica dopo lo scoppio della cosiddetta “bolla” dei titoli finanziari “dot com” nel 2000 che provocò effetti di recessione negli Stati Uniti come in Europa. A questo vanno aggiunti altri eventi che scoraggiarono l‟implementazione di politiche di integrazione economica in generale: fra gli altri, gli attacchi dell‟11 settembre 2001 e la diminuzione del numero di accordi commerciali multilaterali a vantaggio di quelli bilaterali nonostante gli impegni dichiarati in occasione dei negoziati di Doha (iniziati nel novembre 2001 nell'ambito del World Trade Organization con l'obiettivo di eliminare le barriere tariffarie e determinare un aumento delle relazioni commerciali internazionali). Se le performance degli Stati europei rimanevano mediocri rispetto a quelle statunitensi e asiatiche ciò era dovuto a un insufficiente consolidamento delle finanze pubbliche nel precedente periodo di crescita che aveva portato a carenze strutturali e bassi livelli di domanda pubblica e privata. Tutto ciò lasciava intuire che nell‟assunzione degli impegni di Lisbona i governi europei avevano presupposto condizioni di crescita che nella realtà non si erano verificate e che in

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23 mancanza di queste il mantenimento delle promesse della strategia diveniva difficile se non impossibile. Altri ostacoli incontrati nel quinquennio 2000-2005, furono l‟eterogeneità dell‟applicazione delle riforme, i livelli di occupazione ancora inadeguati a sostenere la crescita, una scarsa attenzione per l‟impatto ambientale di alcuni fenomeni e l‟allargamento dell‟Unione Europea verso Stati con economie ancora incerte, in cui l‟aumento della spesa per la R&S non rappresentava di certo una priorità.

La Strategia però non doveva essere abbandonata: le misure in essa indicate costituivano solo il primo passo per permettere all‟Europa di rimanere uno dei poli economici più importanti del mondo e di difendere il “modello sociale europeo” (MSE). Secondo il gruppo di Wim Kok, l‟esigenza di stimolare la crescita era urgente e richiedeva la determinazione di tutti i soggetti coinvolti, in special modo i capi di Stato e di governo.

Continuando così le cose l‟Europa rischiava di essere tagliata fuori da nuovi soggetti economici internazionali come l‟India, che guadagnava terreno nel settore dei servizi (in particolare in quelli informatici), e la Cina, destinataria di un numero sempre crescente di investimenti dall‟estero. L‟unica via percorribile per gli Stati europei era allora la specializzazione in settori ad alto contenuto di conoscenza e tecnologia al fine di ottenere un vantaggio relativo. Altro problema era rappresentato ancora una volta dall‟invecchiamento della popolazione che avrebbe presto causato notevoli difficoltà per i governi europei nel mantenere i regimi previdenziali e avrebbe inciso negativamente nei livelli di crescita economica potenziale.

Secondo il gruppo di studio creato dalla Commissione europea, l‟Europa aveva cessato di rincorrere gli Stati Uniti in termini di PIL pro capite già dalla crisi degli anni 70 per vivere un periodo di stasi finito intorno al 1996, quando i livelli europei avevano cominciato ad abbassarsi. Anche la produttività del lavoro aumentava meno nell‟UE che in USA. Tale situazione era da imputare alla minore spesa in termini di investimenti per lavoratore e un progresso tecnologico più lento che negli USA. Le nuove tipologie di contratto di lavoro diffusesi negli anni 90 provocavano l‟aumento di posti di lavoro a basso contenuto di produttività e favorivano il fenomeno della diminuzione della media annuale pro capite delle ore lavorate. Una riforma del lavoro avrebbe dovuto invece tener conto non solo dell‟aumento dei posti ma anche delle ore lavorate e della produttività oraria e per far questo era necessario un insieme di riforme più ampie, mirate alla stabilizzazione e alla crescita. Durante il periodo di espansione che stava per finire non era stata assunta alcuna

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24 visione di lungo termine. Al contrario avevano finito per prevalere visioni “miopi”, incuranti dell'importanza della costruzione di un vantaggio competitivo attraverso l'investimento (soprattutto privato) in R&S. In effetti questo settore, in Europa pressoché trascurato o gestito male, non aveva riportato gli stessi risultati statunitensi in termini di conversione in prodotti e processi commerciabili. In pratica i problemi strutturali delle economie europee, ancora a scarso contenuto tecnologico, erano destinati a permanere se non fosse stato intrapreso alcun impegno più deciso.

Il gruppo ad alto livello perveniva dunque a questa affermazione: i vari obiettivi fissati a Lisbona confluivano in realtà verso due punti principali, la crescita e l’occupazione. In effetti, fra i due punti c‟è un rapporto di reciproco sostegno: l‟una è condizione essenziale per la realizzazione dell‟altra. Inoltre la Strategia di Lisbona rappresentava una sorta di “politica industriale” europea che, forse per la prima volta dopo molto tempo, assumeva una visone di lungo periodo nell‟indicare le priorità per lo sviluppo. Chiaramente nella revisione di metà percorso si sottolineava l‟urgenza di azioni conformi e coerenti con la Strategia poiché un ulteriore ritardo degli effetti delle riforme poteva far sì che venissero perse delle importanti occasioni di sviluppo e che la stasi o la recessione prendessero il sopravvento. Era poi lo stesso gruppo a denunciare l‟incoerenza di un insieme ormai vasto e a tratti confuso di obiettivi che agli occhi di molti rimaneva qualcosa di lontano da un programma chiaro, fatto di impegni seri.

La necessità e l‟urgenza di politiche finalizzate ad aumentare il vantaggio comparato delle economie europee veniva rafforzata dall‟impatto positivo che la crescita avrebbe avuto sulla coesione sociale laddove un ristagno avrebbe invece portato risultati di segno opposto. Il ruolo di protagonisti attribuito agli Stati doveva tradursi in concreto nella predisposizione di infrastrutture e riforme ma anche nel consolidamento delle finanze pubbliche per continuare a sostenere nel tempo programmi di riforma e opere e per fronteggiare gli eventuali periodi di crisi. Il ruolo della Commissione in tale contesto doveva essere quello di chi vigila sull‟adempimento degli impegni, valuta e promuove le migliori pratiche.

Le azioni dell‟ambito di Lisbona sarebbero state efficaci solo se avessero coinvolto più settori e nello stesso tempo se avessero tenuto conto della specificità dei contesti in cui andavano ad operare. Anche in questo caso il gruppo guidato da Kok definiva cinque obiettivi prioritari per indicare la strada scelta per la crescita e l‟occupazione: “la

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25 realizzazione della società della conoscenza, il completamento del mercato interno e la promozione della concorrenza anche per quanto riguarda il terziario e i servizi finanziari, la creazione di un clima favorevole alle imprese, lo sviluppo di una mercato del lavoro flessibile e favorevole all‟integrazione e l‟attiva promozione di strategie economico-ambientali vantaggiose” (Kok, 2004, pag. 20). Uno dei motivi dell‟insufficienza del lavoro dei singoli Stati durante quei cinque anni, era stato il fatto che i progressi compiuti avevano riguardato solo alcuni dei settori individuati. Occorreva quindi fare sì che divenisse largamente accettato il concetto di una strategia che funziona solo se applicata globalmente.

1.2.2.1. Società della conoscenza

Per quanto riguarda la prima priorità, una “società della conoscenza”, essa era considerata la condizione essenziale per la creazione di settori competitivi ad alto valore. Questa relazione poggiava su diversi studi che avevano dimostrato l‟incidenza positiva dell‟aumento della spesa per R&S sulla produttività (si veda il secondo capitolo). L‟obiettivo finale era quello di ricreare un contesto analogo a quello statunitense in termini di vivacità dell‟innovazione scientifica e tecnologica e relativa creazione continua di valore aggiunto per i prodotti. Ma in che cosa consisteva la società della conoscenza secondo il gruppo ad alto livello? La R&S era sicuramente considerata una parte importante di essa insieme anche allo sviluppo delle tecnologie dell‟informazione e della comunicazione, industrie ad alto contenuto tecnologico, di conoscenza o ad alto potenziale creativo. Le tecnologie informatiche e della comunicazione (ICT) erano oggetto di particolare attenzione dato che avevano rivoluzionato tutto il processo di produzione e creazione del valore e permettevano ormai a molte imprese di operare in rete dando vita a occasioni di dialogo e scambio con i consumatori, utili a migliorare prodotti e produzione. D‟altra parte l‟implementazione delle tecnologie dell‟informazione era divenuta insostituibile nel settore dei servizi o comunque era presente in tutte le fasi di produzione di gran parte dei settori economici. Il gruppo guidato da Wim Kok metteva qui in risalto il divario fra un enorme potenziale di questo tipo di tecnologie e uno sfruttamento ancora parziale, situazione che allontanava la realizzazione di una “società della conoscenza”. Il ritardo dell‟Europa era evidente se si confrontavano i suoi dati su brevetti, numero di ricercatori, centri universitari di eccellenza, numero di vincitori di premi Nobel, percentuale del PIL occupata dal settore

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26 informatico, percentuale del PIL impiegata nell‟acquisto di beni strumentali informatici. Allo stesso tempo permanevano le condizioni che rendevano l‟Europa un terreno fertile per lo sviluppo delle ICT: elevata disponibilità di laureati in scienze e ingegneria, settori all‟avanguardia come l‟aviazione civile, la telefonia mobile e l‟ingegneria energetica.

Altro ambito connesso con la società della conoscenza è il mondo della ricerca: le azioni intraprese nel quinquennio considerato non avevano diminuito gli effetti negativi del fenomeno del “brain drain” (fuga dei cervelli). Il gruppo di studio indicava gli onerosi adempimenti burocratici (dal riconoscimento delle qualifiche ai diritti previdenziali e ai permessi di lavoro) come ostacoli alla fluida circolazione del sapere e dei cervelli in Europa (o verso l‟Europa) e sollecitava un‟armonizzazione di tutte le norme (entro il 2006) e le procedure che concernevano i programmi di ricerca nonché una riforma da parte dei governi sui finanziamenti alle università e ai centri di ricerca in modo da metterli in condizione di ottenere i risultati prefissati e attrarre, nello stesso tempo, i migliori ricercatori del mondo. Le cosiddette “ideopoli” ossia centri ad alta tecnologia che riuniscono in una zona geografica limitata centri di ricerca, imprese ad alto contenuto innovativo, moderne infrastrutture per i trasporti, e istituzioni disposte a finanziare nuovi programmi di ricerca venivano individuate come l‟habitat naturale dell‟innovazione e la più concreta realizzazione del concetto di società della conoscenza.

Per aumentare la spesa privata in R&S il gruppo di Kok consigliava di creare dei partenariati pubblico-privati, offrire incentivi fiscali per le PMI innovative e supportare le imprese con una solida base scientifica per far sì che l‟effetto leva negli investimenti in ricerca si propagasse a tutte le altre imprese. In aggiunta, per creare una base scientifica prettamente europea il gruppo ad alto livello suggeriva l‟istituzione di un “Consiglio europeo per la ricerca” (CER) oltre ad un più oculato utilizzo delle commesse pubbliche. Il piano di azione eEurope, messo a punto cinque anni prima doveva essere portato avanti in tutti gli ambiti già individuati: elearning, eCommerce, eGovernment, armonizzazione normativa e diffusione della banda larga e delle reti senza fili per le comunicazioni elettroniche. Infine, era necessario implementare una volta per tutte il “brevetto comunitario” anche perché esso costituiva un ulteriore incentivo per le imprese innovative poiché conferiva una più ampia protezione delle scoperte e dei nuovi prodotti e semplificava le procedure burocratiche.

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27 1.2.2.2. Promozione della concorrenza

Secondo il gruppo di Wim Kok, per la realizzazione del mercato interno le azioni da intraprendere andavano da un più veloce ed effettivo recepimento del diritto comunitario all‟eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei servizi, alla liberalizzazione dei mercati e delle industrie di rete, dal completamento del mercato dei servizi finanziari alla definizione e applicazione uniforme delle norme a protezione della concorrenza. I vantaggi che il mercato interno avrebbe portato erano quelli tipici di un mercato più ampio: possibilità di specializzarsi, innovarsi e sfruttare i vantaggi relativi per le imprese, beneficiare delle dinamiche concorrenziali per acquistare prodotti a prezzi più bassi per i consumatori; in poche parole, un mercato unico, facilitando il commercio fra più soggetti, avrebbe portato diverse occasioni di crescita. Il gruppo di studio lanciava su questo punto l‟allarme sull‟attenuarsi degli effetti di crescita dati dalla creazione del mercato unico. La diminuzione degli scambi fra Stati Ue, le differenze di prezzo fra uno Stato e l‟altro, un minore volume di investimenti verso l‟UE, venivano avvertiti come sintomi dell‟incompletezza del processo di integrazione dei mercati. La spinta verso comportamenti protezionistici doveva dunque essere contrastata con fermezza perché solo un mercato di beni e servizi più aperto avrebbe consentito il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona.

Per quanto attiene le inadempienze nei recepimenti, sia che si trattasse di ritardi, sia di incongruenza fra le direttive o i regolamenti con le disposizioni applicative; esse venivano considerate “inammissibili”. Veniva quindi chiesto alla Commissione di predisporre una lista di norme sul mercato interno non ancora recepite nel 2005, da allegare alle conclusioni del Consiglio europeo di primavera per poi fissare un termine per la loro entrata in vigore negli ordinamenti di ciascuno Stato.

Un settore cui veniva dedicata molta attenzione era quello del terziario o dei servizi sia perché era da questo settore che derivavano la maggior parte dei posti di lavoro creati alla fine degli anni novanta, sia perché si prevedeva che la creazione di un mercato unico dei servizi avrebbe portato dei benefici ai consumatori in termini di abbassamento delle tariffe, in tempi relativamente brevi. Alle istituzioni europee quindi spettava il compito di operare sulla legislazione dei servizi per facilitarne una più fluida circolazione mentre agli Stati veniva chiesto di operare coerentemente con gli impegni intrapresi in questo senso. A smorzare gli entusiasmi era l'assenza di grossi cambiamenti dopo la liberalizzazione delle

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28 industrie di rete: gli operatori che dominavano i singoli mercati nazionali avevano comunque mantenuto posizioni preminenti. Permanevano quindi delle resistenze alla creazione di contesti effettivamente concorrenziali, ad esempio da parte degli Stati. La Commissione doveva dunque indagare su tutte le situazioni di distorsione del mercato, elaborare nuove soluzioni per eliminare i monopoli di fatto e occuparsi anche dell‟impatto della legislazione sulla concorrenza. Questo monitoraggio doveva interessare primariamente i settori strategici nell‟ottica di Lisbona ovvero i servizi pubblici di rete e i settori ad alto valore aggiunto. Nel settore delle merci, la farraginosità del processo di creazione delle condizioni per la libera circolazione era stata aggravata dal rifiuto del “principio del mutuo riconoscimento” (principio comunitario che obbliga uno stato membro ad accettare l'ingresso nel proprio mercato nazionale di un bene prodotto in un altro stato membro se le finalità e gli effetti della legislazione dell'altro stato sono analoghi ai suoi), come denotavano molte norme nazionali o locali e dalla lentezza nell‟elaborazione dei vincoli tecnici. Tutti questi ostacoli rappresentavano delle esternalità negative cioè costi per le imprese e per la società in generale.

Per quanto riguarda i mercati finanziari, nel 1999 essi erano stati oggetto del piano d‟azione per servizi finanziari (FSAP) volto a dare vita ad un mercato unico anche in questo settore e spettava al Consiglio e agli Stati membri il completamento dell‟attuazione del piano entro il 2005. A queste misure era necessario aggiungerne altre atte ad ottenere liquidazioni e compensazioni delle transazioni transfrontaliere più veloci e integrare i sistemi di finanziamento (questo è ciò di cui si occuperà la Payment Services Directive o PSD, approvata nel 2007 in cui è prevista anche la costituzione del SEPA, un mercato unico europeo dei servizi di pagamento al dettaglio). Chiaramente queste azioni andavano accompagnate con la fissazione di norme e istituzioni di vigilanza di rango europeo. I vantaggi sarebbero stati una maggiore possibilità di accesso al credito, soprattutto per le PMI e una riduzione dei costi.

Il presupposto per l‟armonizzazione delle norme in questi vari ambiti era di certo la creazione di un corpus normativo che rappresentasse il diritto societario “europeo” con caratteristiche specifiche, adatto a regolare imprese operanti in un mercato più ampio. La Commissione aveva già avanzato delle proposte in questo senso: ad esempio l‟armonizzazione della base d‟imposta sulle società che avrebbe avvantaggiato le imprese presenti in diversi Stati membri.

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