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Nella seconda parte di questo percorso di ricerca si intende quindi sostenere che il digital cultural

heritage (DCH) è a tutti gli effetti da concepirsi come patrimonio e pertanto ha le stesse esigenze

relazionali di tutte le sue altre manifestazioni. Anche il DCH, infatti necessita di essere attivato e non esclusivamente contemplato come una sorta di “feticcio dei gloriosi tempi andati” (Granelli, 2008). L’invasione delle tecnologie digitali in contesti culturali ha generato scenari di profondo cambiamento che nel campo dei musei ha frammentato il pubblico, lo ha reso utente visitante prima in loco e poi in remoto; non più quindi un passivo spettatore ma l’utente di un servizio: il contesto museale è diventato così partecipativo (Simon, 2010).

Per quanto concerne le riproduzioni digitali invece, da un primo approccio teso ad imitare il museo tradizionale e, complici anche i cambiamenti che questo stava subendo, ci si è resi conto che le potenzialità erano ben più estese. Infatti le riproduzioni digitali non vanno intese esclusivamente come un sottoprodotto del museo tangibile, hanno invece un ruolo differente che risiede nelle capacità che offrono di emancipazione dei limiti naturali sia delle opere che delle persone. Per limiti naturali si intendono ostacoli fisici come la lontananza/vicinanza, l’impossibilità di osservare alcuni dettagli, la possibilità di osservare delle ricostruzioni o simulazioni di oggetti lontani, danneggiati o distrutti. Le tecnologie permettono di intervenire anche sui limiti della memoria umana, dal momento che con il digitale possiamo potenzialmente ricordare tutto, e sui limiti temporali come è evidente dal caso Meet

Vermeer a cura del Google Cultural Institute in cui sono esposte le eredità che il pittore fiammingo ha

trasferito ad esempio alla street art e alla moda.

Con l’avvento del digitale e di internet le differenze tra le istituzioni dei GLAMs si sono sfumate fino a diventare quasi impercettibili e quindi, consci della grande mole di materiale digitale e digitalizzato di cui disponiamo e dopo averne analizzato anche i limiti, ci si pone ulteriori domande relative a quale sia il senso della digitalizzazione del patrimonio.

In particolare ci si chiede se il patrimonio digitalizzato conservato negli archivi è in grado, tramite un’azione progettuale, di attivarsi per contribuire a generare nuovo patrimonio. Pertanto in questa parte 2 si evince lo spazio che si è venuto a creare per il design come portatore di senso, ruolo che nel contesto delle riproduzioni digitali sembra crescere di importanza. Infatti non si tratta di quali soluzioni tecnologiche possano offrire una migliore esperienza di fruizione, ma di riportare il discorso progettuale dalla sfera del problem-solving a quella del problem-setting.

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