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[CS4] Rynek Underground (2010) Cracovia, Polonia

SIGNIFICATO/NARRAZIONE

G

S

R

SIGNIFICATO

NARRAZIONE

OGGETTO

T = Tribuna degli Uffizi

S = Sarcophagi

G = Meet Vermeer (Google)

R = Rynek Underground

NARRAZIONE

Sebbene siano innumerevoli gli esempi di soluzioni tecnologiche destinate alla riproduzione applicata a contesti museali, per questa valutazione i quattro casi sono stati selezionati proprio in virtù della diversità di approcci che li contraddistingue. Se infatti collochiamo i casi studio all’interno di un grafico a quadranti nel quale si stabiliscono in contrapposizione tecnologia/significato per intendere approcci technology driven o guidati dai significati (Verganti, 2009) e oggetto/narrazione per identificare invece il focus dei progetti, risulta evidente che i casi possono essere collocati ciascuno in un quadrante, rappresentando quindi un campione eterogeneo.

Nello specifico, il caso della Tribuna degli Uffizi (T) si colloca nel primo quadrante sinistro che vede un approccio alla riproduzione technology

driven focalizzato sull’oggetto: infatti, l’obiettivo del progetto risiedeva

nella volontà di emancipare i limiti fisici dell’ambiente tramite una riproduzione in digitale che avrebbe dovuto permettere una fruizione più agevolata. Sebbene il risultato in termini di qualità fosse estremamente realistico, è interessante sottolineare che l’installazione dopo tre anni è stata dismessa dimostrando che, in sede museale, il visitatore preferisce

osservare un originale da lontano piuttosto che una riproduzione ravvicinata. Probabilmente la ragione del fallimento risiede proprio in

questo aspetto e cioè nel considerare che una riproduzione fine a se stessa non rende al fruitore un’esperienza che sia immersiva, partecipativa, aumentata o sensoriale e pertanto risulta una conoscenza esclusivamente trasmessa e non costruita (Arvanitis, 2005). La riproduzione non

conserva necessariamente i significati di cui è densa l’opera o l’ambiente originale.

Relativamente al progetto “Sarcophagi” (S) invece, l’applicazione della riproduzione tecnologica aveva l’obiettivo di trovare un contatto con il

visitatore per definire nuovi livelli di conoscenza e di partecipazione del pubblico in un’attività che generalmente gli è preclusa. Se quindi,

nel caso della Tribuna, i metodi del design sono entrati nel museo “in punta di piedi” manifestandosi più come competenze pratiche nella

2.5 Discussione dei case studies preliminari

capacità di ricostruire e gestire un modello tridimensionale complesso studiando le sue migliori condizioni di visibilità, nel caso dei Sarcophagi, un approccio sempre technology driven, ma focalizzato sulla narrazione ha potuto garantire un maggiore successo. La narrazione infatti, ha permesso di costruire un legame empatico con il visitatore, rendendo il progetto connettore ed interprete di conoscenze avvicinandosi al design dell’esperienza (Manzini, Jegou, 2004) nel quale “l’oggetto del progetto non è più il prodotto ma lo scenario in sé”.

Riguardo il progetto di Google Cultural Instiute (G) “Meet Vermeer” possiamo notare come questo si collochi nel quadrante in basso a sinistra: quello oggetto/significato. La forza di questo progetto risiede infatti nel raccogliere in uno stesso luogo virtuale dipinti che altrimenti, per motivi di conservazione, non sarebbero mai venuti in contatto, permettendo per la prima volta una visione complessiva di tutto il lavoro conosciuto del pittore. Interessanti sono anche i parallelismi ed i richiami alla cultura POP e alla Street Art che dimostrano come nessuna opera sia fine a se stessa, ma contribuisce alla creazione del patrimonio del futuro. Sebbene anche il progetto di Google Cultural Institute si focalizzi sull’oggetto, ossia su tutta l’opera di Vermeer, lo fa dandogli un livello di lettura ulteriore che

fornisce significati diversi. È inoltre interessante sottolineare che tra le

infinite modalità di rappresentazione delle riproduzioni, Google ha scelto proprio di simulare un museo reale e di inserire nella Pocket Gallery elementi che nel contesto virtuale potrebbero risultare superflui come pareti, soffitti, pavimenti, illuminazione tramite faretti; tutti elementi che probabilmente contribuiscono ad ottenere un effetto rassicurante nel visitatore.

Infine, Rynek Underground (R) si colloca nell’ultimo quadrante, quello individuato nel rapporto tra significato e narrazione. Si ritiene infatti che progetti come Rynek Underground intervengano notevolmente sul

significato di un museo che non conserva e non espone pressoché nulla ma - tramite le sue riproduzioni - innesca riflessioni, paragoni e curiosità, manifestando scopi riflessivi ben definiti e situati nel contesto sociale ed interpretativo dell’oggetto che riproduce (Berggren

ed amare la città di Cracovia raccontandola da molteplici punti di vista e con l’ausilio di tecnologie immersive, ricostruzioni e riproduzioni. La domanda che ha guidato il confronto di questi casi studio è: qual è il

senso delle riproduzioni digitali? In particolare, ci troviamo di fronte

a tecnologie di riproduzione che, se accuratamente progettate nel loro inserimento, sono capaci di offrire un tipo di apprendimento informale, naturale e multidirezionale proprio perchè impostate su logiche di partecipazione di esperienza. Non basta quindi digitalizzare, ma è

necessario concentrarsi sull’effettivo contributo che l’azione di digitalizzazione offre e sull’eventuale ulteriore significato che fornisce e la forza delle relazioni che riesce a costruire, mettendo in contatto il patrimonio con le persone.

Le riproduzioni digitali sono sempre più presenti nel campo del patrimonio culturale con l’obiettivo di ricostruire, simulare o mostrare parti inaccessibili, distrutte o semplicemente per aggiungere livelli informativi ad un oggetto, ad un ambiente e ad un contesto. Risulta però necessario considerare che le tecnologie “abilitanti” non sono mai neutrali: esse

hanno un forte impatto sia sulla percezione dell’utente che sulle informazioni che trasmettono rendendo fondamentale soffermarsi non solo su cosa viene rappresentato ma anche sul come.

Ricordando infatti la famosa espressione di Marshall McLuhan medium

is the message, (McLuhan, 1964) le tecnologie che riproducono il

patrimonio culturale, per quanto evolute o sofisticate, rappresentano sempre e comunque un veicolo di informazioni che se non permette a chi ne usufruisce di raggiungere il significato veicolato, non ha senso, è un involucro senza funzione.

Sulle tracce delle riflessioni di Dario Mangano (2014) un contenuto culturale ha certamente la possibilità di essere veicolato tramite mezzi digitali

“salvo poi interrogarsi sulla sua efficacia, su quello che in questo passaggio si è guadagnato e su ciò che, invece, risulta perduto. L’adattamento non è semplicemente un modo differente di mostrare gli stessi oggetti, ma una vera e propria traduzione, il cui obiettivo è tenere quanto più possibile fisso un certo significato cambiando il linguaggio nel quale esso viene espresso”. (Mangano, 2014)

Mangano osserva come si possa facilmente ottenere una sorta di effetto “lost in translations”, che rischia di mutare fortemente i significati veicolati dal medium digitale; per comprendere meglio questo aspetto potremmo fare riferimento alle riflessioni di Salvatore Settis in Italia

s.p.a. L’assalto al patrimonio culturale (2002) dove l’applicazione delle

tecnologie digitali in contesti culturali viene definita “l’illusione dei beni digitali”.