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Settis sostiene che la fretta di realizzare progetti di digitalizzazione spesso è stata supportata da un sentirsi in ritardo rispetto agli altri paesi del mondo ed ha prodotto un sistema che spinge a varare qualsiasi progetto che comprenda soluzioni digitali, anche quelli che ben presto diventeranno “obsoleti, arcaici e nati morti” (Settis, 2002). L’autore individua fenomeni che definisce “illusioni ottiche”: la prima rivede nella “corsa a colmare il ritardo” la produzione di iniziative puntiformi e prive di una visione, di una strategia di lungo periodo; la seconda illusione invece riguarda il “dare per scontato perché e per chi vanno utilizzate le tecnologie informatiche nel campo dei beni culturali”, non operare quindi a monte una riflessione sul chi e come fruirà i contenuti digitali ma soprattutto del perchè.

Spesso accade, come abbiamo potuto evincere dalla descrizione del progetto Tribuna degli Uffizi, che si dia per scontato che una riproduzione veicolata tramite tecnologie informatiche rappresenti un’opportunità di emancipazione e conduca automaticamente alla partecipazione attiva dell’utente, quando invece si rivela essere un’iniziativa priva di visione non per la natura della tecnologia utilizzata, ma per una mancata comprensione delle modalità con cui veicolare le informazioni. Nel volume Critica della Ragione Informatica (1997) Thomas Maldonado scrive infatti che:

“il problema non è tanto cercare di stabilire quale dispositivo tecnico favorisca, in astratto, la passività e quale l’attività, quanto piuttosto capire quali siano le ragioni di fondo che, in uno specifico contesto, fanno preferire ai soggetti sociali la passività all’attività” (Maldonado, 1997).

Infatti, sempre per usare le parole di Maldonado, “Una cosa è la possibilità di un libero accesso all’informazione, tutt’altra è la probabilità che i cittadini possano farne uso”. (Maldonado, 1997)

Nel caso delle riproduzioni digitalizzate, argomento centrale per noi,

“Si insiste di solito sull’informazione, e molto meno sui processi di conoscenza; ma l’informazione è passiva, la conoscenza è attiva […]

Parlando di dati si rischia di credere che il dato sia neutro, mentre non lo èaffatto, e il modo come crea (o non crea) conoscenza dipende da come è strutturato e da come è presentato” (Settis, 2002).

Se quindi, la struttura dell’informazione influenza fortemente il suo contenuto e la sua interpretazione da parte di chi ne fruisce, un ruolo

fondamentale lo giocano anche le scelte culturali degli operatori dedicati alla digitalizzazione ed alla fornitura dei dati che determinano fortemente contenuti e struttura e andrebbero perciò non solo evidenziate ma anche adeguatamente progettate, dal momento che

“uno degli aspetti più rivoluzionari, forse il più rivoluzionario, della rivoluzione tecnologica in atto è che nell’informazione canalizzata entro e secondo le nuove tecnologie i contenuti sono inseparabili dal modo in cui sono strutturati” (Settis, 2002).

In altre parole le infrastrutture tecnologiche determinano la trasmissibilità dei contenuti, in ambito digitale “l’informazione stessa si converte in prodotto” (Castells, 2000).

Per tutte queste ragioni si discute l’aspetto anche critico, camaleontico, dell’introduzione della tecnologia nell’esperienza del patrimonio. Infatti, l’emozione, l’affezione e la sensazione sono parti essenziali di questo rapporto tra informazione, contenuti e la loro veicolazione.

Per quanto riguarda le soluzioni tecnologiche onsite, l’approccio “informazione prima del contenuto” ha portato a situazioni sicuramente contrastanti con l’intento iniziale di fornire informazioni approfondite e supportare diversi stili di apprendimento. In effetti, come è facile evincere dalle discussioni dei case studies del capitolo precedente, spesso capita che il contenuto - per quanto sia stato preparato con cura - raramente viene goduto integralmente: i giochi interattivi sono spesso dedicati all’uso di un singolo utente mentre gli altri aspettano in fila, l’esperienza di visita in compagnia spesso diventa una mera condivisione degli auricolari dell’audioguida, uno per ciascuno.

I modelli digitali possono ricreare e contestualizzare le esposizioni democratizzandole, ma ciò può contribuire a diminuire il valore percepito dell’originale. Le tecnologie interattive possono offrire un’esperienza eccezionale per l’utente, ma spesso gli schermi e le app creano nuove barriere che distraggono e allontanano i visitatori dai contenuti reali in esposizione. Oppure, al contrario, i contenuti reali distraggono e allontanano l’utente dall’esperienza interattiva come nel caso della Tribuna degli Uffizi.

Un altro aspetto fortemente critico risiede nel fatto che le aziende che sviluppano software e applicazioni per le istituzioni culturali mirano a vendere la stessa soluzione a luoghi diversi, il che spesso porta ad un’esperienza non convincente per chi ne fruisce poiché troppo generica. Al contrario, le proposte tecnologiche realizzate in modo coerente ed ottimale risultano spesso molto costose, richiedono tempo per essere sviluppate e sono difficilmente trasportabili in altri contesti. A livello pratico, inoltre, il rischio tangibile è che le istituzioni culturali diventino dipendenti da queste aziende non solo per la creazione, ma anche per la manutenzione delle installazioni e l’aggiornamento dei contenuti (Petrelli et al., 2013).

>Fig. 12 Mona Lisa: Beyond the Glass. Mostra interattiva svuluppata da Emissive in collaborazione

Per quanto riguarda le riproduzioni digitali proposte online invece, ci dedicheremo in maniera sicuramente più approfondita nella parte successiva, la terza di questa Tesi. In effetti, guidati dal comune obiettivo di proporre accesso al patrimonio culturale e nuovi stili di apprendimento, i GLAMs offrono sempre più frequentemente la consultazione online delle proprie collezioni ma tutto questo materiale appare scarsamente consultato o utilizzato e quasi per nulla conosciuto. Cosa provoca

questo fenomeno? Come mai il materiale culturale digitale, che potenzialmente dovrebbe democratizzare la cultura e offrire accesso senza limiti fisici o geografici, in effetti non risulta sufficientemente usato e conosciuto?

A tale proposito, e per concludere, possiamo sostenere che la dimensione digitale delle istituzioni culturali ha acquisito una sua autonomia di linguaggio, di organizzazione e, in parte, anche di contenuti, che la

rendono qualcosa di molto più complesso di una sorta di sottoprodotto del museo tangibile. Siamo di fronte ad un problema diverso: non si

tratta più di accesso all’informazione ma di orientamento nella “babele informativa” (Negri, 2016) ed inoltre, il vero punto debole di questa dimensione digitale resta quello della rapida obsolescenza congiuntamente agli aspetti relativi all’utilizzo del materiale digitale.

L’oblio è quel processo di filtraggio costruttivo delle informazioni che opera la mente umana. Qualsiasi memoria artificiale ha da sempre il ruolo di sopperire a questa mancanza, fornire una “stabilità dei ricordi” (Salarelli, 2014) e soprattutto di renderli esternabili; proprio questa esternalità permette alla memoria registrata di essere accessibile, consultabile e interpretabile anche da altri soggetti. Viktor Mayer-Schönberger si è occupato del tema del diritto all’oblio nell’era digitale e sostiene che se prima, dimenticare

era la prassi e ricordare un’eccezione, con la digitalizzazione si è ribaltata la condizione al punto che “il default diventa ricordare e non dimenticare” (Mayer-Schönberger, 2010). Secondo Mayer-Schönberger,

infatti, la quantità enorme di informazioni del nostro passato potrebbe impedirci di agire liberamente nella costruzione di un futuro che è estremamente condizionato dalle tracce lasciate alle nostre spalle.

A tal proposito alcuni studi di antropologia si occupano dei cosiddetti processi di patrimonializzazione, ossia ciò che porta gruppi di attori all’interno di una società, a selezionare, decidere e scegliere cosa merita di avere valore, cos’è che deve rappresentare la cultura. Con l’avvento del digitale abbiamo la possibilità di conservare tutto, la naturale selezione

di ciò che l’umanità identifica come patrimonio sembra venire meno: questi processi sono aumentati esponenzialmente al punto che, come

scrive Dominique Poulot, ci troviamo di fronte ad “un’esplosione del patrimonio”. La volontà di salvaguardare le tracce del passato appare come “un’impresa senza limiti”; l’autrice infatti segnala che già nell’anno tematico del 1980 “il patrimonio è stato definito da alcuni responsabili del Ministero della Cultura francese come suscettibile di inglobare tutti gli oggetti del passato” (Poulot, 2006). Con queste riflessioni non si intende mettere in ombra i vantaggi della digitalizzazione, quanto piuttosto affrontare lo studio in maniera obiettiva e far emergere che in questi nuovi

contesti è il senso stesso della memoria che subisce una profonda trasformazione.