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I militari e i curiali dopo la fine del nepotismo: l’esercito dal 1692 al

3. Il «trono militare»: l’amministrazione dei chieric

3.1 I poteri del commissario delle Arm

Innocenzo XII soppresse le cariche militari tradizionalmente occupate dai parenti del pontefice con la bolla Romanum decet Pontificem342. Il risparmio calcolato ai tempi del progetto di Innocenzo XI fu di 100.000 scudi; papa Odescalchi aveva anche fatto riformare le soldatesche di Marca e Romagna per 3.000 scudi, mentre lo scioglimento di una «compagnia di cavalli» permise di economizzare altri 9.000 scudi. Il risparmio ufficiale calcolato dalla Reverenda Camera fu di 80.000 scudi dopo la riforma di Innocenzo XII, tuttavia è quantificabile solo in modo indicativo, ad esempio: il capitano generale di Santa Chiesa godeva di numerosi emolumenti addizionali al reddito. Mario Chigi riceveva 1.125 scudi, a fronte di 750 che spettavano su carta al capitano generale; la castellania di Castel Sant’Angelo rendeva circa 500 scudi a fronte dei 150 circa che competevano alla carica343, inoltre quest’ultima non vide mutare il proprio stipendio e fu semplicemente trasferita al tesoriere generale. La Bolla di Innocenzo XII doveva in primo luogo mettere fine a un sistema politico- clientelare che era finanziariamente insostenibile, prima ancora che un problema di ordine morale nei conflitti religiosi affrontati dalla Chiesa sul giansenismo, il gallicanesimo e con gli

342 Bullarum diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum Pontificum Taurinensis editio locupletior facta

novissima collectione plurium brevium epistolarum decretorum actorumque S. Sedis a Leone Magno usque ad praesens, Tomo XX, Seb. Franco et filiorum, Augustae Torinorum 1870, pp. 440-6.

343 A.M

124 eretici in generale. La bolla dichiara che le cariche militari: «perpetuo supprimimus et abolemus», tuttavia, pur vietandone la reintroduzione, appena dopo si specifica: «quod si pro rerum qualitate, temporumque contingentia, manifesta urgensque necessitas munera seu officia militaria huiusmodi vel aliqua ex eis de novo institui exegerit, viros ad illa assumi volumus et mandamus strenuos et fideles, eximia virtute praestantes, reique militaris a prime peritos, et in illa diuturno ac probato usu esercitatos»344. C’è uno scollamento tra le competenze delle cariche abolite e l’apertura a nuove possibili nomine appena citata nella bolla. Le cariche, soprattutto quella di generale di Santa Chiesa, sono prese in considerazione come nomine di ufficiali che prevedevano una conoscenza dell’arte militare, tuttavia le funzioni effettive erano di carattere amministrativo. L’ipotesi di reintrodurle non avrebbe comportato le stesse funzioni, perché come sono state descritte nel documento, non si tratta più di cariche amministrative e politiche, ma di incarichi che attengono al comando fattuale di unità militari. Anche in questo caso è richiesta parsimonia e morigeratezza nell’assegnazione degli stipendi: «quibus Romanus Pontifex pro tempore existens, secundum data sibi a Domino sapientiam, pro ratione periculi, competentia et congruentia stipendia assegnabit»345.

Il nepotismo curiale si esprimeva attraverso il patronage: la rete di clientele personale dei grandi curiali, i cardinali innanzitutto, i parenti dei pontefici, i grandi nobili laici. Chi cercava di favorire la propria carriera grazie a queste clientele poteva raggiungere velocemente posizioni di vertice all’ombra dei propri patroni, ma nei sempre mutevoli equilibri di corte il beneficiato correva il rischio di ricadere dalla posizione raggiunta come il proprio beneficiario; ad esempio, l’improvvisa morte del pontefice poteva rovinare le prospettive politiche e le finanze dei suoi parenti, oltre che dei clienti. Le pratiche che valevano per il vertice della Chiesa, erano condivise con il sottobosco relazionale del resto della curia. Lo stesso sistema nepotista-clientelare era applicato nelle reti di relazioni che ogni ecclesiastico

344

Bullarium Romanum, Tomo XX, pp. 442.

125 manteneva a Roma o nelle province346. Tali metodi erano validi per gli uffici civili della curia e rimasero validi anche dopo la bolla di papa Pignatelli, tuttavia subirono una profonda riformulazione ed inquadramento in forme istituzionali già consolidate. La visione complessiva della politica e della religione rimase costante, seppur riformulate secondo i tratti della politica degli «zelanti». Dopo due anni nel 1694 ci fu l’abolizione della venalità delle cariche, in particolare per i chiericati di Camera, che erano spesso considerati propedeutici al raggiungimento delle più alte cariche curiali e il cardinalato. Durante il XVII secolo molti pontefici avevano iniziato la loro carriera con tale carica347. Come abbiamo visto ciò influenzò anche il chiericato del commissariato delle Armi, fu perciò spezzato il relativo automatismo del rapporto clientelare, che garantiva l’accesso alla porpora attraverso l’acquisto e l’esercizio della carica per qualche anno348

. I successivi commissari settecenteschi avranno percorsi di carriera più disomogenei rispetto ai loro omologhi del secolo precedente. Questo costoso provvedimento fece mancare rendite ingenti alla Reverenda Camera, ma d’altra parte accentrava la scelta del personale curiale ancor più nella persona del pontefice349

. Questa serie di riforme modificò l’assetto istituzionale e il suo funzionamento ordinario. La diminuzione del ruolo formale dei nipoti e dei parenti contribuì a rafforzare la curia come strumento burocratico della Chiesa. I cambiamenti nei rapporti, nei legami e negli interessi di tutto il sistema curiale avrebbero avuto invece uno sviluppo più graduale. L’abolizione del nepotismo determinò un cambiamento peculiare nella prassi di governo: da questo momento il pontefice avrebbe dovuto affidarsi maggiormente ai curiali di carriera. I parenti non furono tenuti a margine del governo e non furono tenuti completamente lontani dai benefici che poteva garantire un familiare eletto papa, essi andarono ad occupare altre posizioni e non ci furono casi eclatanti di familiari esclusi come Livio Odescalchi. In questo nuovo contesto il

346

A.MENNITI IPPOLITO, Il tramonto della Curia nepotista, cit., pp. 146-7.

347

M. ROSA, La Curia romana nell’età moderna, cit., pp. 117-8: «risultati […] furono raggiunti nel settore istituzionale-statale, dove forse le forze del “rinnovamento” avevano toccato un più alto grado di maturazione».

348

R.AGO, Carriere e clientele, cit., pp. 21-2.

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126 Segretario di Stato prese in parte il posto del nipote come nuovo centro dell’attività quotidiana di governo ed andò ad occuparne fisicamente il posto insediandosi nel suo appartamento al palazzo del Quirinale, che si trovava sotto a quello del segretario dei Memoriali350.

A questi riguardo, i parenti si insediarono negli incarichi considerati più di “corte” e nella Segreteria. Alcuni occuparono l’ufficio di maggiordomo pontificio, l’ex-prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici, oppure divennero segretari dei Memoriali, segretari dei Brevi ai Principi, segretari di Cifra351. Il passaggio di consegne dal generale di Santa Chiesa al chierico di Camera si svolse senza particolari interventi legislativi. In mancanza di un generale, il commissario lo sostituiva, relazionandosi direttamente col pontefice senza la mediazione del nipote. Ciò contribuisce a rafforzare l’ipotesi che il generalato, soprattutto dopo il pontificato di Innocenzo XI, fosse stato svuotato dall’interno nell’esercizio delle sue prerogative dal commissario delle Armi. Le lettere del commissario del 1692 non riportano alcun cenno ad eventuali cambiamenti subitanei dovuti alla abolizione del capitanato generale, né a particolari questioni sollevate dalle province per l’emanazione della bolla. I castellani di Ascoli, Ancona e Perugia non ricevono da Roma alcun particolare cenno, né inviano lettere di chiarimenti o modifiche allo stato esistente. I familiari risultavano detenere queste cariche di castellani sovrani, ma già dalla metà del Seicento erano presenti castellani nelle fortezze, a cui mancava la qualifica di sovrani, senza la specifica carica di vice castellano come era presente a Castel S. Angelo. La mancanza di attività particolare nella corrispondenza porta a dover commentare un’assenza, che rafforza l’ipotesi che le cariche militari nepotiste avessero perso le loro funzioni per divenire semplici fonti di arricchimento per i parenti.

Nel 1692 il commissario delle Armi era Giuseppe D’Aste. Fu nominato da Alessandro VIII nel 1690 e per i primi anni esercitò la carica sotto l’autorità del generale Antonio Ottoboni. La famiglia D’Aste era originaria di Albenga nella Repubblica di Genova. Giovanni Battista

350

A.MENNITI IPPOLITO, Il governo dei papi in età moderna, cit., p. 124.

351

ID., Il Segretario di Stato e il Segretario dei Memoriali, cit., pp. 85-91. ID., Il tramonto della Curia nepotista, cit., pp. 154-8.

127 D’Aste (1560-1634) si trasferì a Roma nel 1596, dopo aver praticato l’attività bancaria acquistando titoli di Monte della Santa Sede, e si stabilì in un palazzo a via Monserrato. Nel 1648 Filippo e Nicola, i figli di Giovanni Battista, furono inscritti negli elenchi delle famiglie patrizie romane. Fu acquistato un nuovo palazzo alla fine di Via Lata, vicino al palazzo San Marco, che fu periodicamente residenza dei papi fino a Paolo III Farnese. Alla fine del Seicento vi risiedevano Giuseppe e Benedetto D’Aste, i figli di Francesco Bonaventura D’Aste, discendente di Giovanni Battista; i due finanziarono anche la ristrutturazione della dimora familiare352. Giuseppe intraprese la carriera ecclesiastica, mentre Benedetto si sposò con Cunegonda Patrizi, una parente del cardinale Giovanni Patrizi. La madre dei giovani D’Aste romani era Anna Cecchini, nipote del cardinale Domenico Cecchini353

.

Il commissario nelle sue lettere riferisce spesso dei propri «Padroni»354, molto di frequente si tratta di lettere di auguri, o di congratulazione per il conferimento di una carica o della porpora. La cortesia reciproca e un certo ritualismo possono considerarsi come invalidanti ai fini della attribuzione di uno specifico patrono355. Vi sono però motivi che giustificano

352

P.PAGLIUCCHI, I Castellani di Castel S. Angelo, Multigrafica editrice, Roma 1973, vol. I-II, pp. 126-7.

353

T.AMAYDEN, La storia delle famiglie romane, vol. 1, Forni Editore, Roma 1987, pp. 88-90: «Giovan Battista d’Aste, gentilhuomo di Albenga, venne a Roma portando seco buona soma de denari, la quale, traficando in questa Corte l’aumentò in poco tempo incredibilmente. Hebbe per moglie Clarice Margani, nobilissima femmina romana, e da lei ebbe due figli maschi Carlo e Francesco, i quali ambedue hanno posto casa in Roma. Il primo hebbe in moglie Anna Costa, il secondo quale cavaliere d’abito di Spagna, Anna Cecchini, nipote del cardinale di questo nome e l’uno e l’altro hanno figlioli, i quali probabilmente propagheranno la famiglia». Giuseppe aveva anche una sorella di nome Clarice (1641-1697), sposa di Costanzo Vecchiarelli. Sul cardinale Cecchini, cfr. L.BERTONI, Cecchini Domenico, in DBI, vol. 23(1979), ad vocem.

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ASV, Commissariato Armi, 282, f. 46, 22 giugno 1692, Orvieto, al Card. Mellini. In questa missiva il commissario scrive che la mancanza di cariche militari da offrire è: «la maggiore disgrazia che ho co’ miei Sig.ri Padroni». L’archivio del commissariato delle Armi comprende tutte le carte della segreteria delle Armi, che aveva sede in Vaticano nei Palazzi Apostolici. L’archivio della segreteria fu riordinato dal commissario Giovanni Battista Rezzonico nel 1759. L’archivio nell’Ottocento si trovava nel palazzo della presidenza delle Armi a piazza della Pilotta. G.MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, vol. 45, cit., p. 124: «[G. B. Rezzonico] fu premuroso di raccogliere e formare l’archivio militare che mancava, e lo collocò nel quartiere sulla piazza del monte di pietà».

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Questo tipo di fonti devono essere certamente esaminate con cautela, si tratta infatti di una tipologia di lettera che obbediva a molte regole formali e ritualizzate. L’uso di queste fonti per ricostruire i rapporti clientelari è stato fatto da Wolfang Reinhard, il quale tuttavia è stato criticato da Stefano Tabacchi. Le lettere utilizzate nella sua analisi dallo storico tedesco sono quelle scambiate tra il cardinale nipote Barberini e un nunzio, da ciò deduceva un rapporto clientelare di tipo feudale tra i due, stabilendo così la subordinazione del patrono e della creatura. La critica di Tabacchi a questa impostazione contesta che tra i due vi era un rapporto diretto di subordinazione d’ufficio e che le lettere rappresentavano semplicemente una forma di cortesia e rispetto reciproco. Questa obbiezione è utile a mantenere una certa prudenza su questo tipo di fonte; tuttavia

128 l’utilizzo di tali fonti: il fatto stesso che D’Aste poco dopo un concistoro decida di congratularsi con alcuni specifici prelati, o nunzi di fresca nomina, è significativo per la scelta compiuta dal prelato di chi riverire o meno. Il cardinale con cui D’Aste fu più legato in questi primi anni di permanenza in carica fu il lucchese Francesco Buonvisi (1626-1700)356. Il porporato aveva avuto una lunga carriera diplomatica come nunzio in varie sedi ed era stato apprezzato per la sua intelligenza nel ricoprire gli incarichi affidategli. Al conclave del 1692 fu proposto il suo nome, ma sia la Francia che l’Impero gli erano ostili, perciò la sua candidatura decadde. In seguito, si ritirò nella sua diocesi. L’appartenenza di Buonvisi al gruppo zelante garantì un appoggio per la continuazione della permanenza in carica di D’Aste, che professava il legame con la casa del cardinale357

. Questo tipo di lettere è presente con il solo Buonvisi, che inoltre non aveva alcuna carica in quel momento. Egli era stato uno dei cardinali del Sacro Collegio che aveva espressamente criticato l’abolizione delle cariche militari in occasione della discussione della bozza di bolla di Innocenzo XI. La morte di Buonvisi non fu grave per la carriera di Giuseppe D’Aste, che fu riconfermato come commissario delle Armi da Clemente XI, anche se voci a corte ne immaginavano una

analoghi scambi di lettere di Giuseppe D’Aste con altri prelati e cardinali sono utili a ricostruire i legami del commissario, e perciò comprendere, perché Innocenzo XII non impose un cambiamento all’inizio del suo pontificato, fin dal principio programmaticamente così diverso da quello di Alessandro VIII. D’Aste e i suoi corrispondenti analizzati non avevano un legame diretto di subordinazione per funzioni d’ufficio, tantomeno tra essi poteva configurarsi un rapporto simile a quello nunzio-nipote. S.TABACCHI, Il Buon Governo, cit., pp. 66- 67; W.REINHARD, Papal power and family strategy in the sixteenth and seventeenth centuries, in R.G.ASCH –A.M. BIRKE (ed. by), Princes, patronage and the nobility. The Court at the beginning of the modern age. 1450-1650, Oxford University Press Oxford 1991, pp. 343-4.

356

M.A.VISCEGLIA, Morte ed elezione del papa, cit., pp. 378, 384. G.DE CARO, Buonvisi Francesco, in DBI, vol. 72(1972), ad vocem.

357 ASV, Commissariato Armi, 348, f. 71v., 17 aprile 1700, Lucca, al cardinale Buonvisi : «L’inesplicabile benignità

di V.E. verso di me, e la mia Casa, mi stimola in tutte le congiunture a farli noti i successi alla medesima appartenenti come a mio distinto, e riveritissimo Pr.one [in occasione del matrimonio di Anna Maria d’Aste, nipote di Giuseppe]»; ivi, ff. 83v.-94v., f. 123: «So di non haver soddisfatto a miei doveri giusta il merito di VS Ill.ma e delle mie obbligazioni, quando ella ha favorito colla sua dimora questa città: ma si come voglio persuadermi, che ella habbia riconosciuto in me quella stima ben distinta che professo a VS Ill.ma e tutta la sua Casa, così spero, che conservi verso di me quella benigna propensione che è propria dell’animo suo gentilissimo. Io dal foglio riverente di VS Ill.ma ne concepisco un evidente argomento ma bramo anche le riprove dell’onore dei suoi comandamenti. La supplico a favorirmene, mentre io in rassegnarle la mia osservanza e renderle grazie anche in nome del Sig. Benedetto mio Fratello per la memoria havuta di lui», Ivi, f. 200r., 25 settembre 1700, Lucca, a Bonvisio Buonvisi: «a me è stato per raggione di servitù ben distinta è stato d’inesplicabile aff.e: so che egli per sua benignità havea particolar inclinazione per me [in occasione della morte del cardinale Francesco Buonvisi]».

129 sostituzione fin dal conclave del 1700358. D’Aste riuscì quindi a conservare il suo posto che occupava da ormai dieci anni. La notizia è riportata da Francesco Valesio nel suo Diario di

Roma, il quale fu particolarmente critico sul prelato e la sua personalità in più occorrenze

nelle proprie note359. Poco tempo prima il commissario delle Armi era riuscito a vincere un conflitto di precedenze sul tesoriere generale, D’Aste aveva ottenuto di precedere il tesoriere durante la cerimonia di rottura dell’anello piscatorio360. Il commissario infatti era l’unico

chierico di Camera che non aveva l’obbligo di rendicontare al tesoriere, doveva solo far approvare le spese dalla computisteria per la redazione del bilancio, egli aveva perciò notevole autonomia di spesa. D’Aste rimase in carica per diciassette anni dal 1690 al 1707, fu la permanenza più lunga di tutti i commissari sino alla fine del Settecento. Ad agosto del 1707 Giuseppe D’Aste fu sostituito da mons. Cornelio Bentivoglio d’Aragona361

. La transizione fu ordinata, anche se non mancarono le dispute. D’Aste, dopo aver lasciato il commissariato, intendeva ottenere la carica di tesoriere generale, ma gli venne offerta solo quella di maestro di Camera. Una possibile spiegazione della mancata nomina fu che i D’Aste avevano già un familiare al rango di cardinale: Marcello, un cugino di Giuseppe. La carica di tesoriere generale era una posizione che di norma era propedeutica alla nomina cardinalizia362; quindi, per mantenere l’equilibrio nel Sacro collegio, era piuttosto improbabile che due membri della

358

F.VALESIO, Diario di Roma, vol. 1, p. 92, martedì 27 Ottobre 1700: «Si tratta in conclave di levar la carica di commissario dell’arme il bestialissimo monsignor d’Aste, che si aiuta a tutto il potere per restarvi». Ivi, p. 141, giovedì 25 settembre 1700: «La carica di commissario delle armi, goduta dall’odiatissimo monsignor d’Aste, si diceva che S. Santità l’havesse trasferita in persona di Monsignor del Giudice, nipote del cardinale di tal nome, del che tutta la soldatesca ne ha fatte dimostrazioni vivissime d’allegrezza per la bestialità del suddetto monsignor d’Aste. Ma non fu vero».

359

ID., Diario di Roma, vol. 1, p. 30: «il giorno monsignor d’Aste, commissario dell’armi, che, stante la

picciolezza della statura, deformità di viso e poco garbo della persona, viene chiamato dal papa con grazioso nome di “monsignor Straccetto”, fu nell'armaria di S. Pietro per vedere le armi che si devono distribuire alla soldatesca in tempo di conclave».

360

Ivi, p. 60, martedì 28 settembre 1700: «Essendo concorso infinito di popolo a Monte Cavallo, le porte del cui palazzo erano chiuse, alle 14 venne il Cardinale Giovanni Battista Spinola camerlengo con gli chierici di Camera (e fu controversia sia per la precedenza tra Mons. d’Aste, decano de’detti chierici, e monsignor tesoriere: la vinse monsignor d’Aste, e monsignor tesoriere non volle andare nella medesima carrozza del camerlengo». Sulla cerimonia di rottura dell’anello piscatorio, si veda M.A.VISCEGLIA, Morte ed elezione del papa, cit., pp. 219,

559.

361

G.DE CARO, Bentivoglio d’Aragona Marco Cornelio, in DBI, vol. 8(1966), ad vocem.

362 R.A

130 stessa famiglia fossero nominati cardinali. Inoltre l’opposizione a D’Aste era capeggiata da un curiale affermato come Gaspare Carpegna. Le fonti che informano dei contrasti in Camera Apostolica per la nomina di Bentivoglio si trovano nelle carte del Fondo Carpegna in Archivio segreto vaticano363. Il testo fu scritto su ispirazione di mons. D’Aste, e all’interno vi sono aspre critiche alle nomine fatte da Clemente XI. Di particolare interesse è la descrizione dell’attività di D’Aste, riportata dal punto di vista del tribunale di «Piena Camera»364

:

Ma almeno si continui in persona di Monsignor D’Aste il Commissariato delle Armi, non potendosi da alcuni di noi speculare per qual caggione ne resti così ingnominiosamente privato, doppo la certezza della sua puntuale amministrazione da tutti esagerata, e lodata dalla bocca istessa della S.V. Altro non potiamo indagarne, che il desiderio sommo, paliato [sic] nella vr.a liberalità di satolare [sic] l’ingorda ambitione di uno de nostri Camerali, il quale à pena entrato ne i limiti della Prelatura ha formato oppenione si vasta del proprio merito, che l’ha creduto illustre per offuscare lo splendore d’ogni altro. Io non ricordo V.S., che non è gran tempo, che questo immerse nelle licenze di una vita secolare, poneva il suo principale studio nel rendersi oggetto degno di compiacimento all’occhi del sesso femminile, e che il fuoco del suo spirito, benché assai vivace, lo mostrava assai più atto alla presidenza di un Convivio di Putte, che delli più gravi interessi del Vostro Principato, e sembrano assai appagate le sue malfondate pretensioni con aggregarlo al nostro Tribunale, mà vedendolo oggi ascendere al Commissariato delle Armi, e calpestare con tanta alterigia le nostre raggioni, occupando un Posto ad ogn’un di Noi dovuto più giustamente ci fa vergognare d’essere Chierici di Camera.

Il passaggio ha chiari intenti polemici miranti a screditare Bentivoglio, tuttavia vi emerge un