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Pratiche commerciali ingannevoli mediante azione

3.3 Le pratiche commerciali scorrette

3.3.1 Pratiche commerciali ingannevoli mediante azione

Le pratiche commerciali ingannevoli, disciplinate dalla Sezione I del Capo II del Titolo III del Codice del consumo, rappresentano la prima ipotesi tipizzata di pratica commerciale scorretta e, secondo la partizione normativa, si distinguono in due sottocategorie: azioni ingannevoli ed omissioni ingannevoli192. A fronte della medesima portata effettuale ( id est, l’induzione in errore anche soltanto potenziale del consumatore) l’elemento discriminante tra le due fattispecie di pratiche commerciali ingannevoli, evidentemente, deve essere identificato nella natura del comportamento illecito posto in essere dal professionista, a seconda che esso consista in un facere o, al contrario, in un non facere .

La disciplina italiana, in linea con quella comunitaria, traccia una linea di demarcazione tra azioni ed omissioni ingannevoli fondata sulla tipologia di comportamento illecito realizzato dall’operatore commerciale. Tale comportamento illecito, pur consistendo sempre in una violazione dei doveri di trasparenza che devono caratterizzare il rapporto tra professionista e consumatore, può sostanziarsi sia in positivo, nella trasmissione di informazioni false o non corrette, sia in negativo, attraverso l’omissione o l’occultamento di informazioni rilevanti. Il risultato, rilevante ai fini della qualificazione della fattispecie concreta quale prassi commerciale scorretta, sarà il medesimo, ovverosia l’induzione nel

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Cfr. V. D’ANTONIO,G.SCIANCALEPORE, Le pratiche commerciali, cit.; E. MINERVINI, La trasparenza delle condizioni contrattuali (contratti bancari e contratti del consumatore), in Banca, borsa, tit. credito, 1997, I, p. 95 ss.; G.ALPA, La “trasparenza” del contratto nei settori bancario, finanziario e assicurativo, in Giur. it., 1992, IV, p. 409 ss.; U. MAJELLO, Problematiche in tema di trasparenza, in M. RISPOLI FARINA (a cura di), La nuova legge bancaria. Prime riflessioni sul testo unico, Napoli, 1995, p. 308 ss.; R. LENER, Forma contrattuale e tutela del contraente “non qualificato” nel mercato finanziario, Milano, 1996, p. 7 ss.); G. MERUZZI, La trattativa maliziosa, Milano, 2003, p. 36 ss.

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consumatore di una falsa rappresentazione della realtà con la potenziale assunzione di decisioni commerciali diverse da quelle che sarebbero state altrimenti prese193.

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Cfr. A. MANCUSO, M. MAIONE, Lo "stato dell’arte" dell’e-advertising: report su strumenti tecnici e contesto normativo di riferimento, in Comparazione Diritto Civile, 2012. È da specificare che gli artt. 23 e 26 del Codice presentano un elenco di pratiche commerciali ritenute in ogni caso ingannevoli e aggressive per le quali, diversamente dal disposto degli artt. 21-22-24-25, non occorre accertare la presunta ingannevolezza o aggressività della pratica in questione, ma esclusivamente che l’azione in discussione ricada in una delle ipotesi elencate in tali black list. «Parte della dottrina reputa che, al fine di valutare se una pratica sia scorretta, si dovrà a) in primo luogo verificare se rientri o meno in una delle previsioni delle liste nere, b) in caso di esito negativo, si dovrà appurare se in essa siano ravvisabili gli estremi di una pratica ingannevole o aggressiva, e c) ove anche quest’ultima verifica dovesse avere esito negativo, si dovrà far ricorso alla norma generale "di chiusura" accertando, diversamente dai casi sub a) e b), la contrarietà alla diligenza professionale della pratica e la sua idoneità ad alterare il comportamento economico del consumatore. […] In quest’ottica si assegna alla norma generale di cui all’art. 20 […] una funzione sussidiaria, destinata a rivestire un ruolo piuttosto marginale. Secondo altri […], invece, l’estesa valenza del divieto contenuto nell’art. 20, quale clausola generale, impedisce di considerarla come mera ipotesi residuale cui attingere solo quando il caso concreto non rientri in alcuna delle fattispecie indicate nelle liste nere, e ne fa invece la disposizione dalla quale deve prendere avvio l’interpretazione di tutte le altre norme contenute nella nuova disciplina. È infatti proprio la clausola generale a fornire i criteri guida cui attingere nella ricostruzione in concreto delle fattispecie elencate nelle c.d. liste nere. Ciò essenzialmente per due motivi. Da un lato, in quanto la descrizione delle fattispecie contenute nelle liste nere è ben lungi dall’essere univoca ed autosufficiente, evocando invece concetti indeterminati che esigono a loro volta un’interpretazione, nell’ambito della quale torna ad assumere rilevanza la ratio della clausola generale. D’altro lato, perché le black list, pur concepite per facilitare il compito dell’interprete, non sono in grado di risolverlo, non contenendo divieti per se ma solo presunzioni legali di illiceità della pratica pur sempre suscettibili di prova contraria. Pertanto, una volta ricostruite le fattispecie ivi previste, la loro valutazione non può prescindere né dalla contestuale analisi della contrarietà alla diligenza professionale e dall’idoneità ad alterare il processo decisionale che conduce il consumatore all’assunzione delle sue scelte di mercato, né dall’applicazione della rule of reason di cui è espressione la clausola generale», V.CUFFARO (a cura di), Codice del Consumo, II ed., Milano, 2008, p. 108- 109. Ricordiamo che la rule of reason è un approccio sviluppato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nell’interpretazione dello Sherman Antitrust Act, la più antica legge antitrust americana risalente al 1890 volta a limitare monopoli e cartelli. Le infrazioni alla legislazione antitrust possono essere affrontate mediante la per se rule ovvero, alternativamente, la rule of reason. Nel primo caso è sufficiente provare che un certo comportamento si è verificato e che esso ricade nella categoria di pratiche così

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Soffermandosi specificamente sulle azioni ingannevoli194, l’art. 21, c. 1º, Cod. cons. le definisce come pratiche commerciali che contengono informazioni non rispondenti al vero o che, seppure di fatto corrette, in qualsiasi modo, anche nella loro presentazione complessiva, inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad una serie di elementi rilevanti195. In entrambi i casi, l’azione ingannevole si caratterizza ulteriormente per il fatto di indurre o di essere idonea ad indurre il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso196. Il presupposto caratterizzante, ai fini

"chiaramente anticoncorrenziali" da essere illegali di per sé, senza che sia necessaria alcuna inchiesta dettagliata. Secondo la "regola della ragione", invece, si rende necessaria una dettagliata analisi delle condotte ritenute illecite, delle ragioni che le hanno provocate, dell’impatto sul destinatario (La politica della concorrenza o antitrust, consultabile all’indirizzo www.unipv.it).

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Tale distinzione tra azioni ed omissioni ingannevoli, ad ogni modo, ha valore puramente a fini classificatori, ma dalla stessa non discende alcuna differenziazione in punto di effetti, che – come detto – sono assolutamente identici.

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Gli elementi, elencati all’art. 21, che possono essere oggetto di inganno sono: «a) l’esistenza o la natura del prodotto; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto; c) la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto; d) il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo; e) la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione; f) la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti; g) i diritti del consumatore, incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi dell’articolo 130 del presente Codice» (art. 21 c. 1 lett. a-g).

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Inoltre, sono considerate azioni ingannevoli le pratiche commerciali che, sebbene non contengano informazioni false o ingannevoli relativamente agli aspetti sopra elencati, tuttavia, inducendo o essendo idonee ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, comportino: un’attività di commercializzazione del prodotto che ingeneri confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente, ivi compresa la pubblicità comparativa illecita (riferimento quest’ultimo non menzionato nel testo della

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della sussistenza di un’azione ingannevole, consiste nell’alterazione di una decisione di natura commerciale del consumatore197. Partendo da questo presupposto, la nozione di azione ingannevole si identifica in due differenti tipologie a seconda che questo si accompagni alla trasmissione al consumatore di informazioni obiettivamente non veritiere o, invece, alla divulgazione di informazioni vere, ma presentate al consumatore in maniera decettiva. Nella prima fattispecie, dunque, si tratta di una pratica commerciale scorretta sostanziatesi in una azione ingannevole caratterizzata dalla comunicazione al consumatore di informazioni sostanzialmente false, che siano idonee ad alterarne la capacità di decisione in relazione a quella specifica relazione commerciale; nella seconda ipotesi, invece, la pratica commerciale scorretta, pur qualificabile sempre come azione ingannevole, consisterà in una distorta rappresentazione di informazioni al consumatore, tale da farlo (almeno potenzialmente) cadere in errore circa rilevanti profili della operazione commerciale e, dunque, indurlo (sempre solo potenzialmente) a compiere scelte commerciali altrimenti non volute. Emerge chiaramente come la fattispecie più interessante sia la seconda, più insidiosa per il consumatore in quanto difficile da disvelare ed, al contempo, perché sarà proprio quest’ultima quella di più comune realizzazione concreta198. La pratica

direttiva); il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare, qualora si tratti di un impegno fermo e verificabile e il professionista indichi in una pratica commerciale che è vincolato dal codice.

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Questo primo dato consente immediatamente di stabilire che affinchè si abbia una pratica commerciale ingannevole e, precisamente, una azione ingannevole, non deve necessariamente registrarsi una perdita economica in capo al consumatore, ma è sufficiente la mera possibilità di alterazione della sua autonomia decisionale nelle scelte di carattere commerciale.

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La casistica in materia di pubblicità dimostra come la seconda fattispecie sia più diffusa della prima in quanto le imprese più che fare ricorso ad informazioni false per avvantaggiarsi nei rapporti con il consumatore, preferiscono ricorrere ad artificiose rappresentazioni della verità dei fatti tali da indurre il destinatario a rappresentarsi una realtà dell’operazione commerciale concretamente inesistente (V. D’ANTONIO, G. SCIANCALEPORE, Le pratiche commerciali, cit.), L.C.UBERTAZZI, Concorrenza sleale e pubblicità, Milano, 2008, p. 330.

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commerciale ingannevole più pericolosa per il consumatore, dunque, non è tanto quella che ha ad oggetto la divulgazione di informazioni non veritiere, quanto quella che rappresenta la realtà in maniera tale da indurne una falsa percezione perché questa ipotesi risulta caratterizzata dalla contemporanea verifica di un doppio stato psicologico del consumatore: l’uno legato al profilo della potenziale induzione in errore, l’altro a quello della potenziale alterazione della capacità di autonoma decisione commerciale. Per la classificazione della fattispecie, il legislatore ha inserito nella definizione una serie di parametri obiettivi tesi ad oggettivare il più possibile l’analisi dei profili psicologici del consumatore.

Primo “paletto”, in tal senso, è il consueto richiamo all’indice del consumatore medio: sarà quest’ultimo il parametro di riferimento per valutare la potenzialità decettiva della rappresentazione delle informazioni contenute nella pratica commerciale esaminata.

Seconda ancora oggettiva è data dall’analitica elencazione dei profili rilevanti dell’operazione commerciale che devono rivelarsi falsamente rappresentati ai fini della qualificazione della pratica commerciale come ingannevole. Si tratta delle informazioni essenziali relative al prodotto oggetto della pratica commerciale [art. 22, c. 1 º, lettere a) e b): esistenza o natura dello stesso; nonché caratteristiche principali, quali disponibilità, vantaggi, rischi, esecuzione, composizione, accessori, assistenza post- vendita al consumatore e trattamento dei reclami, metodo e data di fabbricazione o della prestazione, consegna, idoneità allo scopo, usi, quantità, descrizione, origine geografica o commerciale o risultati che si possono attendere dal suo uso, o risultati e caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto]; o alla stessa operazione commerciale [lettere c) e d): portata degli impegni del professionista, motivi della pratica commerciale e natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto; prezzo o modo in cui questo è calcolato o esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo]; o, ancora, alle fase post-vendita [lett. e): necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione]; o alle qualifiche del professionista [lett. f): natura, qualifiche e diritti del professionista o del suo agente, quali

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l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti; o, infine, ai diritti del consumatore (incluso il diritto di sostituzione o di rimborso) [lett. g)].

Questa elencazione di elementi su cui può ricadere l’ingannevolezza, che dal tenore letterale della disposizione parrebbe tassativa, offre all’interprete una serie di fattori di valutazione tipizzati sulla base dei quali interpretare le fattispecie concrete di pratiche commerciali al fine di determinarne la potenziale attitudine decettiva199.

Ultimo e forse più importante parametro teso ad oggettivare la nozione di azione ingannevole è legato alla costruzione in termini di mera potenzialità degli stati soggettivi del consumatore: come visto, la norma del Codice del consumo non fa riferimento soltanto al consumatore indotto in errore che, perciò, abbia compiuto scelte commerciali non volute. Al contrario, tutta la disposizione è costruita sulla mera potenzialità di tali accadimenti, sicchè, ai fini della qualificazione in termini di ingannevolezza di una pratica commerciale, non è necessario raggiungere la prova dell’avvenuto inganno e del conseguente pregiudizio commerciale, ma è sufficiente dimostrare la semplice eventualità degli stessi. La ratio di tale costruzione normativa tesa alla obiettivizzazione della nozione di azione ingannevole è duplice: da un lato, ci si muove nell’ottica di favorire la posizione del consumatore, rendendo più lievi gli oneri probatori a suo carico, dall’altro, la prospettiva è quella, “cara” ai professionisti, di non minare la certezza di prassi commerciali standardizzate, che o sono sempre legittime o non lo sono in nessun caso.

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Nello specifico, la ratio di tale elencazione è quella di orientare l’interprete nella lettura delle ipotesi concrete di pratiche commerciali ed, al contempo, di limitarne la discrezionalità, fissando dei criteri minimi oggettivi sulla base dei quali effettuare il giudizio.

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