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Premessa: la potenza delle immagin

LINGUISTIC TURN E ICONIC TURN

1.1 Premessa: la potenza delle immagin

«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora»144. Così Heidegger, sostenendo che la parola è, in sé, “parola dell’essere”, perviene ad affermare che il linguaggio non è nient’altro che «la sede dell’evento dell’essere»145, ossia il luogo nel quale quest’ultimo si manifesta. Eppure, da questo punto di vista, è utile rammentare che l’homo pictor ha preceduto lo zoon logon echon aristotelico146 in quella che Gottfried Boehm definiva la «manifestazione materiale di un immateriale che si dà a vedere»147 e che caratterizza l’umanità, vale a dire il comunicare attraverso le immagini. Come forma di espressione della cultura e vettore attraverso cui quest’ultima si è trasmessa, è indubbio che le immagini costituiscano un prius

144 M. HEIDEGGER, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, tr. it. diF. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 267.

145 G. VATTIMO, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Roma 2010, p. 123. 146 Locuzione con cui Aristotele nella Politica definisce l’uomo, animale diverso dagli altri in quanto dotato di parola: il vivente (zoon) che ha (echon) la parola (logon). ARISTOTELE, Politica, Trattato sull’economia, in G. GIANNANTONI (a cura di), R. LAURENTI (tr. it.), Opere: vol. 9, Laterza, Roma-Bari 1986, I (A), 2, 1252 b - 1253 a, p. 6.

147 G. BOEHM, La svolta iconica, a cura di M. G. Di Monte, M. Di Monte, Meltemi, Roma 2009, p. 110.

cronologico rispetto alla parola148: l’immagine è «l’infanzia del segno» e questa sua «originalità le dona una potenza di trasmissione senza pari»149.

Si tratta allora di comprendere in che cosa consista questa potenza dell’immagine. A tale scopo, pare opportuno muovere da una riflessione intorno al divieto di adoperare le immagini, poiché è da quest’ultimo che deriva lo status dell’iconico nella nostra cultura150. Il primo antichissimo divieto è quello veterotestamentario, contenuto nel Libro dell’Esodo – definito come «il più antico documento teorico sulle immagini»151 – in cui al credente è imposto il rispetto di una prassi figurativa negativa: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra»152. La rigidità di questo divieto si inserisce nella cornice del racconto in cui Mosè, di ritorno dal monte Sinai con il Decalogo153 scritto su tavole di pietra e consegnatogli da Jahwe – l’invisibile Dio di cui egli è testimone –, prevale, riportando il rigido divieto, sul fratello e sacerdote Aronne che, permettendo la

148 «Si tratta di un sapere antichissimo, condiviso da molti fin dalla preistoria» (ibidem, p. 106); si pensi, a titolo esemplificativo, alle pitture rupestri.

149 R. DEBRAY, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, tr. it. di A. Pinotti, Il Castoro, Milano 1999, p. 40. L’Autore sostiene che immagine e parola sono fenomeni di diversa natura e perseguono finalità non assimilabili: «le parole ci proiettano in avanti, l’immagine all’indietro, e questo arretramento nel tempo dell’individuo come della specie è un acceleratore di potenza» (ibidem, p. 93).

150 Cfr. in tal senso, G. BOEHM, La svolta iconica, cit., p. 112. 151 Ibidem, p. 111.

152 Es. 20,4.

153 «Ciò che Mosè porta giù dal Sinai non è un equivalente della figura divina o della sua essenza, ma un messaggio privo d’immagine in una forma estranea alla figura». G. BOEHM, La svolta iconica, cit., p. 73.

costruzione di un vitello d’oro, aveva dato la possibilità al popolo di venerare un’immagine della divinità154.

Ai fini della seguente trattazione, il racconto ora esposto – oltre ad essere all’origine della teoria iconoclasta dalla quale discendono le lotte teologiche, culturali o politiche susseguitesi nella storia – testimonia, seppur implicitamente, l’avvenuto riconoscimento di una potenza delle immagini tale da giustificare la forza della loro proibizione; in altre parole, è proprio dal divieto di ricorrere a determinate immagini che si ricava l’intensità comunicativa di queste ultime155. Vi è dunque un’evidente difficoltà a concepire la potenza dell’immagine secondo un preciso metodo, dal momento che questa è riconoscibile soltanto negli effetti che l’immagine produce156; difatti, il potere racchiuso nelle immagini dipende dalla loro «capacità di dare accesso a qualcosa, a ciò che non è più o è altrove, un potente sovrano, un contenuto religioso, qualcosa di invisibile, ciò che non ha corpo né volto, qualcosa di immaginario, di sognato. Il potere dell’immagine significa: il fait voir, apre gli occhi, fa segno»157. Pertanto, è ragionevole affermare che l’immagine non si risolve meramente nella sua fattualità materiale – il colore, la tela, la superficie, lo schermo – , ma mostra sempre qualcos’altro, perché è capace di attivare la facoltà proiettiva della nostra percezione, per cui «sono sufficienti poche manipolazioni elementari affinché nel continuum uniforme del mondo materiale non solo qualcosa “appaia”, ma anche, qua o là, qualcosa “si mostri”: all’occhio si riveli una visione che affiora dalla materia, si 154 Per il racconto dettagliato si rimanda a ibidem, p. 73 ss.

155 Si veda in proposito A. DI ROBILANT, Non soltanto parole,. In margine ad alcuni itinerari in “Law and Art”, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, Il Mulino, n. 2, dicembre 2001, p. 499 ss.

156 G. BOEHM, La svolta iconica, cit., p. 90. 157 Ibidem, p. 110.

dischiuda un senso»158. L’immagine, con la sua capacità di dare forma visibile all’invisibile, si rivolge insomma ai sensi e racchiude in sé l’opportunità di eludere la mediazione del linguaggio e della ragione, proprio perché l’atto di decodificare l’immagine e scoprirla, cercando di cogliere qualcosa “come” qualcosa, è fondamentale per conferirle un senso, operazione che «non si realizza solo linguisticamente, ma anche tra l’occhio e il mondo materiale»159.

Tali riflessioni caratterizzano le cosiddette teorie sull’immagine160 emerse all’indomani della svolta iconica – quell’iconic turn di cui Boehm fu precursore in ambito europeo – e che inducono a riflettere circa la possibilità di restituire all’immagine una sua autonomia, non come strumento di cui si può disporre o come oggetto da contemplare, bensì come forma di espressione della cultura, potenza storica e condizione necessaria della realtà161. Il che sembra opportuno riconsiderare l’inclusione delle immagini nella stessa cultura giuridica – dal momento che il diritto non si è sottratto «al linguaggio che su tutto domina»162 –, di modo che queste ultime possano costituire un vero e proprio approccio epistemico contro il tecnicismo della scienza giuridica odierna. Da questo punto di vista, proprio perché viviamo in una realtà storico-giuridica basata sul tecnicismo e sulla dimensione quantitativa dei saperi, a scapito dell’arte della comprensione, della

158 Ibidem, p. 109. 159 Ibidem.

160 Il riferimento è rivolto a tutte quelle teorie che in ambito nazionale e internazionale hanno tentato di individuare uno statuto epistemologico per la scienza delle immagini e che vanno sotto il nome di visual cultural studies, théorie de l’image e Bildwissenschaft; si veda A. PINOTTI, A. SOMAINI, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Cortina, Milano 2009. 161 Cfr. H. BREDEKAMP, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, tr. it. di F. Vercellone, Cortina, Milano 2015, p. 266.

significazione e dell’interpretazione, pare opportuno «mettere in discussione l’attitudine scientista dei confronti del diritto o almeno riflettere criticamente su di essa»163; e per fare ciò è necessario soffermarsi sul «carattere eminentemente extralinguistico dell’esperienza giuridica»164 – ovvero il manifestarsi dell’esperienza giuridica oltre schermi ermeneutici – che si contrappone alla tendenza della scienza giuridica di indirizzare l’evoluzione del diritto verso un logos razionalizzante che trova la sua espressione solo nella parola

scritta dalla Ragione – quella Ragione grafica madre delle scienze e delle leggi –, l’unica in grado di ordinare, misurare e fondare rapporti, proporzioni e uguaglianze165.

Oltretutto, in virtù del suo stretto legame con la dimensione sociale, appare ragionevole ritenere che la riflessione giuridica non possa prescindere, ai fini di una più profonda comprensione dell’impatto del diritto sui consociati, dal ricorso all’immagine quale medium di relazione tra l’ordinamento e la società166. Invero, è doveroso ricordare che l’immagine è essa stessa linguaggio nella misura in cui è veicolo di universi e ordini simbolici167 indispensabili

163 M. STOLLEIS, L’occhio della legge. cit., p. 12 s.

164P. G. MONATERI, Correct our watches by the public clocks. L’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in J. DERRIDA, G. VATTIMO (a cura di), Diritto, giustizia e interpretazione, Laterza, Roma- Bari 1998, p. 191.

165 Cfr. R. DEBRAY, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, cit., p. 96.

166 In questo senso, U. MATTEI, An opportunity not to be missed. The future of comparative law in the United States, in “American journal of comparative law”, Vol. 46, n. 4, 1998, p. 709.

167 Sul punto si rimanda alle riflessioni svolte nella prima parte del presente lavoro (in particolare la considerazione sul potere simbolico di P. Bourdieu). Inoltre ricordiamo che i sociologi P. Berger e T. Luckmann intendevano gli “universi simbolici” come una forma di legittimazione di “quarto livello” della comprensione delle sfere di significato prodotte dall’ordine istituzionale e rappresentate da “corpi di tradizione teoretica” che, in quanto

per cogliere la relazione tra cultura giuridica interna e cultura giuridica esterna168; difatti, se per «i cultori del diritto la produzione e la conoscenza dei comandi può anche avvenire ricorrendo alla sola parola, lo stesso non può accadere per i consociati»169, nei cui confronti sarebbe altamente auspicabile analizzare il fenomeno del diritto al di là di una prospettiva delimitata dai canoni positivisti e del tecnicismo del linguaggio giuridico, riuscendo anche a valorizzare il pluralismo delle fonti di produzione e conoscenza del diritto stesso170.