INDICE
INTRODUZIONE………5
PARTE PRIMA
IL DIRITTO NELL’ARTE
ICONOGRAFIA DEL DIRITTO E DELLA GIUSTIZIA NELLE ARTI FIGURATIVE
CAPITOLO 1: ARTE ANTICA
1.1. Premessa………9 1.2. La giustizia come mater iuris………..11 1.3. Da Virtù a simbolo di matrice punitiva: la bilanci e la
spada……….18 1.4. Da Díkes oftalmós a giustizia bendata………...……..26
CAPITOLO 2: ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA 2.1. Bilancia, spada e benda: una variazione di significato…....33 2.2. La dimensione satirico-caricaturale dell’iconografia del diritto e della giustizia nell’Ottocento……….……….………..38 2.3. L’iconografia del diritto e della giustizia come percepiti dal mondo contemporaneo……….…….……….43
APPENDICE INCONOGRAFICA………..……..…51
PARTE SECONDA
L’ARTE NEL DIRITTO
IL DIRITTO COME DIMENSIONE CREATIVA
CAPITOLO 1: LINGUISTIC TURN E ICONIC TURN 1.1. Premessa: la potenza delle immagini...67 1.2. Il linguistic turn: R. Rorty e G. Frege………..……..72
1.3. Il linguistic turn: L. Wittegnstein…...………79 1.4. Wittgenstein: dal linguistic all’iconic turn?...85 1.5. L’iconic turn di G. Boehm ed il pictorial turn di W. J. T.
Mitchell...89 1.6. Altri approdi all’iconic turn………97
CAPITOLO 2: UN ESPERIMENTO
2.1 Beyond text in legal education………..102 2.1.1 Educazione all’attenzione………...111 2.1.2 Educazione all’incontro………....114 2.1.3 Vulnerabilità, capacità percettiva e diritto: l’esito dell’esperimento...118
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE……...…………...…121
BIBLIOGRAFIA……….………..125
SITOGRAFIA………...145
INTRODUZIONE
«Ius est ars boni et aequi»: così Ulpiano1, rifacendosi alla definizione celsina del diritto enunciata da Celso figlio2, e in seguito da Kelsen3, sussumendo la concezione del diritto nel genus ars, fa emergere il legame tra arte e diritto, palesando come quest’ultimo possa accostarsi all’arte del buono e dell’equo raggiungendo una forma di bello e buono, la καλοκαγαθίαdella cultura greca.
D’altro canto, considerando l’arte non solo come creazione4, ma come «inventio e ricerca delle dovute proportiones»5, si evince un altro nesso di collegamento fra l’arte e il diritto, ossia l’interpretazione; parola che di per sé esprime l’idea di una mediazione e, con essa, di una congiunzione: l’interprete unisce il produttore dell’ars al fruitore della stessa.
Infatti, se da un lato l’interpretazione artistica è fondante nel determinare «la relazione tra un’opera d’arte e la sua controparte
1 In esordio delle sue Institutiones, in seguito utilizzato dai commissari giustinianei come incipit dei Digesta, sotto il titolo de iustitia et iure (D.1.1.1).
2 Giureconsulto romano vissuto fra il I e il II secolo d.C. che subentrò al padre nella guida della scuola proculiana e fece parte del consilium di Adriano.
3 Nella notissima opera La dottrina pura del diritto (tit. originale Reine Rechtslehre, Vienna, 1960), seppur con diverso valore attribuito agli aggettivi “bonus” e “aequus”: si veda in proposito F. GALLO, Definizione celsina e dottrina pura del diritto, in “Teoria e storia del diritto privato”, 2011, n. 4, p. 1.
4 «Prima di essere espressione, l’arte è azione ma anche creazione», J. HERSH, Essere e forma, Mondadori, Milano 2006, p. 26.
5 C. CONSOLO, Introduzine a F. CARNELUTTI, Arte del diritto, Giappichelli, Torino 2017, p. X.
materiale»6, sì da costituire l’identità dell’opera stessa, che rimane la medesima a livello materiale, ma muta riflettendo le diverse formae
mentis frutto dei processi storico-sociali; dall’altro, l’interpretazione
del diritto, come strumento del giurista per la ricerca delle giuste proporzioni ricostruttive sia in fatto che in diritto, diventa κατὰ μέτρον, la giusta misura a cui approda l’interprete quando «è capace di credere in ciò che non si lascia vedere immediatamente e si mette ad ascoltare ciò che la stessa opera dice»7.
È in ciò che l’arte nel diritto diviene arte del diritto; espressione che attiene alla struttura e alla funzione del diritto in quanto entrambe «servono a ordinare il mondo: il diritto come l’arte tendono un ponte dal passato al futuro»8.
È da queste premesse che si intende sviluppare il rapporto tra diritto e arte, strutturandone la trattazione in due parti. La prima esplorerà il diritto nell’arte, ossia i modi in cui la giustizia e la legge sono stati iconograficamente rappresentati nel corso del tempo attraverso i loro attributi fondamentali. La seconda ricercherà l’arte nel diritto, andando, da un lato, ad approfondire quello che è stato il passaggio dal linguistic turn – l’approccio linguistico del XIX secolo teorizzato da Richard Rorty – all’iconic turn, l’approccio della narrazione giuridica, la cui paternità si fa risalire a Gottfried Boehm, basato direttamente sulle immagini; e, dall’altro, esaminando l’esperimento Beyond text in legal education svoltosi nell’Università di Edimburgo con l’obiettivo di provare come sia possibile potenziare l’educazione legale e il sapere giuridico, dando particolare rilievo alle 6 A. DANTO, La trasfigurazione del banale: una filosofia dell’arte, a cura di S. Velotti, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 137.
7 F. CARNELUTTI, Arte del diritto, cit., p. XVII. 8 Ibidem, p. 6.
risorse pedagogiche che si manifestano in modo estrinseco rispetto al testo (beyond text), ovverosia derivanti dalle arti visive. In altre parole, vi è la possibilità che l’arte si presenti come una figurazione visiva del diritto quale “struttura mentale”, ovvero «quale forma del conoscere connessa all’attività del pensiero costituito, strutturato e dispiegato nella sua storicità»9.
In conclusione, l’intento del presente lavoro è quello di far emergere la capacità che ha l’arte non soltanto di raffigurare il reale, ma anche di indagare le forme mentali, possedute e sviluppate dagli individui in un dato arco temporale e spaziale, alle quali attingere più o meno consapevolmente attraverso la mediazione o suggestione che l’immagine crea. Poiché «le immagini simboliche sono un linguaggio e come ogni altro linguaggio intrattengono rapporti coi mutamenti storici e con le passioni e i bisogni che muovono i parlanti», l’arte figurativa costituisce uno dei possibili modi in cui si esplica «l’educazione simbolica al vedere»10. In quest’ottica i giuristi, confrontandosi con le immagini, sono in grado di trarre elementi per contribuire alla comprensione delle dinamiche complessive – sociali, etiche, economiche, tecniche, religiose – e non solo giuridiche, dentro le quali vive la loro specifica ars, il diritto.
9 T. MARCI, Codificazione artistica e figurazione giuridica. Dallo spazio prospettico allo spazio reticolare, Giappichelli, Torino 2014, p. 31.
10 A. PROSPERI, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Einaudi, Torino 2008, p. 6.
PARTE PRIMA
IL DIRITTO NELL’ARTE
ICONOGRAFIA DELLA GIUSTIZIA E DELLA LEGGE NELLE ARTI FIGURATIVE
CAPITOLO 1
ARTE ANTICA
1.1 Premessa
«La rotativa del "Clarion" di Spoon River fu distrutta, e io impeciato e impiumato,
perché il giorno che gli Anarchici furono impiccati a Chicago pubblicai questo:
ho visto una donna bellissima con gli occhi bendati sui gradini di un tempio di marmo.
Una grande folla le passava dinanzi, i volti imploranti alzati verso di lei. Nella sinistra impugnava una spada. Brandendo quella spada,
colpiva ora un bimbo ora un operaio, ora una donna in fuga, ora un pazzo. Nella destra teneva una bilancia:
nella bilancia venivano gettate monete d'oro da chi scampava ai colpi della spada.
Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto: "Non guarda in faccia nessuno".
Poi un giovane con berretto rosso
le fu accanto con un balzo e le strappò la benda. Ed ecco, le ciglia erano state corrose
dal marcio delle palpebre;
la follia di un'anima morente era scritta su quel volto.
Allora la folla capì perché portasse la benda»11.
Così Masters presenta la giustizia: una donna bellissima con una benda sugli occhi perché, come leggeva l’uomo in toga nera, «non guarda in faccia nessuno» – «is no respecter of persons» –. Ma la realtà è un’altra ed è il giovane rivoluzionario dal berretto rosso a scoprirla strappandole la benda: la giustizia è posseduta dalla
«follia di un’anima morente» – «the madness of a dying soul» –. La dicotomia in cui ci si imbatte leggendo questi versi è immediata: la giustizia è folle, quindi incapace di un retto giudizio, o è imparziale? A tale domanda è possibile rispondere prendendo in considerazione il fatto che la benda sugli occhi è soltanto uno degli attributi più frequenti dell’iconografia della giustizia, atteso che vari sono i simboli, peraltro rievocati dallo stesso Masters nella sua poesia, che accompagnano la sua raffigurazione: il riferimento corre, in particolare, alla spada e alla bilancia. Difatti, giustizia con la benda e giustizia con la bilancia e la spada sono percepite come concetti simbolici alternativi: da una parte, un giudizio precostituito che
11 E. L. MASTERS, Carl Hamblin, Antologia di Spoon River, trad. it. di F. Pivano, Einaudi, Torino 1993, p. 253. Si tratta dell’opera più celebre di Edgar Lee Masters, avvocato statunitense con una spiccata ambizione poetica culminata proprio con la pubblicazione, nel 1915 sul Mirror di St. Louis, di questa raccolta che racconta, in 244 epigrafi, la vita dei residenti dell’immaginaria cittadina di Spoon River, con l’intento di descrivere le quotidiane vicissitudini dell’uomo. Questa poesia, contenuta all’interno dell’Antologia, vuol essere un presunto commento che il giornalista Carl Hambling dedica alla memoria dei sette anarchici di Chicago, vittime di una feroce vendetta di classe il cui esito, a distanza di anni, porterà alla celebrazione della giornata internazionale dei lavoratori ogni primo maggio.
designa l’individuo colpevole senza alcuna prova e, dall’altra, il potere di giudicare e punire esercitato apertamente.
Tuttavia, prima di approfondire tali peculiari attributi sovente associati all’immagine della giustizia, pare opportuno soffermarsi sulla dimensione sessuata della rappresentazione iconografica della medesima, dal momento che è prevalentemente con essa che il diritto è stato raffigurato nei paesi a tradizione Civil Law – attraverso allegorie, miniature, sculture, opere d’arte – in modo continuativo sino alla fine dell’Ottocento.
1.2 La giustizia come mater iuris
Contrariamente al fatto che tutti i più grandi legislatori della storia siano stati degli uomini – Mosè in Israele, Minosse a Creta, Manu in India, e che similmente anche i grandi codificatori fossero tali – si pensi a Hammurabi, Solone e Giustiniano –, la giustizia, in molti paesi occidentali, è stata rappresentata come una donna; e ciò in analogia a quel filone di pensiero12 che tende a distinguere, da una parte, il potere dello Stato, sovente associato ad una figura maschile forte come nel caso della raffigurazione del Leviathan (Fig. 1) nel frontespizio dell’omonima opera di Hobbes13, e, dall’altra, lo spirito
12 Cfr. T. ZIOLKOWSKI, The figure of justice in western literature and art in “Inmunkwahak: The Journal of the Humanities”, vol. LXXV, giugno 1996, p. 198.
13 In proposito si veda H. BREDEKAMP, Thomas Hobbes. Der Leviathan. Das Urbild des modernen Staates und seine Gegenbilder (1651-2001), Akademie Verlag, Berlin 2006, p. 9 ss. In questa opera, contenente ulteriori
dello Stato, spesso invece accostato ad un personaggio femminile, come nell’esempio della Marianne francese14 (Fig. 2).
A fronte di una vasta genealogia concettuale della giustizia, infatti, la sua rappresentazione allegorica – iconografica e letteraria – è stata fin dalle origini univoca: un’immagine femminile. In proposito, vengono anzitutto in considerazione le dee del mondo greco antico: Themis – «che le agorai degli uomini e degli dei scioglie e convoca»15 –, considerata nella cultura greca la prima figurazione divina della giustizia, e, subordinata ad essa, poiché attinente alla sola giustizia umana, Dike16. C’è poi la divinità romana Iustitia, di cui l’opera
ricerche, che approfondiscono quelle anteriormente pubblicate nel 1999 in Visuellen Strategien, Bredekamp afferma l’importanza di rendere visibile il potere (corpus mistico) nella teoria dello Stato. Nello specifico, analizzando l’incisione che illustra il frontespizio della prima edizione del Leviathan di Hobbes – un gigante, il cui corpo è composto dall’assemblaggio di altrettanti corpi umani, che troneggia su una città ordinata impugnando i simboli della potestas politico-militare (la spada nella destra) e dell’auctoritas spirituale (il pastorale nella sinistra) – sottolinea come per Hobbes, nel ripensare lo Stato nato alla fine delle guerre di religione, fu necessario effettuare una raffigurazione grafica del medesimo: quest’ultimo non avrebbe potuto «pensare lo Stato moderno, senza farsene un’immagine» (ibidem, p. 9) posto che il «frontespizio, divenuto un’immagine mentale, è atto a colmare il vuoto tra rappresentante e rappresentato e provvede con ciò a eliminare il difetto simbolico del Leviatano in base al quale, nonostante esso sia un corpo, non è come tale rappresentabile» (ibidem, p. 72). Secondo Bredekamp, l’analisi del contesto storico-sociale consente di comprendere la funzione dell’icona usata da Hobbes: il ricorso ad un’immagine come quella del frontespizio sarebbe dovuto alla speciale funzione che la vista e l’immaginazione giocano nella sua dottrina gnoseologica, per cui il frontespizio passa da simbolo a vero e proprio medium della teoria politica dell’autore.
14 Si veda ad esempio M. AGULHON, P. BONTE, Marianne: les visages de la République, Gallimard, Paris 1992.
15 OMERO, Odissea, II, 69, tr. it. di V. Di Benedetto e P. Fabrini, Bur, Milano 2010.
16 Su Themis e Dike si veda G. COSI, Legge, Diritto, Giustizia. Un percorso nell’esperienza giuridica, Giappichelli, Torino 2013, p. 107 s. Themistes (da thitemi, porre) erano, nel mondo omerico, le leggi orali, simili alle massime giurisprudenziali, da citare e applicare quando necessario. Dikai erano invece le decisioni, aventi anch’esse stato divino e fondamento sacrale, e le
Quaestiones de iuris subtilitatibus17 celebra la natura femminile e sovrannaturale, «tratteggiando la prima espressiva allegoria della giustizia dell’età medievale e moderna»18. Nell’exordium, l’autore racconta di aver scoperto la bellezza e la maestà del Templum Iustitiae, un immaginario santuario al cui interno dimorano le sei virtù civili – Religio, Pietas, Gratia, Vindicatio, Observantia e Veritas19 – che circondano la Iustitia, una vergine maestosa, munita di bilancia, dalla postura solenne e dal volto velato di tristezza20 a causa della contemplazione delle miserie umane. Sopra la donna, «sdraiata sulla testa», si trova la Ratio dagli «occhi siderei e sguardo scintillante», mentre al di sotto, nel grembo della stessa, è collocata l’Aequitas «dal volto profuso di benignitas» che la aiuta «da socia» a tenere in equilibrio la bilancia «ponderando, con molti sospiri, le cause di Dio e degli uomini»21. Come autorevolmente rilevato, la circostanza che l’autore delle Quaestiones offra una tale visione ideale della giustizia dimostra come le parole possano essere un mezzo per tradurre efficacemente una rappresentazione figurativa, la quale prende vita;
procedure, con cui si applicavano le formule di Themis, per conservare o ripristinare i nomoi, cioè i costumi, gli usi popolari assimilabili all’ethos. 17 Operetta giuridica risalente alla metà del XII secolo, attribuita dapprima a Irnerio e successivamente al glossatore Piacentino (1192), la cui paternità rimane ad oggi ignota.
18 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal Medioevo all’Età moderna, in M. SBRICCOLI, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Giuffrè, Milano 2009, p. 160.
19 Comunemente considerate parte della giustizia, sulla scorta dell’Etica Nicomachea di Aristotele, e disposte nella stessa sequenza da Cicerone nel De Invenzione, II, 53.
20 Citando il filosofo Crisippo, Aulo Gellio in Notti Attiche, XIV, 4, scrive che in antichità la giustizia era raffigurata dai pittori come una vergine piena d’ardore e di temibile aspetto, dallo sguardo vivo, e con una dignità né umile né orgogliosa, ma improntata ad una certa tristezza degna di riverenza. 21 Cfr. IRNERIUS, Exordium in Quaestiones de iuris subtilitatibus, a cura e tr. it. di G. ZANETTI, La Nuova Italia, Firenze 1958.
infatti «nell’oggettività del racconto quelle figure esistono graphice (verbis) depinctae»22.
Nondimeno, siamo di fronte ad un’immagine della giustizia che è sì traslata sul piano della parola scritta ma che, al pari di quelle successive – riprodotte in affreschi, tele, sculture – è stata concepita per attribuirle un determinato significato in funzione di uno specifico ideale giuridico; in particolare, per cogliere il tipo di concettualizzazione proposta nelle Quaestiones si deve guardare alla disposizione verticale che Ratio, Iustitia e Aequitas assumono: si tratta di una formula espositiva sovente utilizzata nelle arti figurative per rappresentare la Trinità. In tal senso «la Giustizia, pur distinta da ratio e da aequitas, è una sola cosa con esse, mentre le virtù che la contornano sono insieme suoi attributi, suo compendio e sua emanazione»23.
Tale imago Dominae Iustitia delle Quaestiones è ripresa da E. H. Kantorowicz nella sua celebre opera “I due corpi del Re”, con l’intento di evidenziare la dimensione sessuata della rappresentazione iconografica. E’ indubbio, egli afferma, che il criterio ultimo di ogni giudizio e istituzione umane sia la giustizia, colei che sola ha un ruolo sia nel superiore diritto naturale che nell’inferiore diritto positivo, ancorché non coincida con nessuno di essi; la Iustitia di per sé «non è il diritto, sebbene preesista a qualsiasi legge e sia in essa presente, […] è un’idea o una dea. È una premessa extra-giuridica del pensiero giuridico. E come ogni idea, essa ha anche una funzione mediatoria fra le leggi divine e quelle umane, o fra la ragione e l’equità»24.
22 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 163. 23 Ibidem, p. 164.
24 E. H. KANTOROWICZ, I due corpi de Re: l'idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989, p. 96.
Il Templum Iustitiae è quindi dedicato alla idea o alla dea che preesiste al diritto e che lo crea, da qui l’appellativo di mater iuris: la giustizia è la rappresentazione di un femminile inteso come universale, quale corpo generativo, dotata di una funzione mediatrice da intendersi come «la misura stessa del diritto e delle società, quindi dell’umanità»25. E infatti, ad essa non si riconduce la dimensione della sanzione e della funzione coercitiva, la quale è collegata invece alla Legge da cui discendono simbologie connesse al pater e al potere: «l’imperatore è un pater legis, la giustizia una mater juris, e lo stesso ius il minister vel filius iustitiae»26. Non a caso, l’universo simbolico che ha accompagnato e veicolato l’iconografia della Legge, diversamente da quello della giustizia, non tende a fissare, tramite il principio dell’aequitas, forme di societas più giuste che dispongano, soppesino il rapporto tra bene e male fino a trovare il giusto mezzo ed eventualmente puniscano; bensì, sembra essere rivolto esclusivamente al «sorvegliare e punire»27, alla necessità di esercitare un potere prescrittivo e sovrano finalizzato a ordinare e controllare la società. Tale rappresentazione denota quindi una simbologia della Legge fondata su una cultura giuridica maschile28, che non contempla la
25 A. SIMONE, Mater iuris. La rappresentazione della giustizia nella prima modernità, in “Parolechiave”, vol. 53, n. 1, gennaio-giugno 2015, p. 137. 26 Ibidem, p. 89.
27 I. BOIANO, Il maschile, il femminile e il satirico nell’iconografia giuridica, in “Cartografie Sociali: rivista di sociologia e scienze umane”. Arti, diritto e mutamento sociale. Una mappa tra passato presente, futuro, a cura di A. Simone e A. Vespaziani, Mimesis, Milano-Udine, anno III, n. 5, maggio 2018, p. 281.
28 Si veda al riguardo C. DOUZINAS, L. NEAD, Law and the Image: The Authority of Art and the Aesthetics of Law, The University of Chicago Press, Chicago 1999. In questo saggio gli autori, attraverso un’originale raccolta di lavori di alcuni importanti esponenti della storia dell’arte e del diritto, trattano le diverse relazioni che intercorrono tra la legge e l’immagine artistica, sostenendo la tesi per cui l’iconografia della legge non è altro che l’ordine simbolico del pater.
misura del “giusto”. Un esempio emblematico è la raffigurazione della Legge in forme che richiamano la metafora dell’occhio che vigila, controlla e impone, il quale in origine era l’occhio di Dio (Fig. 3) «fisso ed eterno»29, al di sopra di ogni dualismo tra bene e male e con funzione non mediatrice ma soltanto decisoria; figura passata poi da occhio divino a quello del Princeps o del Sovrano (Fig. 4 e Fig. 5), che «tutto conosce, che a tutto provvede, che tutto controlla […] e che, insieme alla sua corte, diviene il centro di potere dei grandi Stati in formazione»30. In tempi più recenti, infine, l’immagine dell’occhio è stata impiegata per evocare lo Stato di diritto31 che, con la sua legge e la sua polizia, incaricate di prevenire il pericolo e garantire la sicurezza, protegge il cittadino dalla criminalità32.
Con riguardo a quest’ultima accezione dell’occhio della Legge, sempre espressione del potere maschile, è interessante guardare alla raffigurazione contenuta nel frontespizio del primo numero della Juristische Zeitung für das Königreich Hannover – “Rivista giuridica per il Regno di Hannover” – del 1826 (Fig. 6), in cui l’occhio sovrasta uno scettro, un ramo d’ulivo, un codice e una bilancia, rappresentanti rispettivamente la sovranità, la pace, il diritto positivo e la giustizia; da cui si ricava che, dietro l’immagine antropomorfa di una Legge simboleggiante il nascente Stato costituzionale di diritto – fautore, quest’ultimo, dell’onnipresenza
29 M. STOLLEIS, L’occhio della legge. Storia di una metafora, a cura e tr. it. di A. SOMMA, Carocci, Roma 2007, p. 40.
30 Ibidem, p. 55. 31 Ibidem, p. 32.
32 Paradigmatico è un passo della Canzone alla campana, poesia di Friedrich Schiller, comparsa per la prima volta nel Musenalmanach del 1800, che inneggia all’ordine borghese e statale: «di nero si copre / la terra, / il cittadino sicuro / la notte non teme, / che il criminale orribilmente desta / ché l’occhio della legge vigila».
dello ius e dell’uguaglianza dei consociati di fronte alla legge – si cela «l’oggettività del diritto a fronte della doppia soggettività del potere e della grazia»33. In altre parole, il simbolo dell’occhio, espressione dell’atto del guardare, ha una funzione di veicolo attraverso cui si instaurano i rapporti fra gli individui e le relazioni sociali. Tuttavia, se riferito all’iconografia della Legge che sovrasta l’umanità e che impone senza accogliere, dismette questo ruolo assumendone un altro: disciplinare i singoli soggetti riducendoli a meri oggetti di normazione. E proprio in opposizione a questa tendenza oggettivante, la giustizia, nella sua rappresentazione iconografica, è stata utilizzata per riscoprire il valore e la potenzialità dello ius dicere come espressione di un sapere umanistico prima che tecnico-giuridico.
Rispetto a ciò, è altresì rilevante considerare, anche per meglio comprendere l’inesauribile repertorio di qualità attribuite all’immagine femminile della giustizia, il diverso modo in cui nella nostra cultura è articolata la concezione morale maschile e femminile. Difatti, mentre il ragionamento maschile tende spesso ad essere astrattamente universale, oggettivo, decontestualizzato e formale, la sua controparte femminile è più frequentemente sensibile al caso particolare, prestando attenzione allo specifico contesto e all’unicità del singolo34. In tal modo la giustizia, lungi dal riconoscere soltanto un immaginario «generalized other» astraendo l’individualità e l’identità concreta dell’altro, prende in considerazione prima di tutto
33 M. STOLLEIS, L’occhio della legge. Storia di una metafora, cit., p. 34. 34 Per una visione generale dell’uso, delle virtù e degli attributi positivi riguardanti la figura femminile come ricorrente allegoria nel corso della storia, si veda M. WARNER, Donne e monumenti, tr. it. di L. Sacchetti, Sellerio, Palermo 1999.
un «concrete other», approfondendone la singolarità e cercando di indagarne i bisogni e le motivazioni.35
1.3 Da virtù a simbolo di matrice punitiva: la bilancia e la spada
L’iconografia prevalente della giustizia fino al XV secolo mette in connessione la ratio con l’aequitas, trasmettendo un’idea concettuale della stessa iustitia come “essere giusti”, cioè come virtù costitutiva dell’humanitas insieme alle altre virtù. Il simbolismo ricorrente è quello della bilancia alla greca36 governata dalla domina iustitia: è il tantundem37, lo strumento per antonomasia che rimanda a «un’idea di giustizia di tipo commutativo, negoziato, equo»38. La bilancia fin dall’antichità è stata sempre legata all’archetipo
35 Inoltre, per approfondire come l’elemento della moralità femminile è stato sviluppato ed interpretato, si veda C. GILLIGAN, In a different voice: Psychological theory and women’s development, Harward University Press, Cambridge-Mass. 1982; S. BENHABIB, Situating the self: Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, Polity Press, New York 1992, p. 158 ss.
36 Si tratta della bilancia formata da bilico, giogo e due piatti, simbolicamente garante e vettore per antonomasia dell’equità, e non invece, la stadera di origine romana ad un solo piatto, che misura sulla base di un criterio prestabilito dalla pezzatura di un peso, detto romano. Quest’ultima infatti potrebbe simboleggiare un’altra idea di giustizia, quella egemonica, adatta a sistemi in cui domina la legge, anziché la virtù. Cfr. M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 173, n. 50.
37 Riferimento al brocardo latino «Tantundem eiusdem generis et qualitatis»: lo stesso ammontare di generi della stessa qualità, sovente utilizzato nell’applicazione di diversi istituti nel diritto per designare l’obbligo di una parte che, avendo ricevuto una determinata quantità di denaro (o altre cose fungibili), deve restituire altrettante cose della stessa specie e qualità. 38 A. SIMONE, Mater iuris. La rappresentazione della giustizia nella prima modernità, cit., p. 144.
dell’equilibrio e della simmetria; ma oltre a ciò, secondo il Vasari, è bene che essa «metta paura ai popoli»39 perché, come dice un famoso passo del Processo di Kafka, sui suoi piatti chiunque «può essere pesato con tutti i suoi peccati»40, così come accadeva nelle immagini che illustravano i geroglifici relativi alla psicostasia egizia (Fig. 7), in cui la dea Ma’at, personificazione dell'ordine del mondo e della giustizia, pesava le colpe dell’anima del defunto41.
Centrale, nella concezione della giustizia provvista dell’attributo della bilancia, è l’idea di un equilibrio da realizzare tra «prestazioni e controprestazioni (la Giustizia commutativa), tra meriti e premi (la Giustizia distributiva), tra demeriti e castighi (la Giustizia correttiva)»42; una raffigurazione, questa, tesa a soppesare, mediare ed espletare ogni armonica virtù con il chiaro fine di pensare al bonum commune, raggiungendo così la stabilità nei rapporti sociali. Questa
concezione è presente in alcune rappresentazioni assai note: Giotto, tra il 1304 e il 1306 nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dipinge la
39 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, p. 127.
40 F. KAFKA, Il processo, Mondadori, tr. it. E. Pocar, Milano 1988, p. 159; così un tremante accusato, strisciando per terra e inginocchiandosi, redarguisce il protagonista, Josef K., propenso a desistere da ogni difesa: «Per chi è accusato è meglio muoversi che star fermi, perché chi sta fermo può trovarsi sempre senza saperlo sul piatto di una bilancia e venir pesato con tutti i suoi peccati».
41 La psicostasia è nota anche come «pesatura del cuore» o «pesatura dell’anima»: era la cerimonia a cui veniva sottoposto il defunto prima di poter accedere all’aldilà (Duat). Nel Libro dei morti egizio (ca. 1400 A.C.), è raffigurata l’anima del defunto nell’atto di essere pesata con una bilancia, su uno dei piatti della quale è poggiato un vaso a forma di cuore, rappresentante tutte le azioni poste in essere in vita dal defunto, mentre sull’altro si trova la piuma di struzzo della dea Ma’at, simbolo della giustizia e della verità.
42 T. GRECO, Senza benda né spada. L'immagine weiliana della giustizia, in S. Tarantino (a cura di), Pensiero e giustizia in Simone Weil, Aracne, Roma 2009, p. 119.
sua Iustitia (Fig. 8), che «non regge la bilancia, […] ma la governa e procura che sia pari»43, garantendo così l’ordinato svolgimento della vita civile e contrapponendosi al giudice corrotto, il quale, arroccato in un castello in rovina tra i boschi, lascia libero spazio ai delinquenti44. Nell’illustrazione, nessuna figura visibile sostiene il filo quasi impercettibile che funge da bilico nell’esile giogo della bilancia, che così sembra essere sospesa a mezz'aria e ridotta ai soli piatti, questi sì ben visibili, nelle mani della Iustitia. Il risultato è quello di far apparire la giustizia stessa come una bilancia; difatti, la triangolazione che racchiude tutta la figura, la postura e le sue mani, nell’atto di soppesare i due Angeli sui lances, rimandano, in ossequio alla giustizia distributiva, all’atto del proporzionare le loro azioni, e cioè di premiare un giusto, nella mano destra, e di punire un reo, nella mano sinistra. Altro aspetto peculiare di questa allegoria giottesca della giustizia – che, personificata come virtù in mezzo alle altre, ha ancora l’impronta della triade Ratio, Iustitia, Aequitas rievocata un secolo prima nelle sopracitate Quaestiones – è il richiamo alla Vergine Maria in quanto «ha la corona chiusa della Regina Coeli, il velo virginale e il manto della Mater Misericordiae, largo e lungo fino ai suoi piedi»45 ed è posta in una cappella tricuspidata, la stessa in cui l’artista collocherà, nel 1310, la Madonna d’Ognissanti degli Uffizi (Fig. 9). In ciò possiamo cogliere il tentativo giottesco di effettuare una trasposizione pittorica dell’alleanza di misericordia e giustizia così come eloquentemente descritta nel Decretum di Graziano: chi iuste iudicat
43 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 173.
44 Per un’approfondita interpretazione delle immagini e delle scritte negli affreschi della cappella degli Scrovegni, cfr. C. FRUGONI, Gli affreschi della Chiesa degli Scrovegni a Padova, Einaudi, Torino 2005.
«reca in mano una bilancia e porta nei due piatti giustizia e misericordia: la sentenza sarà pronunciata secondo giustizia, ma la pena sarà addolcita secondo misericordia»46.
Infine, è interessante guardare anche al fregio dipinto ai piedi del trono della Iustitia, in cui sono ritratte scene di caccia, fanciulle danzanti e cavalieri a cavallo che alludono all’armonia, alla pax e alla prosperità derivanti dalla giustizia; idea, quest’ultima, che è stata riproposta, corredata dallo stesso simbolo della bilancia, nei famosi affreschi dipinti da Lorenzetti tra il 1337 e il 1340 nella Sala del Consiglio dei Nove, ubicata all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, con l’intento di ispirare l’operato dei governanti cittadini che lì si riunivano. La Iustitia affrescata da Lorenzetti è quella del Buon Governo (Fig. 10), che si pone in antitesi con l’allegoria del Cattivo Governo, raffigurato dalla Tirannia47 in armatura, seduta in trono e reggente due simboli di disonestà: un pugnale e una coppa di veleno. Anche qui la giustizia rappresenta la virtù dell’aequitas, e ritroviamo inoltre la tradizionale composizione triadica, in cui però al posto della Ratio del Templum Iustitiae vi è «un suo sinonimo»48: la Sapientia che, sovrastando la giustizia in trono, la quale sopporta il peso dei piatti e li governa in modo equitativo, regge dall’alto il filo che fa da bilico alla bilancia.
Ancora una volta, in modo analogo all’impostazione di Giotto, sui lances sono collocati due Angeli che amministrano i due distinti
46 A. ALCIATI, Decretum Gratiani, Venetiis: apud Socios Aquilae Renouantis, 1605, I, 45, 10.
47 Il volto negativo del Buon Governo nell’affresco senese è infatti la Tirannia, sinonimo di sospetto, guerre, rapine, tradimenti e inganni. Sul punto di veda N. RUBINSTEIN, Political Ideas in Sienese Art: the frescoes by Ambrogio Lorenzetti and Taddeo di Bartolo in the Palazzo Pubblico, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, n. XXI, 1958, p. 184 ss. 48 E. H. KANTOROWICZ, I due corpi del re, cit., p. 97.
tipi di giustizia cui fa riferimento il libro V dell’Etica Nicomachea di Aristotele: a destra, quella commutativa, rappresentata dall’Angelo che consegna metri e misure49 ai cittadini affinché pratichino scambi e affari correttamente; a sinistra, quella distributiva in cui l’Angelo punisce un malvagio con la spada e onora con una corona un virtuoso. Il monito latino affrescato alle spalle della giustizia, tratto dal Liber sapientiae, che recita «amate la giustizia voi che governate la terra», è
un ulteriore riferimento biblico che caratterizza questa pittura di propaganda politica del Lorenzetti, la quale, da questo momento in poi, nel linguaggio della comunicazione per immagini considererà la giustizia come garanzia di una pacifica convivenza civile50.
Oltre a ciò, a completamento della composizione triadica, sottostante la Iustitia e unita ad essa da due corde che promanano dai piatti della bilancia, troviamo raffigurata la Concordia, la quale tiene sulle ginocchia una grande pialla, strumento utilizzato come metafora parificatrice e appianatrice delle controversie cittadine51. L’artista ritrae quindi la Concordia come figura simbolica in cui termina il buon equilibrio cittadino «al quale bada Domina Iustitia aggiustando aeque la bilancia»52. Si viene così a creare una composizione figurativa «a cascata»53, in cui la Sapienza tiene materialmente la bilancia e la
49 L’Angelo consegna una canna, strumento di misura lineare, e uno staio per pesare il grano e il sale. A tal proposito, cfr. in merito l’interpretazione di M. M. DONATO, Ancora sulle fonti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti: dubbi, precisazioni, anticipazioni, in Politica e cultura nelle Repubbliche italiane dal medioevo all’età moderna. Firenze, Genova, Lucca, Siena, Venezia, Atti del Convegno (Siena 1997), a cura di S. Adorni Braccesi e M. Ascheri, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 2001, p. 56 s.
50 Si veda A. PROSPERI, Giustizia bendata, cit., p. 27.
51 Cfr. ancora M. M. DONATO, Ancora sulle fonti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, cit., p. 58.
52 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 179. 53 Ibidem, p. 177.
giustizia la amministra, applicando la sua voluntas ai piatti per correggerli all’occorrenza con spirito di equità, sì da incarnare essa stessa la virtù dell’aequitas; infine vi è la Concordia, la quale non è altro che la diretta conseguenza della corretta amministrazione della giustizia. In altre parole, le figure risultano concatenate fra loro quasi a dimostrazione del fatto che, come le altre raffigurazioni della giustizia, «ogni idea rappresentata si intreccia alle altre, nessun valore si realizza se gli altri valori non operano»54.
Ma, in realtà, nell’affresco del Lorenzetti c’è una seconda giustizia (Fig. 11) più piccola di quella monumentale che troneggia dalla parte opposta. Ciò perché l’artista forse ha voluto ritrarre la figura «una volta come emanata dalla Sapienza divina, e un’altra come una delle virtù»55, o ancora, «come Iustitia mediatrix e come Iustitia vindicativa»56. Essa infatti è collocata fra le altre virtù cardinali – Pace, Fortezza, Prudenza e Magnanimità – e al di sotto delle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità –, sul medesimo lungo trono in cui campeggia il Bene Comune. Quest’ultimo, di cui parlava San Tommaso come «il fine delle azioni virtuose e della giustizia legale»57, è personificato in un vecchio in posizione di giudice, il quale impugna nella mano destra uno scettro che lo lega alla giustizia58. Tale
54 Ibidem, p. 179.
55 Come affermato in C. FRUGONI, Una lontana città: sentimenti e immagini nel medioevo, Einaudi, Torino 1983, p. 161.
56 A. ENZO, Un'icona del diritto: l'iconografia della giustizia, in Sentieri dell’umano. La domanda antropologica 2, Marcianum Press, Venezia 2007, p. 42.
57 M. Sbriccoli, La benda della giustizia, cit., p. 98.
58 La figura del grande vecchio è stata interpretata come la rappresentazione di un re, un magistrato comunale, una personificazione del buon governo, o del comune di Siena. Si veda in proposito N. RUBINSTEIN, Political Ideas in Sienese Art, cit., p. 181; Q. SKINNER, Ambrogio Lorenzetti: the artist as political philosopher, in “Intersezioni”, n. VII, 1987, p. 439 ss. Secondo
strumento, infatti, costituisce il simbolo in cui si sono trasfigurate le corde discendenti dai due lances, riunite poi dalla Concordia e, infine, passate ai ventiquattro magistrati comunali. Con tale raffigurazione si ritiene che Lorenzetti recuperi l’assunto dottrinale di San Tommaso d’Aquino in base al quale è la giustizia che ci dirige verso il Bene Comune.
Quest’ultima immagine della Iustititia, peraltro, è stata affrescata dall’artista senza l’attributo della bilancia, bensì, analogamente all’Angelo della giustizia distributiva, con una spada sguainata sulla testa mozzata di un giustiziato e, inoltre, con una corona (Fig. 12). Ecco che compare allora un altro degli attributi tipici dell’iconografia della giustizia: la spada, evidente simbolo di evocazione penale, sinonimo dell’imminente passaggio della Iustitia da mera virtù, garante del bene comune e dell’ordine sociale, a categoria politica ed etica che, da figura mediatrice, si sarebbe trasformata in «attrice primaria»59 dell’imposizione del diritto penale nella Respublica. Infatti, a partire dalla seconda metà del Duecento, la pratica giudiziaria e le teorizzazioni dei giuristi contribuiscono all'instaurazione nelle città di un ordine penale pubblico in cui il concetto di “peccato” assume le prime sembianze di quello di “reato”60 e, da un punto di vista etico e politico, si avverte la necessità che i reati non restino impuniti61. Assistiamo quindi alla costruzione di una dimensione giuridica nuova, in cui «il nuovo giudice, cessa di essere quest’ultimo autore si tratterebbe di una «symbolic representation of the type of signore or signoria a city needs to elect» (ibidem, p. 44).
59 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 170.
60 Cfr. P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna 2000, p. 169. 61 Si veda in proposito M. SBRICCOLI, Vidi communiter observari. L’emersione di un ordine penale pubblico nelle città italiane del secolo XIII, in “Quaderni fiorentini”, n. 27, 1998, p. 231 ss.
un arbitro per farsi accusatore e decisore, inquirente e giudicante» così come «la Giustizia non ha più molto da mediare tra cielo e terra e c’è da dubitare che resti ancora, nel senso antico, una virtù»62.
Il quadro ideologico di riferimento è quello mutuato dal diritto romano del ius gladii63, simbolo di potestas che, rivendicato dai poteri pubblici cittadini, viene così reso noto alla città per il tramite di una imago Iustitiae munita di spada64, funzionale a punire ma anche a dare riparo al perseguitato. Ne è un esempio rilevante quella affrescata da Raffaello nella volta della Stanza della Segnatura (Fig. 13), il luogo supremo dell’esercizio del potere giudiziario papale, in cui la giustizia, seduta su un trono di nubi e circondata da putti reggenti il motto «ius suum cuique tribuit» – «a ciascuno il suo diritto» –, oltre alla bilancia
nella mano sinistra, tiene sguainata la spada nella destra, volta più ad ammonire che non ad essere brandita come un’arma65. Ne deriva che la Iustitia raffaellesca può essere interpretata allo stesso tempo, da un lato, come virtù cardinale che punisce e difende e, dall’altro, come «personificazione che presiede agli studi di diritto»66; tanto più che, come già anticipato, l’affresco è collocato nella Stanza della Segnatura, la quale è interamente consacrata alle arti del sapere, divino, razionale e giuridico.
Ma quel che più conta nell’economia del nostro discorso è sottolineare come il visibile mutamento della rappresentazione iconografica della giustizia, che si ha a cavallo tra il XV e il XVI
62 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 171.
63 Il cosiddetto «diritto di spada», che nello stato feudale consisteva nel diritto riconosciuto al barone di infliggere la pena capitale.
64 Ibidem, p. 182.
65 Cfr. E. H. GOMBRICH, Immagini simboliche, Studi sull’arte del Rinascimento, tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1972, p. 121 ss.
secolo parallelamente alle prime fondazioni del concetto di Stato, non è solo caratterizzato dal nuovo attributo della spada, ma è spesso accompagnato anche dalla raffigurazione di una bilancia i cui piatti non sono in equilibrio (Fig.14), segno della consapevole asimmetria del potere giudiziario, che non è in grado di essere giusto dinanzi alle differenze di ceto presenti nella societas67.
1.4 Da Dίkes oftalmόs a giustizia bendata
Alla fine del Cinquecento compare un nuovo attributo simbolico nella raffigurazione della giustizia: la benda. Già intorno al 1593, Cesare Ripa nella sua Iconologia68 prende atto della presenza di caratteri discordanti nell’iconografia della Iustitia, suddividendo la relativa voce in paragrafi diversi: da un lato, la giustizia è «secondo che riferisce Aulo Gellio» una donna «con gl’occhi di acutissima vista, con un monile al collo, nel quale sia un’occhio scolpito» affinché «i ministri della Giustizia […] con acutissimo vedere, penetrino fino alla nascosta et occulta verità»; dall’altro, essa è una donna bendata vestita di bianco «perché il giudice dev’essere senza macchia di proprio interesse, o di altra passione, che possa deformar la giustizia, il che
67 I. BOIANO, Il maschile, il femminile e il satirico nell’iconografia giuridica, cit., p. 281.
68«Descrittione dell'imagini universali cavate dall'Antichità et da altri luoghi», un’opera «necessaria à Poeti, Pittori, et Scultori, per rappresentare le virtù, vitij, affetti et passioni humane», scritta sotto forma di enciclopedia, per descrivere e classificare in ordine alfabetico le personificazioni di concetti astratti, contraddistinte da attributi e colori simbolici; così egli stesso dice in C. RIPA, Iconologia, dall’edizione stampata «In Siena: appresso gli heredi di Matteo Florimi», 1613.
vien fatto tenendosi gli occhi bendati, cioè non guardando cosa alcuna della quale s’adopri per giudice il senso nemico alla ragione»69. Ne deriva che, oltre alla bilancia e alla spada finora esaminate, un’altra importante funzione simbolica da considerare è lo sguardo della giustizia, il quale, diversamente dall’occhio della Legge di cui sopra, ha radici ancor più remote.
Per gli antichi greci il legame tra la giustizia e l’occhio era innato, in quanto quest’ultimo, di per sé, raffigurava, come narrato da Diodoro Siculo, «il custode della giustizia»70. Occorre tuttavia rilevare che il simbolo greco dell’occhio della giustizia – Díkes oftalmós – fu introdotto nel IV secolo d.C. da Ammiano Marcellino per indicare la sua costante attività di vigilanza71; successivamente, nel linguaggio giuridico romano, fu utilizzato per designare il giudice serio e incorruttibile o, eventualmente, la sentenza giusta. Quest’ultima accezione si deve a Erasmo da Rotterdam, il quale, conoscitore della letteratura antica, nella sua Collectanea Adagiorum Veterum riserva un adagio proprio ai «iustitiae oculis id est Díkes oftalmós», indicandone la fonte nella Suda, la quale, attraverso una citazione di Crisippo tramandata da Aulo Gellio, attribuisce alla giustizia «occhi acuti, retti e immobili», poiché «chi deve giudicare secondo giustizia non può distogliere lo sguardo dall’onestà»72. A corollario di ciò, è
69 C. RIPA, Iconologia, cit., p. 294 s.
70 DIODORO SICULO, Biblioteca Historica, volgarizzata dal Cav. Compagnoni, tipografia di Gio. Battista Sonzogno, tomo II, Milano 1820, p. 11.
71 AMMIANO MARCELLINO, Rerum Gestarum, cfr. liber 28, 6, 25: «giacchè l’occhio sempiterno della Giustizia vigilò», o ancora ivi, liber 29, 2, 20: «vigilò attentamente l’occhio incorruttibile della Giustizia, arbitro e protettore sempiterno di tutte le cose».
72 ERASMO DA ROTTERDAM, Adagi, tr. it. di E. Lelli, Bompiani, Milano 2013, adagio n. 3011.
appena il caso di ricordare che era altresì noto il seguente detto proverbiale, probabilmente volto ad evocare il fatto che la decisione è giusta «se si fonda su una conoscenza che penetra la superficie delle cose e se corrisponde all’Aequitas» 73 : «tutto vede l’occhio dell’equità».
Alla luce di queste premesse, è evidente come la benda sugli occhi della giustizia costituisca un’immagine altamente contrastante con l’antico attributo della vista acutissima. Sull’argomento ha provveduto a far chiarezza lo storico del diritto Ernst von Möller, il quale nel 1905 ha scritto un breve saggio sulle origini dell’attributo della cecità. Egli fa coincidere l’atto di nascita della prima rappresentazione della giustizia bendata con l’incisione a stampa apparsa all’interno del poema satirico Narrenschift – la Nave dei folli – redatto dal giurista Sebastian Brant nel 1494 a Basilea74. Qui la figura femminile della giustizia, attribuita probabilmente alla mano artistica di Albrecht Dürer, oltre che con i consueti attributi della bilancia e della spada, è cieca, raffigurata con una benda postale sugli occhi da un pazzo riconoscibile dal berretto a sonagli (Fig. 15). Von Möller osserva come la cecità nell’opera di Brant sia non un attributo simbolico al pari della bilancia e della spada, bensì un fortuito
73 Cfr. M. STOLLEIS, L’occhio della Legge, cit., p. 46.
74 La Nave dei folli è, come scrive Michel Foucault nella sua Histoire de la folie à l’âge classique, una «creazione letteraria presa in prestito al vecchio ciclo degli Argonauti» in quanto, fra Quattrocento e Cinquecento, «è di moda immaginare queste navi il cui equipaggio di eroi immaginari, di modelli etici o di tipi sociali s’imbarca per un grande viaggio simbolico che fornisce loro, se non la fortuna, almeno la fisionomia del loro destino e della loro verità» (M. FOUCAULT, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1978, p. 20); l’opera infatti narra di un viaggio per nave verso l’immaginario paese della Follia e deride i vizi e le debolezze di chierici, laici, nobili e letterati, ma soprattutto di coloro che facevano parte del mondo professionale giuridico, poiché era a questo che Brant, cancelliere a Strasburgo, apparteneva.
accadimento negativo, quasi un ostacolo creato dalla follia umana, da eliminare strappando la benda dagli occhi della giustizia per restituirle il suo oculos rectos75; difatti «la follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo, e meschino ridicolo degli uomini»76.
Sulla base di quanto finora esposto, emerge allora che l’attributo della benda ha prevalentemente una connotazione negativa, costituendo un profondo ribaltamento di significato dell’universo simbolico dell’originaria mater iuris: si tratta di una provocazione cui fa ricorso chi progetta di alterare la natura stessa della giustizia, «allontanandola dalla tradizione per metterla, accecata e impotente, nelle mani di trasgressori che vogliono abusare della sua benignitas, e sotto il giogo di poteri nuovi che ne distorceranno la funzione»77. Talché la Iustitia, vittima del gesto beffardo del folle, è allo stesso tempo derisa e «corrupta» perché la benda «sfigura, toglie l’identità, induce ad una cecità che è anche metafora della perdita di senno»78; in altre parole, siamo dinanzi ad una giustizia impazzita, cieca, che non sa più distinguere il bene dal male e che, perciò, non ha più i tratti dell’aequitas.
È doveroso ricordare come anche in Italia, sebbene la benda non sia generalmente utilizzata come attributo della giustizia, vi sia stato, sebbene raro, un utilizzo di questo simbolo79. Si tratta del frontespizio degli Elementa iuris criminali (Fig.16), trattato di diritto penale scritto nel 1794 dall’avvocato e storico Filippo Maria Renazzi,
75 Cfr. E. VON MÖLLER, Die Augenbinde der Justitia, in “Zeitschrift für christliche kunst”, n. 4, col. 108-22, 1905, p. 141 ss. (tr. it. dell’A.).
76 M. FOUCAULT, Storia della follia nell’età classica, p. 26. 77 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 191. 78 Ibidem, p. 192.
in cui la vergine bendata calpesta la spada anziché impugnarla, e con la mano destra innalza una bilancia su cui sono posti, in un lances, un ramoscello d’ulivo e, nell’altro, un masso: il primo è più pesante del secondo, benché quest’ultimo rappresenti il peso della pena. Il significato dell’opera si comprende dallo sfondo, dove un cartiglio appoggiato su una colonna recita le seguenti parole: «Ne major poena quam culpa sit» – che la pena non sia maggiore della colpa – tratte dal
De Officiis ciceroniano.
Il Narrenschiff ebbe fin da subito un grande successo, tanto che molteplici furono le traduzioni e le ristampe; conseguentemente, l’immagine della giustizia bendata, di immediata comprensione e adatta a radicarsi rapidamente in senso comune, ebbe un’enorme circolazione soprattutto tra i ceti meno abbienti: i quali erano, con probabilità, altamente insoddisfatti dell’operato dei propri giudici, ritenendo «di non essere visti, di non essere considerati quanto i ceti più alti presenti nella gerarchia sociale del tempo»80.
Ad alimentare questa vena polemica nei confronti di una giustizia accecata dal suo stesso potere o dalla corruzione, si è registrata la diffusione, a scopo di denunzia morale, di almeno due altri tipi di immagini. Il primo raffigura la giustizia con un solo occhio coperto dalla benda, come nell’incisione del pittore satirico inglese William Hogarth (Fig. 17), in cui una vecchia donna grassa con l’occhio rimasto scoperto guarda ciò che, per essere imparziale, avrebbe al contrario dovuto ignorare, ossia la bilancia squilibrata dal peso di due sacchi di monete. Il secondo, invece, ritrae la giustizia che, come Giano bifronte, ha due volti, l’uno bendato e l’altro no. Questa seconda
rappresentazione è stata interpretata da E. Panofsky81 come riferibile all’utrumque ius – l’uno e l’altro diritto –: espressione che, per la dottrina e la giurisprudenza medievale, designava la correlazione tra diritto civile e canonico, entrambi considerati ordinamenti universali poiché espressione di due supremi poteri (quello del princeps e quello papale), sull’unione dei quali si reggeva il sistema del diritto comune. È al giurista belga Joost de Damhouder che si attribuisce l’invenzione di quest’ultima variante dell’attributo della benda. Nella sua opera principale – Praxis rerum criminalium, manuale sulla pratica del diritto penale accompagnata da illustrazioni xilografiche di vari crimini e procedure –, si mostra un tribunale cittadino dove, in primo piano, un giudice assopito – così come il cane dietro di lui, simbolo dell’accidia peccaminosa, cioè del rifiuto di operare per il bene82 – è ai piedi di un trono su cui si erge la giustizia bifronte (Fig.18) con i consueti attributi della spada e della bilancia. Una faccia, bendata, guarda verso un gruppo di persone indigenti, mentre l’altra, non bendata, rivolge il suo sguardo verso alcuni soggetti benestanti che esibiscono sacchi ricolmi di monete. Questa giustizia è quindi ingiusta con i poveri e giusta con i ricchi.
Un ultimo sviluppo di questi simbolismi della benda, sposta l’attenzione, o meglio, l’obiettivo polemico, da una follia esterna alla giustizia ad una che invece è insita nei giudici stessi. Così è nella stampa della raccolta di norme penali di Bamberga – la Constitutio
81 A. PROSPERI, Giustizia bendata, cit., p. 34.
82 Cfr. R. KLIBANSKI, E. PANOFSKY, F. SAXI, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, tr. it. di E. Federici, Einaudi, Torino 1983, p. 302.
penalis Bambergensis83 – dove, fin dalla prima edizione del 1507, troviamo la raffigurazione di un tribunale in cui tutti i giudici hanno una benda ad occultare la vista ed un copricapo a sonagli in segno di follia (Fig. 19); al di sopra un’iscrizione chiarisce che «giudicare sulla base di cattive consuetudini contrastanti il diritto è la vita di questi ciechi folli». Per meglio comprendere il significato di tale rappresentazione, ricordiamo che la Costituzione penale di Bamberga – detta poi Mater Carolinae – dava avvio ad una radicale riforma penale, il cui obiettivo consisteva nel promuovere una legge penale ispirata al diritto comune e atta a soppiantare le consuetudini punitive e processuali di quelle regioni della Franconia; presto, infatti, un processo inquisitorio rigidamente strutturato avrebbe preso il posto di prassi miste ampiamente negoziabili e «gli antichi scabini, giudici indigeni e senza troppa scienza, sarebbero stati rimpiazzati da giudici formati sul diritto romano»84. La follia e l’accecamento dei giudici ritratti nella xilografia, dunque, è da intendersi come la loro ostinazione nel voler continuare ad amministrare la giustizia secondo norme consuetudinarie contrastanti con il vero diritto; tal che la benda, ancora una volta connotata negativamente, è simbolicamente derisoria di una cecità rientrante «nella sfera semantica dell’ignoranza e della dissennatezza»85.
83 Si tratta di un codice di diritto e procedura penale promulgato da Giorgio III, Principe Vescovo di Bamberga, sulla base del codice penale compilato da Giovanni di Schwarzenberg; costituisce il primo esito normativo a seguito della fallace Dieta di Worms del 1495 e della Wormser Reformation del 1498 voluta da Massimiliano I di Asburgo.
84 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 193. 85 Ibidem, p. 194.
CAPITOLO 2
ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
2.1 Bilancia, spada e benda: una variazione di significato
È indubbio che il linguaggio simbolico proceda di pari passo con la storia, accompagnandola nei mutamenti sociali e adattandosi ad essi tramite la sua capacità creativa di originare nuovi disegni e significati semiotici esplicativi delle realtà in divenire. Così, la precedente iconografia simbolica della giustizia – la spada della punizione, la bilancia dei meriti e delle colpe e la benda della cecità – ha subito ulteriori cambiamenti: in particolare, tra il Seicento e il Settecento, complice il propagarsi del pensiero illuminista.
Un cambiamento ha come protagonista la spada la quale, nell’esprimere la forza e il potere sanzionatorio della figura femminile, palesa anche una realtà evidente: esso è un odioso strumento di minaccia e oppressione, che colpisce le classi povere tenute ai margini della società. In proposito sono sintomatici i versi della Favola delle api, poemetto satirico di Bernard Mandeville:
«[…] tuttavia si pensava che la spada che essa - la Giustizia - reggeva colpisse solamente i disperati e i poveri
che, pressati dalla dura necessità, venivano appesi all’albero dell’infamia, non per delitti che meritassero quella sorte,
ma per dar sicurezza al ricco e al potente»86.
Un esempio ancor più importante è il lavoro portato a termine da Pietro Verri e Cesare Beccaria nel riformare il sistema dei delitti e delle pene in Italia. Nella lettera che Beccaria scrive a Pietro Verri per accompagnare «le aggiunte e le correzioni» fatte sino a quel momento, egli invita l’amico ad «avvertire Aubert […] che col restante delle correzioni» avrebbe inviato «lo schizzo disegnato per il rame del frontispizio»87. Così, nell’edizione livornese del 1765 del suo celebre saggio Dei delitti e delle pene, troviamo raffigurata nel frontespizio la giustizia seduta in trono (Fig.20) che, senza bilancia e spada, distogliendo lo sguardo, respinge inorridita con le mani le teste mozze di condannati alla pena capitale che il boia le offre, ancora grondanti di sangue, tenendole in alto per sottolineare il valore pubblico della sua azione. Gli occhi della donna si volgono inoltre verso alcune catene rappresentate insieme a strumenti di lavoro – una pala, un maglio e una grande sega – ai suoi piedi «ad indicare un’alternativa concreta al triste rito appena eseguito»88; tanto più che la bilancia è posta accanto a questi ultimi e pendente verso di loro «quasi a dire, appunto, che quelli sono il vero simbolo della giustizia»89. Abbiamo quindi una Iustitia raffigurata senza spada, a segno del suo assoluto rifiuto di una pena basata sulla vendetta e sull’afflizione, poiché questo era stato, fino ad allora, il messaggio veicolato dal simbolo posto nelle
86 B. MANDEVILLE, The fable of the bees: or private vices, public benefits, tr. it. di C. Parlato Valenziano, Boringhieri, Torino 1961, p. 26.
87 La lettera si può leggere in P. VILLARI, Le Opere di Cesare Beccaria, precedute da un discorso sulla vita e le opere dell’autore, Le Monnier, Firenze 1854, p. 551.
88 G. PALUMBO, Le porte della storia. L’età moderna attraverso antiporte e frontespizi figurati, Viella, Roma 2012, p. 384.
sue mani: «era stato coi patiboli e con le teste mozzate che il potere politico aveva garantito l’offerta della sicurezza alla popolazione»90.
Come è noto, l’opera di Beccaria ebbe circolazione e successo ove il dibattito illuminista era più forte e seguito91 per la sua proposta di abolizione non solo della tortura e delle pene crudeli ma della stessa pena di morte; con essa anche l’immagine ivi contenuta della giustizia sprovvista di spada iniziò a diffondersi sempre di più, suscitando anche reazioni avverse, atte a disconoscere il nuovo valore simbolico che la raffigurazione portava in sé. Ne è un esempio l’immagine della giustizia illustrata nel saggio92 di Francescantonio Pescatore (Fig. 21), che torna nuovamente ad essere armata di una spada resa luminosa sia da una piccola lucerna, sia dai raggi del sole che sorge alle spalle del trono su cui siede. Il significato al quale si allude è inciso nella pietra che orna il trono stesso: «Non sine causa gladium portat» - “non senza causa porta la spada”.
Un altro simbolo che ha subito una mutazione è quello della bilancia. Come abbiamo visto, nella sua originaria connotazione essa era ritratta nell’atto di soppesare qualcosa oppure, in palese squilibrio, per esplicitare la dicotomia tra il giusto e il cattivo, il bene e il male. In seguito, invece, i due lances vuoti e perfettamente allineati, vettori dell’equilibrio, furono utilizzati per esprimere l’uguaglianza e, dunque, la necessità che la giustizia, virtù dell’aequitas, fosse amministrata in modo eguale, paritario, senza distinguere ricchi e
90 A. PROSPERI, Giustizia bendata, cit., p. 211.
91 Successo favorito anche dal commento al libro di Beccaria espresso da Voltaire, il più celebre intellettuale illuminista del tempo. In proposito si veda VOLTAIRE, Commentario intorno al libro Dei delitti e delle pene, in Scritti politici, a cura di R. Fubini, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino 1964, p. 607 s.
92 F. PESCATORE, Saggio intorno diverse opinioni di alcuni moderni politici sopra i delitti e le pene, presso Giammichele Briolo, Torino 1780.
potenti da poveri e sconosciuti. Con ciò la bilancia dismette il duplice compito distributivo e retributivo consistente nell’assegnare a ciascuno il suo – come nella giustizia raffaellesca sopra esaminata – sulla base dei meriti e delle colpe del singolo, mentre i suoi diritti e obblighi rimanevano ancorati ad un contesto sociale medievale permeato da differenze fondate e insuperabili. D’ora in poi sarà invece preordinata a garantire «l’imperturbata e serena applicazione di un codice interno a colei che impugnava la bilancia: la Legge»93, conformemente alla nascente concezione illuminista per cui le pene avrebbero dovuto essere uguali per tutti e regolate dal principio impersonale della proporzione tra delitto e sanzione94.
Intanto, nei secoli precedenti anche il simbolo della benda ha avuto un mutamento di significato, passando da negativo a positivo. Così ha fatto l’edizione della Wormser Reformation – la Costituzione penale di Worms – pubblicata da Christian Egenholf a Francoforte nel 1531 95 . In quest’opera, l’incisione riccamente decorata del frontespizio (Fig.22) raffigura l’immagine di una giustizia bendata in posizione dominante, perché in pedi sopra un basamento, al di sotto del quale tre donne con in braccio altrettanti neonati appaiono sorridenti sotto la sua protezione; essa reca anche i simboli della spada e della bilancia, quest’ultima dai piatti in perfetto equilibrio, a simboleggiare la neutralità della sua posizione, indifferente alla ricchezza o alla povertà dei due personaggi posti ai lati,
93 A. PROSPERI, Giustizia bendata, cit., p. 220.
94 L’affermazione più solenne del principio della proporzionalità è fornita dalla Rivoluzione francese, più precisamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793, in cui all’articolo 15 si legge che «la legge deve stabilire soltanto pene strettamente necessarie; le pene debbono essere proporzionali al delitto e utili alla società».
95 Cfr. E. PANOFSKY, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del rinascimento, Einaudi, Torino 1975, p. 151.
rispettivamente un sovrano sulla sinistra e un contadino sulla destra. Con ciò la benda è posta a garanzia dell’imparzialità del giudice, affinché ogni individuo sappia che «la nuova Giustizia penale non vi guarda più, non vi riconosce, quindi non saprà chi siete quando verrete in giudizio»96. Tale passaggio da segno di accecamento – ostacolo imposto da altri allo sguardo della giustizia – ad attributo nobilitante – liberamente assunto e orgogliosamente esibito, emblema dell’imparzialità di un potere superiore –, è legato ad un innovativo avvenimento istituzionale dell’epoca: «il rafforzamento dello Stato come organizzazione accentrata del potere politico e giuridico»97.
Si assiste, perciò, all’affermazione del potere di giudicare come prerogativa esclusiva dell’autorità centrale dello Stato e al passaggio dalle consuetudini processuali locali al diritto comune. E ciò fa capo a un preciso momento di svolta nello sviluppo del diritto in Germania, ovvero all’imposizione, grazie anche alla diffusione dell’Umanesimo, di un diritto penale scritto – sul modello della Costituzione Criminale Carolina98 – al posto delle forme tradizionali di giustizia consuetudinaria.
Si diffonde quindi una nuova concezione del diritto, il quale ha ora la capacità di sottrarre «il giudice alla rete delle relazioni sociali dei luoghi e alla corruzione che ne conseguiva»99; ecco che, in un
96 M. SBRICCOLI, La benda della giustizia, cit., p. 195. 97 T. GRECO, Senza benda né spada, cit., p. 112.
98 Promulgata dall’imperatore Carlo V nel 1532 in Germania, questa compilazione di diritto penale aveva lo scopo di uniformare, sulla base del diritto romano e canonico, il diritto penale nell’Impero, anche se venne recepita anche oltre i confini territoriali dello stesso, soprattutto in aree che in passato erano state imperiali. Si veda in proposito M. Sbriccoli, La benda della giustizia, cit., p. 194, n. 109.