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I primi dubbi sulla costituzionalità della disciplina in esame

Citando Monteleone89

:“Una lunga esperienza pratica ci dice che i tentativi di conciliazione, o di mediazione, sia preventivi che successivi, sia volontari sia forzosi perché imposti a pena di improcedibilità, non hanno mai sortito l'effetto sperato di sfoltire i ruoli giudiziari e diminuire il numero delle liti. Già G. Pisanelli nella sua relazione al Libro I del Codice di Procedura civile del 1865 osservava: “ la conciliazione delle parti è un'idea che ha molte attrattive, ma conviene non esagerarla, e molto più ancora non forzarla: allora perde ogni pregio e si corre il pericolo di riuscire ad un fine opposto. Quando lo sperimento della conciliazione si volle rendere obbligatorio, come preliminare necessario del giudizio, non corrispose alle aspettative e degenerò in una vana formalità.”. L'autorità dell'insigne studioso e uomo politico, tra gli artefici del Risorgimento nazionale, basterebbe da sola a liquidare la questione. Ma l'ammirevole ostinazione del nostro attuale legislatore, incurante dell'esperienza concreta e delle lezioni della storia, non ha mancato di darci ulteriore e ben più vicina prova sperimentale della esattezza dell'osservazione di Pisanelli.” Secondo Monteleone anche l'introduzione del tentativo obbligatorio nelle cause di lavoro ha dimostrato, nella pratica, di non averne diminuito il numero e anzi di aver introdotto solamente lungaggini e complicazioni, utili solo ad uno spreco ulteriore di tempo. L'autore si chiede perché l'esperienza di secoli dovrebbe oggi mutare, per quali ragioni dovrebbe avere successo la nuova legge sulla mediazione obbligatoria.

Ora come già sappiamo, la legge delega 69/2009, all'art. 60, disponeva, nell'individuare i principi e i criteri direttivi che il Governo avrebbe dovuto seguire nell'emanare una regolamentazione della mediazione civile e commerciale, che questa non dovesse (comunque) precludere

l'accesso alla giustizia. La legge delega pertanto nulla prevedeva circa l'obbligatorietà o meno del procedimento di mediazione e non ha previsto espressamente che questo dovesse costituire condizione di procedibilità per potere adire il giudice ordinario. Il meccanismo introdotto dal decreto legislativo emanato dal Governo, ha invece stabilito che, per una serie di materie tassative, il procedimento di mediazione sia da esperire obbligatoriamente, e, qualora questo venga omesso, entro la prima udienza sarà possibile per il convenuto che sollevi la relativa eccezione, o anche per il giudice d'ufficio, rilevarne il mancato espletamento. In forza di questa previsione, per le materie tassativamente elencate all'art. 5, le parti potranno usufruire della tutela giurisdizionale, solo dopo essersi presentate al tavolo della mediazione. La disciplina, così come delineata, decreta però la mera improcedibilità della domanda, così da arrestare al massimo per quattro mesi il processo davanti all'Autorità giudiziaria, che poi si avvierà in ogni caso alla decisione nel merito, qualora la mediazione non dovesse avere esito positivo. Questo poiché a differenza della condizione di proponibilità della domanda giudiziale, che, in caso di mancato avveramento, comporta la decadenza dell'azione giudiziaria, determinando la necessaria e immediata chiusura del processo con sentenza di rito, il non verificarsi della condizione di procedibilità determina unicamente un interruzione momentanea del processo. Poiché la Corte Costituzionale, in passato aveva avuto modo di chiarire che la tutela giurisdizionale è garantita dalla Costituzione, “ma non nel senso che si imponga una sua relazione di immediatezza con il sorgere del diritto”, la disciplina del decreto legislativo sembra, sotto questo profilo, rispettosa dei dettami costituzionali. Conclusione che si apprezza anche alla luce del fine perseguito dal legislatore, che ha inteso realizzare l'interesse generale di abbattere il carico di lavoro degli uffici giudiziari, garantendo così un più efficiente funzionamento

della nostra macchina della giustizia.

Oltre che con riguardo al diritto di difesa in giudizio, la disciplina che abbiamo analizzato fin'ora, risulta di dubbia costituzionalità anche sotto il profilo del rispetto del principio della ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 comma secondo della Costituzione. Secondo quanto previsto dal Governo, il procedimento di mediazione obbligatoria, qualunque sia il suo esito, non deve superare il termine di quattro mesi. Il problema non sorge dalla previsione dei (soli) quattro mesi entro cui il procedimento dovrà concludersi, che non configurano un termine incongruo o irragionevole, anche nell'ottica più generale della durata media dei processi italiani, ma dal fatto che il legislatore non ha introdotto differenze tra la domanda che introduce il giudizio e altre domande che possono essere proposte nel corso del processo. Il rischio che consegue alla mancata specificazione, da parte del legislatore, che la fase obbligatoria di mediazione sussiste solo con riguardo alla domanda principale, ovvero quella che fa nascere il processo, è quello che l'esperimento del procedimento di mediazione sia ritenuto essere condizione di procedibilità per ogni singola azione, ogni singola domanda giudiziale. In forza della lettera della norma, sarebbe pertanto necessario esperire nuovi tentativi di conciliazione in una serie consistente di ipotesi: in caso di domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, nel caso della reconventio reconventionis proposta dall'attore, in caso di chiamata del terzo, nel caso di domanda proposta da chi ponga in essere un intervento volontario principale o litisconsortile, in ipotesi di litisconsorzio necessario, purché che tali domande siano rituali e tempestive. Il risultato finale rischierebbe di portare non solo a una frammentazione continua dell'iter processuale, interrotto ogni volta per l'espletamento dei nuovi tentativi di conciliazione, ma anche un allungamento dei tempi processuali difficilmente sostenibile e di certo non in linea con il principio della

ragionevole durata del processo.

Sul tema si è espresso Dittrich, a parere del quale ai sensi dell'art. 5, quando si tratta di materie soggette al tentativo obbligatorio di conciliazione, l'espletamento del procedimento di mediazione dovrebbe essere necessario ogni volta che venga introdotta una nuova domanda. Da un'interpretazione della norma in questi termini, derivano conseguenze incostituzionali, incompatibili con il principio per cui il processo deve svolgersi in una durata congrua e ragionevole, che garantisca l'effettiva tutela dei diritti del cittadino. L'unica possibilità per ritenere la norma allineata con i dettami della nostra Costituzione, sembra essere allora quella di ritenere che il tentativo obbligatorio di mediazione configuri condizione di procedibilità unicamente della domanda giudiziale che dà avvio al processo, mentre tutte le altre domande che possono essere proposte successivamente in corso di causa, non siano soggette a tale onere. L'alternativa, drastica, sarebbe infatti la necessaria dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 5.

Un'altra questione importante, sulla quale parecchi autori in dottrina hanno insistito, riguarda la compatibilità dei costi della mediazione con le garanzie previste dalla nostra Costituzione. In maniera indiretta infatti, la previsione di un procedimento di mediazione obbligatoria, può influire sulla decisione della parte di esercitare il diritto di azione. Come abbiamo avuto modo di conoscere, sono le parti stesse a dover sopportare le spese di avvio del procedimento e di mediazione, un onere economico fatto gravare sugli stessi fruitori del servizio, che potrebbe rivelarsi particolarmente gravoso nel caso di cumulo successivo di domande, cui dovrebbero seguire sempre nuovi tentativi di mediazione. Ancora più irragionevole appare la previsione per cui la spesa di mediazione verrà ridotta di un terzo, nel caso in cui nessuna delle parti chiamate al procedimento di mediazione si presenti per parteciparvi. Come è possibile che le parti debbano sostenere un costo

economico anche laddove la procedura non venga effettivamente svolta? In assenza di controparti il mediatore non potrà certo procedere ad eseguire il proprio compito! La disciplina risulta sul punto chiaramente irragionevole e in contrasto con l'art. 24 della Costituzione.

Un ulteriore profilo discusso della disciplina in esame riguarda la posizione del convenuto nella fase della mediazione. E' noto che la scelta della parte di non partecipare al procedimento di mediazione, senza addurre un giustificato motivo, non è priva di conseguenze per la stessa: il giudice del successivo giudizio sarà infatti abilitato a trarre dal suo comportamento argomenti di prova ai sensi dell'art. 116 comma secondo c.p.c. L'eventuale inattività dei soggetti viene sanzionata con il fine di incentivare le parti a partecipare al procedimento di mediazione, ma questa previsione si pone in contrasto con i principi generali del nostro ordinamento giuridico. Nel nostro modello processuale, il comportamento della parte che decida volontariamente di non partecipare al giudizio, è considerato un comportamento neutro che non comporta conseguenze negative per la parte che decida di non costituirsi in giudizio. La contumacia, nel nostro sistema giuridico, non comporta un aggravio della posizione della parte che rimane inerte. Certo, in altri ordinamenti i legislatori hanno previsto conseguenze anche dure a fronte del deliberato disinteresse delle parti a partecipare a un processo che le veda direttamente coinvolte, ma in Italia il diritto di difesa viene garantito anche sotto l'aspetto, forse discutibile, della contumacia. Il rifiuto di partecipare al giudizio del contumace, non determina pertanto in capo allo stesso il verificarsi di alcuna conseguenza sfavorevole, mentre il rifiuto, ingiustificato, di partecipare alla mediazione determina la possibilità del giudice di rilevare elementi che nella decisione della causa potrebbero risultare determinanti. La contumacia nel processo di

mediazione potrebbe pertanto comportare conseguenze decisive. Il legislatore tratta peggio la contumacia nel procedimento di mediazione che non quella nel giudizio ordinario. E' infatti illogico che il giudice sia abilitato a trarre argomenti di prova dall'omessa partecipazione alla mediazione, ma non possa fare lo stesso nel caso la parte sia contumace nel processo seguente, davanti al giudice, che invece viene tutelata per legge da una serie di garanzie che rendono irrilevante il rifiuto della parte di collaborare alla soluzione della lite90

. La norma poi non si riferisce solo alla mediazione obbligatoria, ma anche al caso in cui le parti si siano rivolte al mediatore spontaneamente, situazione nella quale non dovrebbe gravare sulle parti un dovere di partecipazione. Oltre a ciò non si capisce quale risvolto probatorio il giudice dovrebbe trarre dalla decisione della parte di non presentarsi al tavolo della mediazione. Il risultato è paradossale: viene considerato più deplorevole il comportamento processuale della parte che rifiuti di partecipare alla mediazione, (che dimostra unicamente la mancanza di una sua volontà conciliativa), del contegno della parte che rifiuti di partecipare al processo.

Oltre a ciò, la previsione, per come è tracciata, fa si che si dia rilevanza a un comportamento extraprocessuale all'interno del processo: fatti che attengono al procedimento di mediazione, che sono quindi per definizione esterni al giudizio, possono incidere sull'esito dello stesso. Questa conseguenza determina necessariamente che le garanzie costituzionali previste per il processo di fronte al giudice, tra cui la garanzia della difesa e della parità delle armi delle parti processuali, operino pienamente anche all'interno del procedimento di media- conciliazione.

Un altro sospetto di incostituzionalità deriva dalla scelta legislativa di non prevedere criteri territoriali per l' individuazione dell'Organismo di

mediazione competente. La scelta dell'Organismo cui le parti dovranno fare riferimento per svolgere il tentativo di mediazione, è, come sappiamo, lasciata alla discrezione della parte che deposita l'istanza di mediazione. Il legislatore, non avendo stabilito criteri che radicassero la competenza, non ha nemmeno previsto strumenti che permettessero di contestare la scelta della parte che agisce, che potrà presentare l'istanza di mediazione davanti a un qualunque Organismo che si trovi sul territorio nazionale.. Questo significa che, ove l'attore individuasse un Organismo sito in una località distante dal luogo di residenza dell'altra parte, questa sarà costretta a sostenere le spese degli spostamenti ed eventualmente anche a rinunciare al proprio legittimo diritto di partecipare al procedimento di mediazione. Questa lacuna normativa ha l'effetto pertanto di creare una situazione di asimmetria evidente tra le posizioni delle parti, quando il principio da seguire dovrebbe essere quello della parità delle armi. Il diritto del convenuto di partecipare agevolmente al procedimento di mediazione dovrebbe prevalere sull'esigenza di garantire all'attore la possibilità di scegliere un Organismo, tra quelli presenti sul territorio nazionale, che questi ritenga maggiormente efficiente. D'altro canto, la previsione della clausola per cui la parte potrà addurre giustificato motivo nel caso di omessa partecipazione al procedimento, (il giustificato motivo potrebbe certo consistere nella distanza rilevante che separa l'organismo di conciliazione dal luogo in cui la parte convenuta risiede), non è in grado di compensare la totale libertà dell'attore di scegliere l'Organismo di mediazione e di riequilibrare le posizioni processali delle parti. Questa considerazione deriva dal fatto che la valutazione circa la ricorrenza o meno del giustificato motivo, è lasciata al giudice caso per caso. Il concetto di “giustificato motivo” è un concetto giuridico indeterminato, che saranno i giudici a dover interpretare prima e applicare poi, creando una casistica sulla base

della quale sarà più agevole ricostruire l'ambito di operatività della clausola di salvezza. Il giudice dovrà pertanto accertare nella situazione specifica quali sono le disponibilità economiche e di spostamento del convenuto, dando così rilievo ad elementi che sono del tutto estranei all'oggetto della causa, ma che potranno incidere, anche in maniera rilevante, sulla decisione della stessa.

Occorre ora svolgere alcune considerazioni circa la costituzionalità del regime delle spese di mediazione, regolato dall'art. 13 del decreto lgs. 28/2010. La norma in questione prevede una condanna al pagamento delle spese processuali irrogata alla parte che abbia rifiutato una proposta conciliativa dal contenuto identico al provvedimento del giudice reso al termine del processo, anche in deroga al regime ordinario della soccombenza. La norma, per formulazione, ricorda l'art. 91 c.p.c., ai sensi del quale il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore alla eventuale proposta conciliativa precedentemente presentata, condanna la parte che ha, senza giustificato motivo, rifiutato la proposta, al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta. La ratio della norma, del tutto condivisibile, è sempre quella di indurre le parti a raggiungere un accordo sulla controversia prima di rivolgersi per questo al giudice, ma la soluzione proposta non convince. La parte subisce infatti una condanna alle spese, unicamente per il fatto di aver rifiutato una proposta conciliativa che riteneva non conforme alle proprie aspettative, e per aver successivamente dato avvio ad un processo ordinario, esercitando i diritti di difesa che gli vengono riconosciuti dalla nostra Costituzione. La prospettiva della condanna al pagamento delle spese ha allora l'effetto di spingere la parte ad accettare una proposta di conciliazione che magari non ritiene

conveniente, che non soddisfa le sue esigenze. Peraltro, confrontando l'art. 13 del decreto legislativo in esame con l'art 91 c.p.c., emergono almeno due differenze sostanziali:

Innanzitutto l'articolo 91 c.p.c., prevede, in caso di accoglimento della domanda in misura non superiore alla proposta conciliativa, una condanna per la parte che abbia rifiutato la proposta senza giustificato motivo. L'articolo 13 invece non prevede una clausola di salvezza in questi termini e da ciò discende che l'esistenza di un giustificato motivo per il rifiuto della proposta di conciliazione è irrilevante nella fase di mediazione e non servirà ad evitare la condanna.

In secondo luogo l'articolo 13, in caso di rifiuto della proposta del mediatore che abbia gli stessi contenuti della sentenza del giudice, condanna la parte oltre che al pagamento delle spese processuali, al versamento a favore dello Stato di un'ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per quel giudizio. Abbiamo osservato come questa previsione abbia la natura di una vera e propria sanzione, posta a carico di un soggetto a favore dello Stato, a seguito di un suo comportamento processuale (pienamente legittimo), volto a richiedere una pronuncia giurisdizionale su una situazione di conflitto. La compressione del diritto di difesa, tutelato all'art. 24 Cost., sembra essere allora evidente e ingiustificato, in quanto non appare appropriato, al fine di rendere maggiormente efficiente il sistema giustizia, considerare la richiesta di avvio di un procedimento giurisdizionale come un comportamento da punire tramite una sanzione dovuta allo Stato.

3.9 Ulteriori dubbi sulla compatibilità costituzionale e comunitaria della