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La sentenza n 276/2000

Il più significativo intervento della Corte Costituzionale sul punto consiste sicuramente nella sentenza n.276/2000, nella quale la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 410, 410-bis e 412-bis del codice di procedura civile, come modificati, aggiunti o sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del decreto legislativo n.80/1998. La Corte ha così promosso il modello delineato dal legislatore del lavoro in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione, ritenendolo conforme alla Costituzione, e, in particolare, non lesivo del diritto di azione tutelato all’articolo 24. Innanzitutto era stata sollevata questione di legittimità costituzionale in ordine agli articoli 410, 410-bis e 412-bis c.p.c., con riguardo all’articolo 76 della Costituzione, per eccesso di delega rispetto all’art.11 comma 4, lett. g), della legge n.59/1997. I ricorrenti sostenevano infatti che, poiché la legge delega non prevedeva l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, il legislatore delegato non avrebbe potuto conferire tale carattere all’istituto, e, conseguentemente, collegare all’omesso esperimento, la sanzione dell’improcedibilità. Abbiamo già visto come la dottrina, pur criticando sotto il profilo dell’opportunità la scelta del legislatore, fosse concorde nel ritenere una tale ricostruzione erronea. Anche la Corte ha ritenuto non fondata la questione. Per cominciare la Corte ricorda quali sono i criteri da seguire al fine di stabilire la conformità della normativa delegata alla legge delega. Innanzitutto occorre procedere all’interpretazione delle norme della legge delega che stabiliscono i principi e criteri direttivi che dovranno guidare l’azione del legislatore delegato e questi vanno letti tenendo conto del contesto normativo in cui si inseriscono e delle finalità che ispirano la legge delega. In seguito si devono esaminare le disposizioni contenute

nella normativa delegata, sempre considerando che i principi e criteri direttivi sanciti dal legislatore delegante non fungono solo da guida e da limite all’opera del legislatore delegato, ma che servono anche da criterio di interpretazione per le disposizioni da questi emanate. Tali disposizioni, infatti, per quanto possibile, vanno interpretate nel loro significato compatibile con i principi della legge delega. A partire da queste premesse la Corte ha sottolineato come la legge delega n.59/1997, faccia parte di un più ampio disegno di riforma della Pubblica Amministrazione, con innovazioni anche sul riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. In particolare, l’articolo 11 comma 4, lett, g) prevedeva la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro “privatizzati” dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e la previsione di misure organizzative e processuali atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso, nonché di procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato. Nel quadro di tale riforma la Corte ha osservato come il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria delle controversie suddette, costituisse l’occasione e la giustificazione per l'adozione delle misure indicate dalla stessa legge delega. In particolare, la predisposizione di misure e strumenti atti ad agevolare una soluzione stragiudiziale delle controversie, è un momento cruciale per la riuscita della riforma, a causa del sovraccarico di lavoro che il giudice ordinario era destinato a subire. E’ vero, sostiene la Corte, che la lettera della legge delega del 1997 , riferendosi a “procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato”, non menziona il predicato dell’obbligatorietà. Tuttavia quando la delega venne conferita, l’art. 410 c.p.c. già prevedeva un tentativo di conciliazione, anche se solo facoltativo, per le controversie dell’art. 409 c.p.c., mentre addirittura l’art.69 del decreto legislativo n.29/1993 prevedeva un tentativo obbligatorio di conciliazione per le

controversie relative al pubblico impiego privatizzato. In tale contesto la Corte ha escluso che la delega non consentisse al legislatore di introdurre l’obbligatorietà. Infatti è da ritenere che “prevedere procedure stragiudiziali di conciliazione” equivalga a “istituirle”, se non ancora previste, o a modificarne la disciplina se eventualmente già vigenti. Sulla base di tali considerazioni la Corte ha ritenuto quindi l’introduzione del tentativo obbligatorio rispettoso della legge delega. La questione di costituzionalità della normativa in esame, era stata posta dal giudice a quo anche con riguardo agli articoli 3 e 24 della Costituzione. Con riguardo all’articolo 24, le censure sollevate erano molteplici. In primo luogo si sosteneva che la normativa avrebbe limitato il diritto di azione, poiché le precedenti esperienze dimostravano che l’istituto del tentativo obbligatorio si concretizzava solo in un ostacolo inutile allo svolgimento della giurisdizione e non invece in un filtro alla domanda giudiziale. La Corte ha respinto questa prima censura, innanzitutto rilevando che la valutazione dei limiti della concreta attuazione della legge compete alla Pubblica Amministrazione, mentre il legislatore ha il compito di apprestare modifiche che eventualmente l’esperienza riveli idonee. Infatti poiché l’art. 24 della costituzione garantisce una tutela giurisdizionale “effettiva”, l’inefficienza della disciplina può determinare una violazione della norma costituzionale solo se deriva direttamente dalla legge e non dalle modalità della sua applicazione pratica. A parere del giudice a quo inoltre, la normativa in esame lederebbe l’articolo 24, anche perché ritarderebbe l’esercizio dell’azione e farebbe sorgere delle questioni processuali, in particolare l’improcedibilità della domanda e l’estinzione del giudizio per mancata riassunzione nei termini, contrarie alla finalità perseguita dalla disciplina stessa. Anche queste censure sono state però rigettate dalla Corte. La stessa giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale ha infatti

considerato legittimi eventuali impedimenti all’esercizio immediato del diritto di azione, in quanto rispettosi di due condizioni:

1) la legge può imporre oneri finalizzati a salvaguardare interessi generali se tutelati all’interno di norme dello stesso rango di quella che tutela il diritto di azione;

2) le procedure imposte dal legislatore non devono rendere eccessivamente gravoso il ricorso alla giurisdizione ordinaria.

Il tentativo obbligatorio rispetta la prima di queste condizioni poiché tende a soddisfare due interessi generali: la deflazione del carico giudiziario, evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario; e soprattutto la facilitazione della composizione amichevole e preventiva della lite, che assicura ai contendenti un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito tramite il processo. Con riguardo alla necessità di non dilazionare in modo eccessivo la possibilità di ricorrere al giudice, la Corte ha ritenuto che la normativa denunciata imponga un ragionevole limite all’immediatezza della tutela giurisdizionale. Ricordiamo infatti che l’esperimento del tentativo obbligatorio deve compiersi nel termine di sessanta giorni, decorso il quale esso si considera comunque esperito, cessando così l’impedimento all’esercizio dell’azione. Il tempo di sessanta giorni durante il quale perdura l’impossibilità di ottenere tutela in via giurisdizionale è ritenuto peraltro “limitato e non irragionevole” in quanto:

la richiesta del tentativo obbligatorio determina la sospensione della prescrizione e della decadenza per i sessanta giorni necessari a esperire il tentativo e per i venti giorni successivi alla conclusione dello stesso, un tempo ritenuto sufficiente per presentare la domanda giudiziale; 2) il giudice adìto prima dell’esperimento del tentativo si limita a sospendere il processo e a fissare il termine perentorio di sessanta

giorni per promuovere il tentativo, decorso il quale la parte deve procedere a un atto di riassunzione del processo, altrimenti questo sarà dichiarato estinto; 3) la situazione sostanziale è resa tutelabile in via cautelare sia prima che durante il tentativo di conciliazione, ed è perciò resa immune da eventuali gravi e irreparabili pregiudizi derivanti dalla durata del processo. Con riguardo alla improcedibilità della domanda per il mancato espletamento del tentativo di conciliazione e alla sua asserita inutilità, la Corte sottolinea come questa sanzione sia finalizzata, invece, a garantire l’effettività dell’osservanza dell’onere. Analogamente, l’estinzione del giudizio in caso di mancata riassunzione nei termini è considerata una esplicazione del principio per cui l’ordinamento considera con sfavore l’inattività delle parti. Il giudice a quo ha prospettato anche una violazione dell’articolo 3 della Costituzione, in quanto si introdurrebbe nell’ordinamento una non giustificata differenziazione tra la disciplina del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie previste dall’art. 409 c.p.c. e quelle di impiego privatizzato con la pubblica amministrazione. Per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c., a differenza delle seconde, l’articolo 410 c.p.c. non impone che la richiesta di conciliazione contenga l’esposizione sommaria dei fatti. La Corte ha rigettato la questione interpretando l’articolo 410 c.p.c. in maniera sistematica e ritenendo perciò implicita in esso la previsione che la richiesta del tentativo obbligatorio debba contenere i termini della controversia, esattamente come previsto per le controversie di impiego privatizzato con la Pubblica Amministrazione. Questione di legittimità costituzionale è stata sollevata anche con riguardo a un altro punto importante della normativa. I giudici rimettenti sollevano la questione del contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione dell’articolo 412-bis c.p.c., “nella parte in cui-disponendo che <<il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la

concessione dei provvedimenti speciali d’urgenza e di quelli cautelari previsti nel capo terzo del titolo primo del libro quarto>> non inserisce il procedimento monitorio nell’elenco dei procedimenti sottratti al tentativo”. Secondo tale interpretazione infatti la norma si porrebbe così in contrasto con la nostra Carta fondamentale per l’irragionevolezza della disciplina e degli ostacoli frapposti all’esercizio del diritto di azione. La Corte ha rigettato la questione argomentando la propria scelta ermeneutica. Innanzitutto si premette che il tentativo obbligatorio di conciliazione è per sua natura pensato per un processo che si fonda sul contraddittorio, ed è teso a dare alle parti la possibilità di incontrarsi in sede stragiudiziale per risolvere la lite soddisfacendo al meglio gli interessi di entrambe. Proprio per la natura stessa dell’istituto perciò, questo male si attaglia a casi in cui il processo sia pensato per svolgersi, almeno in una prima fase, necessariamente in assenza di contraddittorio, come avviene per il decreto ingiuntivo. Non avrebbe senso, secondo la Corte, chiedere alle parti, in una fase precedente al procedimento, un incontro, un contatto, che poi non è richiesto nella fase processuale per la pronuncia del provvedimento monitorio. Non è casuale che il legislatore abbia scelto di introdurre una nuova disciplina sul tentativo obbligatorio di conciliazione proprio nel processo di cognizione delle controversie di lavoro, che prevede uno sviluppo del contraddittorio fin dall’inizio. Inoltre, sia il procedimento cautelare, che i provvedimenti speciali d’ urgenza sono strutturati così da non escludere il contraddittorio nella loro prima fase. I procedimenti cautelari sono disciplinati, ex art.669- sexies c.p.c., dalla regola del provvedimento reso in contraddittorio, ed è solo un’eccezione il caso del provvedimento reso inaudita altera parte. Mentre per i provvedimenti speciali d’urgenza il contraddittorio è garantito fin da subito. E’ per queste motivazioni che il legislatore ha esplicitamente previsto queste due deroghe alla regola della

soggezione al previo espletamento del tentativo di conciliazione. La Corte ha concluso statuendo che “sarebbe invece incongruo interpretare la norma nel senso che essa, in forza di un argomento a contrario, debba comportare l’assoggettamento al tentativo di un procedimento il cui contraddittorio è differito, come il procedimento monitorio.” La Corte ha dunque ritenuto infondate tutte le censure sollevate con le ordinanze di rimessione, ritenendo pienamente conforme alla Costituzione la disciplina esaminata.

2.7 La giurisprudenza della Corte Costituzionale sull'obbligatorietà del