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Le problematiche derivanti dalle più recenti tendenze del peace-keeping

keeping

Alla fine degli anni Novanta Pineschi osservava che «la linea di demarcazione tra operazioni di mantenimento della pace e azioni coercitive non è affatto netta sul piano concreto» anche perché «lo stesso Consiglio di Sicurezza ha contribuito ad alimentare situazioni di ambiguità, autorizzando alcune operazioni di mantenimento della pace a fare ricorso all’uso della forza anche per scopi diversi dalla legittima difesa (si pensi alle Forze delle Nazioni Unite incaricate di

426 PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite, cit., pp. 32-33.

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proteggere convogli umanitari o aree di interdizione), senza però […] dotare le Forze delle Nazioni Unite delle attrezzature militari necessarie per rispondere in modo adeguato ad eventuali reazioni ostili nei loro confronti»428.

Tale fenomeno è divenuto sempre più evidente negli anni successivi, contribuendo ad alimentare un forte dibattito sulle sue implicazioni giuridiche ed operative. A fronte di una significativa evoluzione della prassi, che spesso solleva interrogativi circa la qualificazione e la base giuridica delle operazioni multinazionali su mandato ONU, non sembra corrispondere una sufficiente chiarezza sul piano dell’inquadramento dogmatico e giuridico-formale di tali missioni. Si tratta di un problema di indubbia gravità in quanto rende sempre più indefinito il perimetro delle azioni consentite al personale militare impiegato. Interrogativi che investono direttamente l’ambito delle azioni militari giustificate con finalità umanitarie (estranee all’originario concetto di peace-keeping), ma anche le sempre più frequenti operazioni antiterrorismo svolte nel contesto di missioni multinazionali autorizzate dalle Nazioni Unite. Ciò «comporta il rischio di confondere i diversi modelli di intervento delle Nazioni Unite nei contesti di conflitto armato interno, minandone la credibilità e compromettendo l’obiettivo di ristabilire la pace e di proteggere i civili»429. Inoltre, l’incertezza del quadro

giuridico potrebbe dare luogo a situazioni in cui si affidano ai contingenti impiegati determinati compiti, senza tuttavia fornirgli poteri, mezzi e coperture giuridiche adeguate per realizzarli e tutelare efficacemente la propria sicurezza. Ad accrescere la complessità del quadro appena descritto contribuisce la circostanza che «nella maggior parte delle ipotesi, azioni di questo tipo […] hanno costituito semplicemente l’estensione del mandato affidato […] a forze di … peacekeeping». Ciò ad esempio è quanto avvenne in Somalia quando UNOSOM II – 1993-1995 – sostituì UNOSOM I – 1992-1993430.

428 PINESCHI, Le operazioni delle Nazioni Unite, cit., p. 37.

429 CONDINANZI eCRESPI REGHIZZI, L’uso della forza, in CARBONE,LUZZATTO,SANTA MARIA (a cura

di), Istituzioni di diritto internazionale, cit., p. 371.

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Un’ambiguità ancora maggiore si ha poi nei casi in cui il Consiglio di Sicurezza autorizza un’operazione di Post-conflict peace-building, di peace-building o di peace- enforcement (o come si preferisce definirla), “incapsulandola”, come un particolare “sotto-insieme”, all’interno di una missione più ampia che invece era stata istituita con un mandato più limitato, mandato che continua a mantenere in tutte le altre sue componenti. È quanto avvenuto nel 2013 nella Repubblica Democratica del Congo, dove all’interno della missione MONUSCO431 (istituita

nel 2010 con compiti di peace-keeping432) è stata istituita una «Intervention Brigade»

con il compito di «neutralizzare i gruppi armati» in modo da contribuire alla sicurezza dei civili e al ripristino di un’effettivo controllo dello Stato congolese nelle regioni orientali433 (tuttora oggetto di intensi fenomeni di guerriglia e di

estese e sistematiche violazioni dei diritti umani)434.

La prassi degli ultimi decenni ha messo in discussione non solo la tradizionale delimitazione delle funzioni dei contingenti di peace-keeping, ma anche la stessa qualificazione dei contingenti ONU come forze sottoposte alla direzione politica e operativa delle Nazioni Unite. La crescente frequenza delle autorizzazioni all’uso della forza concepite in termini vaghi – tanto da essere talvolta definite «deleghe in bianco» - ha dato luogo ad operazioni militari di notevole rilievo che, pur avvenendo formalmente sotto egida ONU in quanto autorizzate da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, si sono avvalse di contingenti gestiti sostanzialmente in modo più o meno autonomo da singoli Stati o da organizzazioni internazionali distinte rispetto alle Nazioni Unite435. Si pensi

all’Operazione Deliberate Force sulla Bosnia nel 1995, formalmente ricompresa sotto il mandato ONU per le operazioni nella ex Jugoslavia ma di fatto gestita in grande autonomia dalla NATO (v. infra, capitolo V, § 5.5); o alle forze

431 «United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo». 432 UNSC Res. 1925, 28 May 2010.

433 UNSC Res. 2098, 28 March 2013.

434 A riguardo, si veda EGERIA NALIN, Recenti tendenze nei rapporti tra peace-keeping e peace-

enforcement delle Nazioni Unite: il caso della MONUSCO e della Intervention Brigade, in La

Comunità internazionale, 2017, n. 4, p. 547 ss..

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multinazionali schierate in Iraq da vari Paesi (tra cui l’Italia) dopo l’invasione anglo-americana del 2003, che operarono sotto autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ma sul piano operativo furono sottoposte al comando statunitense (nel quadro di una coalizione sorta e operante indipendentemente dalle Nazioni Unite).

La necessità di un adeguamento della cornice giuridica ed organizzativa delle operazioni di peace-keeping rispetto alle nuove sfide poste dal panorama contemporaneo è stata riconosciuta più volte dalle stesse Nazioni Unite: essa è stata oggetto del Report of the High-level Panel on Peace Operations del 2015, che ha espresso la preoccupazione che i cambiamenti delle caratteristiche dei conflitti armati possano compromettere la capacità delle operazioni ONU di farvi fronte, e ha riconosciuto che «change is required to adapt them to new circumstances». Come riconosciuto dal rapporto, una parte importante del problema è dato dall’esistenza di un crescente «gap» tra ciò che le missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite sono realmente in grado di garantire e ciò che sempre più ci si aspetta da esse. Una discrasia legata anche all’inadeguatezza di una tradizionale e stringente operazione del concetto di peace-keeping a fronte di situazioni in cui «there is little or no peace to keep»436.

A fronte di tale situazione, il rapporto suggerisce un cambiamento di approccio sotto alcuni profili fondamentali, evidenziando con ciò problemi noti da tempo, ma che ad oggi non sembrano ancora superati. Tra le misure suggerite, una maggior gradualità e sequenzialità nei compiti e nei tipi di mandato assegnati alle operazioni ONU, stabilendo «un continuum di risposte e transizioni più morbide tra differenti fasi delle missioni», una maggior cooperazione con e tra gli Stati membri ed una maggiore attenzione del Segretariato Generale per le esigenze peculiari che caratterizzano i singoli teatri di crisi437. Da segnalare

436 Report of the High-level Panel on Peace Operations on uniting our strengths for peace: politics,

partnership and people, UN Doc. S/2015/446, 17 June 2015, p. 9. Successivamente (p. 12) il rapporto

aggiunge che «the core principles of United Nations peacekeeping […] must be interpreted progressively

and with flexibility in the face of new challenges, and they should never be an excuse for failure to protect civilians or to defend the mission proactively».

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l’insistenza del Panel sulla necessità di definire compiti di protezione della popolazione «realistici» (anche in relazione alle risorse messe a disposizione dei contingenti dispiegati): a tale proposito, «[i]l Segretariato deve essere franco nelle sue valutazioni al Consiglio di Sicurezza riguardo a quanto è richiesto per rispondere alle minacce ai civili»438. Il rapporto richiede anche «chiarezza»

relativamente alla possibilità di uso della forza da parte del contingente ONU, consigliando notevole cautela nell’istituzione di missioni di peace-enforcement e in particolare sconsigliando la previsione di operazioni ONU con finalità di lotta al terrorismo439 (precisazione interessante alla luce dei recenti segnali di una

possibile “convergenza”, in taluni contesti, tra peace-keeping e anti-terrorismo: si pensi alla missione MINUSMA440 in Mali441).

2.5.6. La distinzione tra operazioni sottoposte alla direzione delle Nazioni