• Non ci sono risultati.

L’INTERVENTO UMANITARIO E LA RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L’INTERVENTO UMANITARIO E LA RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE"

Copied!
627
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA

SCUOLA DI SCIENZE SOCIALI

D

OTTORATO DI RICERCA IN

D

IRITTO

Curriculum di Diritto civile, commerciale e internazionale

(XXXI ciclo)

L’INTERVENTO UMANITARIO E LA

RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE

Tesi di dottorato

SUPERVISORE Prof.ssa Paola Ivaldi

DOTTORANDO Marco Ferruglio

(2)
(3)

R

INGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno supportato, umanamente e con i loro preziosi consigli, durante l’impegnativa stesura di questa tesi. Un ringraziamento particolare va ai miei genitori, e a tutti quegli amici che da sempre mi sopportano e mi danno una mano preziosa con pareri, consigli e spunti di riflessione. Un grazie, in particolare, a Walter, Mattia, Salvatore e Alessandro.

(4)

I

NDICE

I

NTRODUZIONE

... I

C

APITOLO

I

U

SO DELLA FORZA E ORDINAMENTO INTERNAZIONALE

:

PROFILI GENERALI

... 1

1. Lo ius ad bellum nella storia delle relazioni internazionali: una breve analisi diacronica ... 1

1.1. Dall’antichità al Seicento ... 2 1.2. L’avvento del diritto internazionale moderno e l’assenza di limiti giuridici al ricorso alla forza: la guerra come elemento fisiologico delle relazioni internazionali ... 6 1.3. I primi embrionali tentativi di limitazione dell’uso della forza ... 10 1.4. Dalla Società delle Nazioni alla Seconda guerra mondiale ... 12

2. Il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite e l’uso della forza 21

2.1. Le Nazioni Unite: finalità e struttura ... 22 2.1.1. Le finalità delle Nazioni Unite ...25 2.1.2. La struttura delle Nazioni Unite ...26 2.2. L’obbligo di risoluzione pacifica delle controversie internazionali (cenni) ... 30 2.3. Il divieto (quasi) assoluto di uso e minaccia dell’uso della forza (art. 2, par. 4, della Carta ONU) ... 32

2.3.1. L’interpretazione dell’art. 2, par. 4, della Carta: la nozione di «minaccia» di uso della forza ...34 2.3.2. (segue): la «forza» (armata) come nozione più ampia rispetto alla «guerra» .35 2.3.3. (segue): il significato del riferimento all’«integrità territoriale» e all’«indipendenza politica», e ai «fini delle Nazioni Unite» ...37 2.3.4. (segue): il legame con l’obbligo di risoluzione pacifica delle controversie (art. 2, par. 3, della Carta), con il principio di non ingerenza (art. 2, par. 7, della Carta) e con il principio di autodeterminazione («esterna») dei popoli ...42

(5)

2.3.5. Dall’iniziale valenza esclusivamente pattizia alla successiva acquisizione (anche) del rango di norma consuetudinaria ...45 2.3.6. Il divieto di rappresaglie armate in tempo di pace come corollario del divieto di uso della forza ...48 2.3.7. Il divieto di uso e minaccia dell’uso della forza durante la Guerra Fredda: cenni ...49 2.4. Le eccezioni al divieto di uso e minaccia dell’uso della forza previste dalla Carta ONU o pacificamente riconosciute ... 51

2.4.1. La legittima difesa individuale e collettiva (art. 51 della Carta ONU) ...51

2.4.1.1. Il requisito dell’«attacco armato» e le controversie circa la sua configurabilità rispetto ad atti di gruppi non statali ... 55 2.4.1.2. (segue): la «unwilling or unable doctrine» ... 61 2.4.1.3. Il problema della legittima difesa preventiva: «anticipatory self-defense» e «pre-emptive self-defense» ... 63

2.4.2. Il monopolio (quasi) assoluto dell’uso della forza da parte del Consiglio di Sicurezza (Cap. VII della Carta ONU): l’istituto delle autorizzazioni ...67

2.4.2.1. La possibilità di autorizzazioni all’uso della forza per far fronte a crisi umanitarie: rinvio... 74 2.4.2.2. La questione delle autorizzazioni “implicite” e delle autorizzazioni “ex

post”... 75

2.4.3. (segue): la possibilità di azioni coercitive delle organizzazioni regionali su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza (Cap. VIII della Carta ONU) ...78 2.4.4. L’intervento con il consenso dello Stato territoriale...82 2.4.5. La controversa ammissibilità dell’intervento dello Stato a protezione dei propri cittadini all’estero (cenni) ...85 2.4.6. La controversa ipotesi di uso della forza autorizzato dall’Assemblea Generale (rinvio) ...87 2.5. Le tipologie di interventi militari in ambito ONU: peace-keeping, Post-conflict peace-building, peace-building e peace-enforcement; operazioni dirette dal Consiglio di Sicurezza e operazioni semplicemente «autorizzate» (cenni) 87

(6)

2.5.2. Le operazioni di peace-building e di Post-conflict peace-building ...95

2.5.3. Le operazioni di peace-enforcement ...96

2.5.4. Le problematiche derivanti dalle più recenti tendenze del peace-keeping ...97

2.5.6. La distinzione tra operazioni sottoposte alla direzione delle Nazioni Unite e operazioni semplicemente «autorizzate» dal Consiglio di Sicurezza ... 101

3. «Guerra», «conflitti armati» e ius in bello ... 106

3.1. Dalle «guerre» ai «conflitti armati» ... 107

3.2. La nozione di «conflitto armato» ... 111

3.3. Il diritto internazionale dei conflitti armati: quadro generale ... 113

3.3.1. L’evoluzione storica dello ius in bello e il concetto di «diritto internazionale umanitario» ... 114

3.3.2. (segue): “umanizzare” la guerra: l’apparente paradosso del diritto internazionale umanitario ... 119

C

APITOLO

II

I

L RISPETTO DEI DIRITTI UMANI

,

GLI OBBLIGHI ERGA OMNES E LO IUS COGENS INTERNAZIONALE

... 121

1. Una premessa: il diritto internazionale come fenomeno dinamico ... 121

2. I diritti umani ... 126

2.1. Nascita ed evoluzione storica del concetto di «diritti umani» ... 126

2.2. La distinzione tra diritto internazionale relativo ai diritti umani e diritto internazionale umanitario: richiamo ... 135

2.3. La crescente rilevanza della tutela dei diritti umani nell’ambito dell’ordinamento internazionale e del sistema ONU: la progressiva affermazione del concetto di «human security» ... 136

3. Ius cogens internazionale e obblighi erga omnes ... 140

3.1. Ius cogens internazionale e obblighi erga omnes: definizioni e distinzione concettuale ... 140

3.1.1. Le norme di ius cogens ... 141

(7)

3.2. Il divieto di uso e di minaccia dell’uso della forza e il rispetto dei diritti umani come norme di ius cogens e produttive di obblighi erga omnes ... 147

3.2.1. Il divieto di uso e di minaccia dell’uso della forza come norma (interamente?) di ius cogens ... 147 3.2.2. L’obbligo di rispettare i diritti umani come obbligo erga omnes e (secondo larghe parti della dottrina) norma di ius cogens ... 149 3.2.3. Le controversie circa il rapporto tra divieto di uso della forza e obbligo di rispetto dei diritti umani: prime considerazioni ... 151 3.3. Obblighi erga omnes, ius cogens e responsabilità internazionale degli Stati: linee generali ... 154

C

APITOLO

III

L

A MODERNA TEORIA DEL DIRITTO DI INTERVENTO

UMANITARIO E LE SUE ORIGINI STORICHE

... 160

1. L’«intervento umanitario»: definizione del concetto... 160

1.1. La nozione di «intervento», in generale ... 161 1.2. La nozione di «intervento umanitario» (autorizzato e «unilaterale») e la distinzione rispetto al peace-keeping e alla guerra in senso tradizionale .... 163 1.3. La distinzione tra «intervento umanitario», «peace-keeping» e «guerra»: realtà o “truffa delle etichette”? ... 167

2. Le radici storiche dell’intervento umanitario: dall’epoca romana alla nascita delle Nazioni Unite... 172

2.1. Il legame tra la concezione nozione di intervento umanitario e la vecchia teoria della guerra giusta ... 173 2.2. Guerra giusta e intervento umanitario, dall’antichità al giusnaturalismo (brevi richiami) ... 174 2.3. L’«intervento di umanità» tra Ottocento e primi del Novecento: le prime forme di intervento umanitario ... 177 2.4. Dai conflitti mondiali alla nascita delle Nazioni Unite: il tramonto (momentaneo) del concetto ... 183

(8)

3. La moderna codificazione del concetto di «intervento umanitario» e la sua affermazione nella prassi delle Nazioni Unite ... 186

3.1. La scarsa rilevanza del concetto di intervento umanitario negli anni della Guerra fredda ... 187 3.2. Una lenta rivoluzione copernicana: la «sicurezza umana» e l’intervento umanitario come risposta alle sfide del mondo uscito dalla Guerra fredda ... 189 3.3. L’intervento umanitario entro i limiti del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite: le crisi umanitarie come «minaccia alla pace» ... 193 3.4. La formazione di un consenso generale sul potere del Consiglio di Sicurezza di autorizzare interventi umanitari ... 199

4. La teoria del «diritto di intervento umanitario» ... 201

4.1. Le diverse varianti della dottrina ... 205 4.2. Le divisioni all’interno della Comunità internazionale e della dottrina: la contrapposizione tra Paesi occidentali (da una parte) e Russia, Cina e i Paesi in via di sviluppo (dall’altra) ... 206 4.3. Considerazioni conclusive: le contraddizioni dell’ordinamento internazionali e le disfunzioni del Consiglio di Sicurezza come fattori di stimolo per gli interventi umanitari unilaterali... 210

C

APITOLO

IV

L

A DOTTRINA DELLA RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE

... 214

1. La dottrina della responsabilità di proteggere nella sua formulazione originaria ... 215

1.1. «Never again»: la sfida della prevenzione delle atrocità di massa all’alba del nuovo millennio e l’esigenza di nuove risposte al problema della «human security» ... 215 1.2. L’International Commission on Intervention and State Sovereignty e l’adozione del rapporto del dicembre 2001 ... 219

(9)

1.3. La responsabilità di proteggere come nuovo approccio alla prevenzione

e al contrasto delle atrocità di massa: prime considerazioni ... 220

1.4. La multidimensionalità della responsabilità di proteggere: un approccio olistico... 223

1.5. (segue): la «responsabilità di prevenire» ... 224

1.6. (segue): la «responsabilità di reagire» ... 227

1.6.1. Il requisito della «right authority» ... 228

1.6.2. Il requisito della «giusta causa» ... 232

1.6.3. Il requisito della «right intention» ... 236

1.6.4. L’uso della forza come «ultima risorsa» ... 239

1.6.5. Il requisito della proporzionalità ... 239

1.6.6. L’esistenza di «ragionevoli prospettive» di successo ... 240

1.7. (segue): la «responsabilità di ricostruire» ... 241

1.8. Il problema dell’ambiguo significato della responsabilità di proteggere ai sensi del diritto internazionale ... 243

2. Un concetto nuovo? ... 245

2.1. L’ampliamento di prospettiva rispetto agli anni Novanta ... 246

2.2. La sovranità come responsabilità quale orizzonte di riferimento della R2P ... 248

2.3. Le radici storiche della nozione di «responsabilità di proteggere» ... 256

3. La responsabilità di proteggere e il sistema ONU, tra rifiuto e accettazione ... 260

3.1 I primi anni ... 261

3.1.1. Il rapporto dell’High-Level Panel on Threats, Challenges and Change (dicembre 2004): un passo indietro ... 261

3.1.2. Il rapporto «In Larger Freedom» del Segretario Generale (marzo 2005) ... 266

3.2. Il World Summit del 2005 e il recepimento della cd. «soft R2P» ... 267

3.3. I successivi sviluppi in seno alle Nazioni Unite: una storia incompiuta ... 275

(10)

3.3.1. Il recepimento della responsabilità di proteggere nel linguaggio delle Nazioni

Unite ... 276

3.3.2. Il rapporto del Segretario Generale del gennaio 2009 e l’articolazione della dottrina su tre «pilastri»; i persistenti malumori di parte della Comunità internazionale sul «terzo pilastro» ... 278

3.3.3. Gli anni più recenti: la perdurante assenza di un pieno consenso sul «terzo pilastro» ... 282

C

APITOLO

V

L’

USO DELLA FORZA A FINI UMANITARI

:

LA PRASSI

... 286

1. L’assenza di prassi rilevante tra il 1945 e gli anni Novanta: la difficoltà di qualificare come «interventi umanitari» alcune operazioni sovente indicate come tali ... 287

2. L’intervento dell’ECOWAS in Liberia (1990) ... 290

3. I fallimentari interventi in Somalia nella prima metà degli anni Novanta ... 294

4. L’Operazione Provide Comfort nell’Iraq settentrionale e meridionale (1991)... 298

5. Gli interventi nella ex Jugoslavia durante gli anni Novanta ... 301

5.1. I primi anni: l’incruenta secessione della Slovenia e i sanguinosi scontri tra serbi e croati ... 302

5.2. Il conflitto viene riconosciuto come internazionale (1992) ... 303

5.3. La costituzione dell’UNPROFOR e la sua progressiva evoluzione (1992-1995) ... 305

5.4. L’eccidio di Srebrenica: un fallimento delle Nazioni Unite ... 308

5.5. L’Operazione Deliberate Force, l’IFOR e il ruolo della NATO ... 310

5.6 Gli accordi di Dayton (1995) ... 311

6. Il genocidio del Ruanda e l’inerzia della Comunità internazionale (1994) ... 311

7. L’intervento dell’ECOWAS in Sierra Leone... 316

(11)

8.1. Verso la guerra (1998-1999): le prime risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ... 319 8.2. L’Operazione Allied Force (1999) ... 323 8.3. L’accordo di Kumanovo e la risoluzione n. 1244 del Consiglio di Sicurezza ... 325 8.4 Le giustificazioni invocate dagli Stati della NATO per l’intervento: alcune considerazioni ... 325

9. «War on terror» e giustificazioni umanitarie: l’impatto della guerra in Iraq del 2003 sulla dottrina dell’intervento umanitario... 331 10. Il Darfur: una prima (fallimentare) implementazione della responsabilità di proteggere ... 338 11. La catastrofe umanitaria del Sudan del Sud e l’inefficace intervento delle Nazioni Unite ... 345 12. L’intervento in Costa d’Avorio nel 2011 (cenni) ... 348 13. L’intervento in Libia del 2011 (Operazione Unified Protector): trionfo della responsabilità di proteggere? ... 351

13.1. Gli antefatti ... 351 13.2. L’intervento e la caduta del regime di Gheddafi ... 353 13.3. L’impatto dell’intervento in Libia sull’accettazione della dottrina della responsabilità di proteggere: primi cenni e rinvio ... 359

14. L’intervento in Mali del 2013 (Operazione Serval) ... 363 15. L’intervento armato contro lo «Stato islamico» in Iraq e in Siria, tra antiterrorismo, legittima difesa e considerazioni umanitarie... 367

15.1. La conquista jihadista di parte del territorio siriano e iracheno (2014) e la perpetrazione di atrocità di massa ... 368 15.2. L’intervento occidentale contro l’IS in Iraq ... 370 15.3 L’intervento occidentale contro l’IS in Siria ... 373 15.4. L’intervento russo contro l’IS e a sostegno del regime di Assad (cenno) ... 379

(12)

16.1. Le radici del conflitto ... 381 16.2 L’assenza di interventi risolutivi del Consiglio di Sicurezza ... 383 16.3 L’uso di armi chimiche e il mancato intervento occidentale dell’agosto-settembre 2013 ... 387 16.4. Il tramonto delle ipotesi di intervento contro Assad (anche) in conseguenza dell’emersione della minaccia dell’IS ... 389 16.5. Gli attacchi missilistici occidentali del 2017 e del 2018 ... 390 16.6. La situazione attuale: continuazione del conflitto e tragedia umanitaria (cenni) ... 394

C

APITOLO

VI

I

L DIRITTO DI INTERVENTO UMANITARIO E LA

RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE TRA DOTTRINA

,

POSIZIONI DEGLI

S

TATI E GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE

... 395

1. Le divisioni interne alla dottrina internazionale ... 395

1.1. L’inammissibilità dell’intervento umanitario unilaterale nell’ambito dell’interpretazione tradizionale della Carta ONU e del diritto internazionale generale ... 396 1.2. La paura dell’abuso: quis custodies ipsos custodes? ... 403 1.3. (segue): la denuncia di un uso “selettivo” della giustificazione umanitaria in nome di obiettivi geopolitici ... 408 1.4. La tesi dell’«illegal but legitimate»: rinvio ... 410 1.5. L’idea della «emerging norm»: un concetto sfuggente ma utile ... 411 1.6. La tesi minoritaria della piena esistenza di una norma internazionale che consente (o impone) l’intervento umanitario in circostanze particolari .... 415

2. Le possibili giustificazioni per l’intervento umanitario unilaterale: una rassegna di alcune proposte sviluppate in dottrina ... 417

2.1. La proposta di un’interpretazione evolutiva dell’art. 2, par. 4, della Carta ONU, tra ius cogens e crescente tutela dei diritti umani ... 418 2.2. I dibattiti sulla possibilità di interventi armati autorizzati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: la risoluzione «Uniting for Peace» del 1950 420

(13)

2.3. Interventi non autorizzati e organizzazioni internazionali: i casi della NATO e dell’Unione africana ... 427 2.4. L’intervento umanitario come possibile reazione alla violazione di obblighi erga omnes: la tesi di Picone ... 433 2.5. La tesi di Conforti sulla natura giuridicamente «indifferente» degli interventi militari non autorizzati dal Consiglio di Sicurezza a causa di una paralisi interna (cenno) ... 439 2.6. «Illegale ma legittimo»? Una proposta insoddisfacente (e pericolosa), una lettura (talvolta) corretta ... 440 2.7. (segue): la questione dell’acquiescenza ... 446 2.8. (segue): silenzio assenso? ... 451 2.9. L’idea della giustificazione degli interventi umanitari unilaterali in nome dello stato di necessità, limitatamente a casi eccezionali ... 452

3. L’orientamento degli Stati: una panoramica ... 461

3.1. Tra diritto, politica e marketing: ovvero la difficoltà di una lettura giuridica di un lessico politico ... 462 3.2. Il dibattito sull’intervento umanitario come espressione delle contrapposizioni tra Occidente, Russia e Cina (ma anche tra Nord e «Global South») ... 464 3.3. Gli Stati Uniti e l’intervento umanitario: un sostegno vago ... 469 3.4. Regno Unito, Francia, Belgio e Paesi Bassi come “campioni” della teoria dell’intervento umanitario ... 474 3.5. La Russia: tra opposizione, caute aperture e strumentalizzazioni (cenno) ... 477 3.6. Il Brasile e la «responsibility while protecting» (RwP): luci e ombre ... 480 3.7. La Cina e l’intervento umanitario, dall’originaria chiusura alle prime aperture: la «responsible protection» (RP) come “via cinese” alla responsabilità di proteggere ... 485 3.8. L’opposizione all’intervento umanitario da parte dei Paesi «non allineati» ... 489

(14)

4. L’intervento umanitario nella giurisprudenza internazionale ... 491

4.1. L’orientamento classico di netto rifiuto di interventi umanitari non espressamente consentiti dalla Carta ONU ... 492 4.2. La sentenza relativa all’Applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (2007) ... 494

C

APITOLO

VII

C

ONCLUSIONI

:

IL DIRITTO DI INTERVENTO UMANITARIO

COME NORMA

«

EMERGENTE

»

DELL

ORDINAMENTO INTERNAZIONALE

... 496

1. Il «diritto di intervento umanitario» come norma «emergente» e «zona grigia» dell’ordinamento internazionale ... 497

1.1. La decisiva (seppur incompiuta) trasformazione del concetto di sovranità, i diritti umani e i nuovi “equilibri assiologici” all’interno della Carta ONU: l’esigenza di un’interpretazione evolutiva ... 504 1.2. Domande ineludibili e carenze del sistema ONU ... 511 1.3. L’inadeguatezza dell’«illegal but legitimate» come soluzione permanente al problema dell’intervento umanitario (richiamo) ... 513 1.4. L’“illegalità necessaria” e l’evoluzione del diritto internazionale: una breve precisazione ... 514 1.5. Sul timore di ricorsi pretestuosi alla giustificazione umanitaria per l’uso della forza ... 517 1.6. All or nothing at all? Sulla razionalità di un’opposizione all’intervento umanitario fondata sulla disparità di trattamento tra situazioni simili .... 523 1.7. L’esigenza di un perfezionamento della teoria: una «responsibility to refine» (cenno) ... 526

2. «Responsabilità di proteggere»: passo avanti, passo indietro o «vino vecchio in bottiglia nuova»? ... 527

2.1. La difficoltà di sostenere, de lege lata, l’esistenza di un «obbligo» giuridico di intervento a fronte di gravi violazioni dei diritti umani ... 529

(15)

2.2. Le critiche alla responsabilità di proteggere e all’indeterminatezza dei suoi requisiti: le osservazioni sul Darfur ... 535 2.3. L’utilità politica e culturale della dottrina come «guiding principle» e schema di approccio alle crisi umanitarie ... 539 2.4. Considerazioni sulle altre componenti della R2P: la responsabilità dello Stato di proteggere i propri cittadini quale principio del diritto internazionale generale; l’importanza della «responsabilità di prevenire» e della «responsabilità di ricostruire» ... 541

3. Il diritto internazionale non è una monade: la forte (e inevitabile) incidenza del fattore politico sugli interventi umanitari: i casi libico e siriano ... 543

3.1. Trattare il mondo com’è, e non come vorremmo che fosse: il problema insuperabile dell’effettività di un eventuale «obbligo» di intervento umanitario... 545 3.2. (segue): l’equivoco della purezza di intenti: perché nessun intervento «umanitario» sarà mai esclusivamente «umanitario» ... 547 3.3. (segue): il problema delle risorse e della capacità di reazione rapida alle emergenze umanitarie ... 550

3.3.1. Un dato sorprendente: i Paesi del cd. Terzo Mondo come contributori principali delle missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite ... 552 3.4. Libia e Siria: dall’apogeo al tramonto della responsabilità di proteggere? ... 554

4. … to be continued: il potenziale di un’idea ... 561

4.1. Nuovi possibili ambiti di applicazione per il paradigma della responsabilità di proteggere: disastri naturali, salute e rifugiati (brevi osservazioni) ... 562 4.2. La responsabilità di proteggere e la teoria dell’intervento umanitario come «work in progress» ... 566

(16)

«Affinché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione». (Tucidide)

(17)

I

I

NTRODUZIONE

Apparentemente, riflettere sul tema dell’«intervento umanitario» significa riflettere su un ossimoro. L’accostamento tra il concetto di intervento militare e l’aggettivo «umanitario» appare infatti una stridente contraddizione, lessicale e concettuale. Non a caso l’espressione e la logica ad esso sottostante sono rifiutate da gran parte delle organizzazioni umanitarie. In quest’ottica, l’espressione può sembrare la versione moderna, e più politicamente corretta, del vecchio concetto medievale di «guerra giusta». Anche prescindendo da una posizione di rigido pacifismo, l’idea che un fenomeno così terrificante come la guerra possa essere giusto tende ormai ad essere rifiutata come il risultato di un’aberrazione morale. Questa prospettiva è figlia di una generale avversione morale e culturale verso il concetto di guerra, che è penetrata in profondità nella coscienza europea soprattutto dopo il trauma della Seconda guerra mondiale, e per molti versi appare non solo condivisibile ma anche un’irrinunciabile conquista di civiltà. Eppure, se guardiamo alla storia, non si contano i casi in cui il compimento o la prosecuzione di enormi atrocità è stato evitato solo grazie all’uso delle armi. È innegabile che nella maggior parte dei casi ciò è stato necessario solo a causa di errori e miopie precedenti, che resero inevitabile il conflitto laddove poteva invece essere evitato. Tuttavia, tale considerazione non offre una risposta all’interrogativo circa le scelte da compiere quando immani tragedie sono imminenti o in corso, e nessun strumento pacifico sembra in grado di impedirle. È probabilmente vero che scelte politiche più sagge nel periodo tra le due guerre avrebbero potuto evitare il secondo conflitto mondiale, ma è altrettanto vero che, giunti in tale situazione, fu necessario combattere una guerra per sconfiggere il nazismo e porre fine all’Olocausto. A seguito del genocidio ruandese, che nel 1994 causò quasi un milione di morti tra l’indifferenza e l’inerzia della Comunità internazionale, ampi settori dell’opinione pubblica criticarono duramente le grandi potenze per non essere intervenute tempestivamente, anche con la forza, per impedire la tragedia. Anche grazie all’inedita pervasività dei media, oggi il

(18)

II

livello di attenzione dell’opinione pubblica per il tema della prevenzione alle atrocità di massa è maggiore rispetto a qualsiasi altro periodo storico: «[a]lthough the conduct of one-sided violence is nothing new, its perceived impact on international

security and the urge to halt such heinous crimes are unprecedented»1.

Queste constatazioni ci inducono a ritenere che il tema meriti una più articolata riflessione, sia sul piano filosofico2, sia in tutte quelle discipline rilevanti in

relazione ai temi della guerra e delle atrocità di massa; tra queste non può non rientrare il diritto, e in particolare il diritto internazionale, nell’ambito del quale tali tematiche si ritrovano in materia di conflitti armati e diritti umani fondamentali. Il concetto di «intervento umanitario», oggetto di ampi dibattiti e orientamenti profondamente divergenti sin dagli anni Novanta, rappresenta forse il maggior terreno di scontro tra due principi fondamentali dell’attuale ordinamento internazionale: il divieto di uso della forza armata e l’obbligo di rispettare i diritti umani.

Secondo il significato normalmente attribuitole nella dottrina internazionalistica, l’espressione «intervento umanitario» indica, in termini generali, un uso della forza armata mirato a impedire o a far cessare gravi ed estese violazioni dei diritti umani fondamentali, in situazioni nelle quali non è possibile conseguire tale scopo con mezzi pacifici. Tale concetto combina l’esigenza di tutela dei diritti umani con suggestioni assai antiche rintracciabili in quasi tutte le tradizioni culturali del mondo. Com’è rilevato ormai da ampie parti della dottrina, l’idea pone di fronte ad un dilemma morale e giuridico, creando un conflitto tra due istanze – la tutela della pace e quella dei diritti umani – oggi vissute sempre più come imperativi categorici3. All’indomani della Seconda guerra mondiale

l’assoluto primato attribuito al mantenimento della pace nell’ambito del diritto

1 ABIODUN WILLIAMS, Global governance and the Responsibility to Protect, in RAMESH THAKUR and

WILLIAM MALEY (eds.), Theorizing the Responsibility to Protect, Cambridge, 2015, p. 154.

2 A riguardo, un richiamo va a MICHAEL WALZER, Guerre giuste e ingiuste, Laterza, 2009 (ed.

originale 1977).

3 Si veda ELENA SCISO, Introduzione, in NATALINO RONZITTI e ELENA SCISO (a cura di), I conflitti in

Siria e Libia. Possibili equilibri e le sfide al diritto internazionale, Torino, 2018, pp. 2-3: l’autrice

considera l’individuazione di un punto di «equilibrio» tra le due istanze come una delle sfide dell’odierno diritto internazionale.

(19)

III

internazionale risolveva il dilemma, almeno sul piano giuridico. All’inizio del XXI secolo il panorama appare diverso e la risposta meno scontata: l’accresciuto rilievo acquisito dall’obbligo di rispetto dei diritti umani nell’ordinamento internazionale porta a porsi il problema circa un’eventuale alterazione degli equilibri esistenti all’interno del sistema, in particolare quando la scelta del non intervento comporta la sicura perpetrazione di «atrocity crimes».

Più in generale, il tema dell’intervento umanitario si pone al crocevia tra molteplici problematiche e processi di trasformazione del diritto vigente, nonché della filosofia politica e dell’orizzonte culturale e valoriale dominante, in Occidente come nel resto del mondo. Limitatamente all’ambito giuridico, esso rileva non solo per il suo oggetto, ma anche perché costituisce un punto di osservazione privilegiato attraverso il quale leggere e interpretare l’evoluzione dell’ordinamento internazionale in alcuni settori di estrema importanza.

Nella nostra epoca, il diritto internazionale, fenomeno intrinsecamente dinamico, pare infatti in una fase di transizione epocale, attraversato da processi di trasformazioni inerenti a materie fondamentali per l’assetto globale. Fin dalla fine del XX secolo, si sta assistendo allo sviluppo di una nuova concezione della sovranità, intesa non più come controllo dello Stato sui propri cittadini, ma piuttosto come responsabilità dello Stato nei confronti di essi: un cambiamento di prospettiva con conseguenze potenziali enormi, che ha certamente radici storiche profonde ma che solo in tempi recenti ha trovato ampi consensi in certe sue implicazioni. Implicazioni che toccano in primo luogo il principio di non ingerenza, tradizionale caposaldo dell’ordinamento internazionale, il quale dalla nascita delle Nazioni Unite ha subito una progressiva erosione, al punto che oggi anche i più strenui difensori della sovranità nazionale raramente giungono a sostenere che all’interno dei propri confini ciascun Stato abbia il diritto di fare tutto ciò che vuole. Un’idea che è ormai inscritta, almeno in misura minima, nel diritto internazionale odierno, in contrasto con l’antica concezione della sovranità in termini assoluti, discendente da quel principio secondo cui rex superiorem non recognoscens (e in regno suo est imperator) che aveva trovato definitiva consacrazione con la nascita dello Stato moderno (nella stessa epoca

(20)

IV

cui vengono convenzionalmente ricondotte le origini del diritto internazionale in senso moderno). Le anzidette trasformazioni si legano direttamente alla crescente tendenza a concepire i problemi internazionali in vista del perseguimento del bene degli individui, piuttosto che degli Stati in sé stessi considerati: visione che trova espressione nel concetto di «sicurezza umana» («human security»), che concepisce la sicurezza internazionale con precipuo riferimento alle persone, prima che agli Stati. Per questa ragione l’ordinamento internazionale appare oggi a molti osservatori in una crisi dovuta alla «rottura di valori condivisi» e alla «difficoltà di conciliare ‘vecchi’ e ‘nuovi’ valori»4: una crisi

che però può al contempo rappresentare una «fase costituente»5 (o, secondo

un’espressione usata nella dottrina anglosassone, un «Grotian moment»6) per

definire nuovi e più adeguati equilibri e assetti normativi.

Se ci si accosta al diritto internazionale in una prospettiva basata su tali concetti, la sovranità cessa di essere uno «scudo» al riparo del quale ogni governo può agire indisturbato nei confronti della propria popolazione, ma diviene sempre più un attributo condizionato al rispetto, da parte dell’autorità, di un dovere minimo di protezione nei confronti dei propri cittadini; se tale dovere non viene adempiuto, la sovranità perde la sua principale ragion d’essere e, di conseguenza, lo scudo della non ingerenza potrebbe venire meno, in nome del perseguimento della «human security»7. In altre parole, si potrebbe ammettere un

intervento di un altro Paese a tutela della popolazione il cui Stato non adempie all’anzidetto dovere di protezione, anche senza il consenso di quest’ultimo. Questa è, per la precisione, la logica alla base del concetto di intervento

4 SCISO, Introduzione, in RONZITTI e SCISO (a cura di), I conflitti in Siria e Libia, cit., p. 4. 5 Ibidem.

6 Tra le varie definizioni, un «Grotian Moment» (espressione coniata da Richard A. Falk nel 1985)

è stato definito come «un momento in cui si verifica un mutamento fondamentale nel sistema internazionale esistente, così provocando l’emersione, con eccezionale velocità, di un nuovo principio di diritto consuetudinario» (MILENA STERIO, A Grotian Moment: Changes in the Legal

Theory of Statehood, in Denver Journal of International Law and Policy, 2011, p. 209 ss., p. 211,

traduzione a cura dell’autore).

7 Tale concezione trova, a ben vedere, alcune radici storiche nella stessa nozione di «contratto

sociale» propria di molti pensatori del periodo del giusnaturalismo, con il quale infatti le dottrine dell’intervento umanitario presentano innumerevoli punti di contatto. Tra essi, si può ad esempio menzionare il filosofo inglese John Locke (1632-1704), uno dei padri del liberalismo.

(21)

V

umanitario (anche se talvolta l’espressione è impiegata anche in riferimento ad interventi militari effettuati con il consenso dello Stato territoriale interessato). Un passo ulteriore nello sviluppo di tale concezione si è avuto con l’elaborazione della nozione di «responsabilità di proteggere», teorizzata nell’omonimo rapporto pubblicato nel dicembre 2001 da una commissione formata da esperti di diritto internazionale costituita sotto l’autorità del governo canadese8, e spesso

indicata con l’acronimo inglese R2P o RtoP9. Mentre fino a quel momento ci si era

limitati a sostenere che di fronte a gravi catastrofi umanitarie gli Stati avessero il diritto di intervenire anche sul territorio di altri Stati, senza il consenso di questi ultimi, ora, con un significativo mutamento di prospettiva, l’idea era riproposta in termini di responsabilità, termine che evoca l’idea di dovere. In tale ottica, ogni Stato è titolare, in via principale, di una responsabilità di proteggere la propria popolazione contro gravi e ampie violazioni dei diritti umani fondamentali (il riferimento più frequente è ai casi estremi del genocidio, dei crimini contro l’umanità, della pulizia etnica e degli omicidi di massa). Qualora lo Stato non possa o non voglia adempiere a tale responsabilità, essa si trasferisce in via sussidiaria in capo alla Comunità internazionale nel suo complesso, ossia a tutti gli altri Stati. La «sicurezza umana» viene prima di quella dello Stato. L’esatta valenza giuridica del concetto di «responsabilità», nei termini enunciati, costituisce uno degli interrogativi attualmente affrontati dalla dottrina internazionalistica, che dopo il 2001 si è posta il delicato quesito se la formula vada interpretata nel senso di un vero e proprio obbligo giuridico, o in termini più generici ed essenzialmente morali e politici. Qualunque risposta si offra a tale domanda, la dottrina conserva tuttavia un notevole potenziale di innovazione con riguardo al modo con cui affrontare le sfide globali, anche perché non si riduce al mero aspetto dell’intervento, ma contempla anche il riferimento ad impegni di carattere preventivo («responsabilità di prevenire») e successivo («responsabilità di ricostruire»).

8 L’International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS). 9 Da «responsibility to protect».

(22)

VI

Concezioni così rivoluzionarie rispetto al tradizionale approccio alle questioni internazionali, e ad alcuni capisaldi del diritto internazionale classico, non potevano non suscitare forti opposizioni e resistenze; sono tutt’oggi guardate con ostilità o diffidenza, o accettate solo in parte, da parte della dottrina e della comunità degli Stati, trovando il loro maggiore consenso in Occidente. Cionondimeno, è indubbio che esse abbiano ormai raggiunto un livello di consenso significativo, e abbiano già determinato alcuni importanti evoluzioni degli assetti politici e giuridici globali. Colui che oggi indaga tali tematiche si trova di fronte ad un panorama complesso e sfaccettato, segnato da maggiori divergenze e più incertezze rispetto al Secondo Dopoguerra. Il diritto internazionale appare in una fase di decisiva transizione, nella quale coesistono principi più risalenti e nuove istanze, in un rapporto spesso conflittuale. Ciò dà luogo ad un sistema in perenne tensione, dove l’avanzamento o viceversa la regressione dei processi di trasformazione in corso dipendono in misura significativa dall’evoluzione della prassi e dell’opinio iuris. La difficoltà di raggiungere posizioni universalmente condivise sulle questioni inerenti l’intervento umanitario esprime appieno tale tensione interna al sistema, inducendo molti osservatori a vedere nell’attuale fase storica un momento cruciale per la futura morfologia del diritto internazionale: come nel 1945, «the world today is faced with a constitutional moment – this time one in which the international community can choose whether or not to adopt the collective component of

RtoP»10. La prassi degli ultimi anni ha fornito, a questo riguardo, segnali

contrastanti, che hanno indotto a parlare di trionfo dell’ideale della responsabilità di proteggere (nel caso dell’intervento in Libia) o viceversa del suo tramonto (in occasione del conflitto siriano): entrambe le prospettive sembrano eccessive, come si avrà modo di sostenere nel presente lavoro.

I concetti di intervento umanitario e di responsabilità di proteggere hanno ormai conquistato un consenso maggioritario, in dottrina e nella Comunità

10 CATHERINE POWELL, Libya: A Multilateral Constitutional Moment?, in American Journal of

(23)

VII

internazionale, se concepiti nei limiti del sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite. Già tale dato costituisce una novità storica di tutto rilievo che individua una trasformazione dell’assetto internazionale rispetto al Dopoguerra e alla Guerra fredda. Come osservavano nel 2015 Ramesh Thakur (uno dei padri della R2P) e William Maley, la diffusione della concezione della sovranità come responsabilità e dell’idea che esista una responsabilità «globale» di proteggere le persone a rischio di subire atrocità di massa rappresenta «uno dei più importanti sviluppi della politica mondiale nell’ultimo decennio»11. Il

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organo cui la Carta assegna la responsabilità primaria per il «mantenimento della pace e della sicurezza internazionale», a partire dagli anni Novanta ha incluso le crisi umanitarie (anche meramente interne) all’interno della nozione di «minaccia alla pace» di cui all’art. 39 della Carta, attribuendosi così il potere di autorizzare gli Stati all’uso della forza armata anche al fine di impedire o far cessare gravi ed estese violazioni dei diritti umani fondamentali. Autorizzazioni di questo tipo sono state alla base di molti degli interventi militari condotti negli anni Novanta sotto l’egida delle Nazioni Unite, e la loro ammissibilità è stata gradualmente accettata a livello pressoché universale. In occasione del World Summit del 2005 l’Assemblea Generale dell’ONU ha poi accolto il concetto di responsabilità di proteggere, condizionandone però l’esercizio da parte di Stati terzi ad una previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, il quale a partire dal 2006 si è più volte richiamato a tale nozione nelle sue risoluzioni. L’esatto significato giuridico di tale accoglimento appare invero controverso, non essendo chiaro se tale responsabilità indichi un vero obbligo giuridico, e permanendo disaccordi e interpretazioni diverse tra gli Stati sulla portata e le modalità di implementazione della dottrina. Se l’accoglimento in linea di massima è sintomatico dei processi di mutamento del quadro internazionale, le divergenze sulla sua interpretazione esprimono le tensioni e le incertezze proprie di un panorama in transizione, dove

11 RAMESH THAKUR andWILLIAM MALEY,Introduction: theorising global responsibilities, in THAKUR

(24)

VIII

tuttavia è indubbia la tendenziale erosione del divieto di ingerenza e il senso di incompiuto proprio di un fenomeno ancora in divenire. «R2P is the perennial emerging norm, which requires for its application a lower threshold of state sovereignty

and a broad acceptance of human rights ideals»12.

La tensione interna all’ordinamento internazionale viene dunque in qualche modo risolta laddove l’«ingerenza umanitaria» venga decisa dal Consiglio di Sicurezza. Tale tensione diviene invece massima, e potenzialmente assai pericolosa per la tenuta del sistema, a fronte a quelle teorie che sostengono l’ammissibilità in circostanze eccezionali di interventi umanitari cd. unilaterali, cioè non autorizzati dal Consiglio di Sicurezza. Tali teorie, che hanno iniziato ad ottenere un qualche consenso negli anni Novanta, rappresentano infatti una sfida frontale al divieto di uso della forza armata, pietra angolare dell’attuale ordinamento internazionale e del sistema ONU, che ammette espressamente solo le eccezioni della legittima difesa e delle operazioni militari decise dal Consiglio di Sicurezza. Uno dei principali argomenti invocati contro questo tipo di interventi è il rischio di un ricorso pretestuoso e arbitrario alla giustificazione umanitaria, data anche l’assenza nell’ordinamento internazionale di un’autorità gerarchicamente sovraordinata agli Stati assimilabile a quella presente nel contesto nazionale.

Tuttavia, l’esperienza storica e un’analisi pragmatica dei deficit strutturali del sistema onusiano di sicurezza collettiva suggeriscono che la questione sia più complessa. Il Consiglio di Sicurezza, unico organo sicuramente dotato del potere di autorizzare interventi umanitari, è un organo politico dotato di amplissima discrezionalità ed espressione degli equilibri tra le principali potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale (Stati Uniti, Russia13, Cina, Regno Unito e

Francia), le quali ne sono membri permanenti e dispongono, ciascuna, di un diritto di veto sulle decisioni di merito. Oltre a riflettere un quadro internazionale oggi in parte mutato (ragione che ha indotto da tempo a invocare riforme, mai

12 NADIA BANTEKA, Dangerous Liaisons: The Responsibility to Protect and a Reform of the U.N. Security

Council, in Columbia Journal of Transnational Law, 2016, p. 382 ss., p. 398.

(25)

IX

realizzate, dell’organo), tale assetto comporta un’elevata probabilità di stallo decisionale a causa dei forti attriti geopolitici esistenti tra i membri permanenti, che si attestano su posizioni molto distanti anche con riguardo alla concezione dell’ordinamento internazionale: mentre infatti i Paesi occidentali mostrano maggiori aperture verso le nuove prospettive descritte in precedenza, Russia e Cina risultano maggiormente attaccate ai tradizionali principi di non ingerenza e difesa della sovranità nazionale. Lo stesso approccio alla protezione dei diritti umani, ideale formalmente condiviso da tutta la Comunità internazionale, concretamente varia molto a seconda degli Stati, anche alla luce del fatto che non tutti i membri delle Nazioni Unite, e nemmeno tutti i membri permanenti, sono regimi democratici improntati ad un rigoroso rispetto dei diritti fondamentali. In tutti i casi in cui un certo tipo di azione potrebbe ledere interessi di un membro permanente e/o minare un principio che esso mira a difendere, è verosimile aspettarsi che essa venga bloccata dal veto, pur essendo magari percepita come necessaria da un’ampia parte della Comunità internazionale e dell’opinione pubblica. Né, d’altra parte, il Consiglio è giuridicamente obbligato a intervenire in una crisi in atto, o a indicare soluzioni alternative a quelle bocciate dai suoi membri. Ciò significa che se, per assurdo, centonovantadue Stati membri delle Nazioni Unite fossero a favore di un intervento militare per fini umanitari, ma la Russia fosse contraria, tale intervento non verrebbe attuato. L’ipotesi di un’autorizzazione alternativa da parte dell’Assemblea Generale, prospettata a seguito della risoluzione «Uniting for Peace» del 1950, resta come minimo assai controversa, come si avrà modo di vedere.

Rebus sic stantibus, è un dato di fatto che un rigoroso rispetto del monopolio del Consiglio di Sicurezza sull’uso della forza può portare, in concreto, ad assistere impotenti a gravi catastrofi umanitarie. A fronte di tali considerazioni, negli anni Novanta è stata sviluppata la teoria del cd. diritto di intervento umanitario, secondo cui l’uso della forza con finalità umanitarie sarebbe lecito anche senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, in casi eccezionali di emergenza umanitaria (solitamente individuati nel genocidio, nei crimini contro l’umanità, nella pulizia etnica e nelle stragi di massa). Tale teoria ha trovato il sostegno di

(26)

X

settori della dottrina e di alcuni Paesi occidentali, ed è stato invocato in occasione di alcuni controversi interventi militari, quale quello contro la Repubblica Federale di Jugoslavia in relazione alla crisi del Kosovo (non autorizzato dal Consiglio, bloccato dal veto russo). Al di là della sostenibilità della teoria, è un fatto che a partire dall’inizio degli anni Novanta, e fino ad anni molto recenti, vari interventi con finalità (anche) umanitarie siano stati posti in essere senza previa autorizzazione del Consiglio, portando ad interrogarsi sulla rilevanza di tale prassi ai fini del diritto internazionale consuetudinario.

La tesi dei sostenitori dell’anzidetta teoria è infatti che, in conseguenza della prassi e dell’opinio iuris manifestatesi a partire dall’inizio degli anni Novanta, si sia formata una nuova norma di diritto internazionale generale che ammette gli interventi umanitari cd. unilaterali, in circostanze eccezionali, quale eccezione al generale divieto di uso della forza sancito dal diritto consuetudinario e dall’art. 2, par. 4, della Carta ONU. Alcuni, più numerosi, sostengono che tale norma non sarebbe ancora pienamente formata e vigente, ma in via di formazione, e come tale definibile come norma «emergente» («emerging norm») dell’ordinamento internazionale. Altri ancora hanno sostenuto la tesi, assai problematica sul piano della legalità internazionale, per la quale simili interventi non sarebbero leciti, ma tuttavia «legittimi» su un piano morale e politico, dato il fine perseguito. Simili contrapposizioni hanno riguardato la possibilità che la responsabilità di proteggere venga esercitata da uno Stato terzo prescindendo dall’approvazione del Consiglio di Sicurezza, prospettata in termini vaghi dal rapporto dell’ICISS del 2001 ma ad oggi mai accolta in sede ONU; in tal caso, tale problematica si aggiunge ai già accennati interrogativi circa l’esatta valenza giuridica del concetto di «responsabilità» di proteggere. Settori consistenti della dottrina e della Comunità internazionale hanno negato decisamente tale possibilità di interventi armati non autorizzati, ritenendola non suffragata da una sufficiente prassi e opinio iuris, e condannando tali operazioni come inaccettabili violazioni della legalità internazionale.

(27)

XI

In tale contesto, il problema dell’intervento umanitario, specie unilaterale, «exposes the conflict between order and justice at its starkest»14, e si pone come una

delle sfide aperte per l’ordinamento internazionale, e al contempo come dilemma politico e morale. Esso costringe a confrontarsi con una riflessione sull’adeguatezza delle norme internazionali, e segnatamente del sistema ONU, rispetto alle aspettative e alle esigenze del mondo contemporaneo. A fronte di una prassi incerta e spesso contraddittoria, il ruolo della dottrina nello sviluppo del concetto e nella costruzione (o distruzione) del consenso riguardo ad esso appare fondamentale. Ecco perché, in uno scenario globale segnato dall’interdipendenza, l’intervento umanitario continua a costituire, dopo quasi trent’anni, uno dei temi più rilevanti e controversi del dibattito internazionale, cruciale ai fini della comprensione delle sfide e dei problemi di un mondo che cambia.

14 NICHOLAS J. WHEELER, Saving Strangers: Humanitarian Intervention in International Society,

(28)

1

C

APITOLO

I

USO DELLA FORZA E ORDINAMENTO

INTERNAZIONALE: PROFILI GENERALI

1. Lo ius ad bellum nella storia delle relazioni

internazionali: una breve analisi diacronica

Con l’espressione latina «ius ad bellum» si fa riferimento all’insieme delle norme giuridiche che stabiliscono le condizioni in presenza delle quali è consentito ricorrere alla guerra, e più in generale all’uso della forza armata, nell’ambito delle relazioni internazionali. Essa si distingue dallo «ius in bello» (oggi chiamato anche «diritto bellico»), che comprende le norme relative alle condotte che possono o non possono essere tenute nel corso di un conflitto armato.

Sebbene entrambe le espressioni risalgano all’epoca romana, fino al periodo compreso tra il Cinquecento e il Seicento nell’ambito della riflessione (filosofica e giuridica) sul problema della guerra non vi era una netta distinzione tra i due ambiti, per cui le teorie relative al primo finivano spesso per ricomprendere elementi del secondo, e viceversa. Una chiara distinzione tra i due ambiti, nell’analisi del pensiero dei secoli precedenti, risulta quindi almeno in parte artificiale, nell’ambito di uno sforzo ricostruttivo compiuto ex post al fine di facilitare, sul piano concettuale, l’indagine in questi due campi.

L’elaborazione di questi due sistemi giuridici avvenne, in una prima fase, innanzitutto nell’ambito di una riflessione morale sulla guerra, i cui riflessi giuridici non erano inizialmente determinati con precisione. Anche nel contesto odierno, il diritto (internazionale ed interno) concernente l’uso della forza costituisce una materia caratterizzata da una forte, reciproca influenza tra il diritto e la morale, pur a fronte dell’ormai acquisita autonomia tra i due ambiti. A ben vedere, la stessa possibilità di concepire regole in base alle quali iniziare una guerra (ius ad bellum) o combattere una guerra (ius in bello) può sembrare una

(29)

2

contraddizione in termini giuridici o, quanto meno, morali, a fronte dell’idea della guerra come forma di violenza caratterizzata, per definizione, dal venir meno di ogni regola di civile convivenza e da una situazione di generale turbolenza e caos. L’idea della guerra come negazione del diritto e/o della morale è sicuramente comprensibile, alla luce del disordine e della barbarie insite in qualunque conflitto, che nella storia ha portato vari pensatori a sostenere che «inter arma silent leges». Eppure, come evidenziato dal noto filosofo Michael Walzer, a questa prospettiva si può contrapporre l’osservazione che, in tutta la storia dell’umanità, il linguaggio relativo alla guerra è sempre stato profondamente intriso di «contenuti morali»15. Per cui, se da una parte vari

pensatori hanno proposto visioni della guerra slegate dalla morale, dall’altra si è sempre assistito ad una costante tendenza di ogni civiltà ad estendere anche ai conflitti l’uso di categorie morali quali «giusto» e «ingiusto». La ricaduta giuridica di simili visioni morali ha portato ad elaborare regole per stabilire quando si può o non si può ricorrere alla guerra (ius ad bellum), e cosa si può e non si può fare durante la guerra stessa (ius in bello). Per quanto contraddittoria possa sembrare l’idea di un “ordine” nella guerra (spesso associata all’idea di caos ed anarchia), e di una regola morale nella violenza, l’esperienza storica ci mostra come il rispetto di determinate prescrizioni nell’inizio e nella conduzione dei conflitti possa in qualche misura arginare il ricorso alla guerra (ius ad bellum) e mitigarne gli effetti più atroci (ius in bello).

A fronte della sua rilevanza ai fini del presente lavoro, nonché per ragioni di priorità logica, ci sembra opportuno che un’analisi sull’uso della forza nei rapporti internazionali inizi con un, pur breve, esame diacronico del ius ad bellum nell’ambito della cultura giuridica occidentale.

1.1. Dall’antichità al Seicento

L’idea di una limitazione della libertà di ricorrere alla forza nei rapporti con altri popoli ha caratterizzato pressoché tutte le tradizioni culturali fin da epoca

(30)

3

estremamente risalente, anche se fino all’età moderna si è espressa più in termini morali che stricto sensu giuridici (a causa della tendenza, tipica dell’antichità e del medioevo, alla sovrapposizione tra precetti morali e norme giuridiche, nonché all’assenza, fino al XV-XVI secolo, di un diritto internazionale inteso nel senso moderno16).

L’idea di una distinzione tra guerre giuste e ingiuste si può rintracciare sin nel Vecchio Testamento (si pensi alla guerra degli ebrei contro i cananei17), e diviene

più evidente in epoca greca e, soprattutto, romana. Nell’antica Roma viene infatti elaborata la dottrina della «bellum iustum» («guerra giusta»), con riflessi nel campo del diritto (l’insieme delle relative regole di diritto romano costituiva il ius fetiale)18. L’idea, che avrebbe costituito le basi per la successiva riflessione

cristiana sul tema, si ritrova ad esempio espressa da Cicerone (106-43 a.C.), per il quale una guerra poteva considerarsi ammissibile solo se intrapresa come ultima risorsa (cioè dopo l’esaurimento di tutte le possibili opzioni pacifiche), combattuta per un valido motivo (che egli individua nell’autodifesa o nella punizione di un altro popolo per una qualche colpa) e iniziata da un’autorità legittima19.

La teoria o dottrina della guerra giusta di origine romana verrà successivamente ripresa dalla filosofia cristiana medievale, fino ad influenzare i padri del moderno diritto internazionale (tra cui Grozio) e – in modo indiretto ma significativo – lo stesso approccio contemporaneo alla questione dell’uso della forza. Essa si può definire come «a theory of comparative justice applied to

16 Con tale espressione facciamo riferimento all’ordinamento internazionale delineatosi a partire

dal XV-XVI secolo. Il precedente concetto di «ius gentium», risalente all’epoca romana e riguardante anche il rapporto tra popoli diversi, non può essere assimilato tout-court al moderno concetto di diritto internazionale, anche a causa del fondamentale spartiacque storico rappresentato dalla nascita dello Stato moderno (collocabile tra XV e XVI secolo).

17 Come osservato da BENEDETTO CONFORTI, The Doctrine of “Just War” and Contemporary

International Law, in Italian Yearbook of International Law, 2002, p. 3 ss., p. 4.

18 CARLO FOCARELLI, Lezioni di diritto internazionale, I. Il sistema degli Stati e i valori comuni

dell’umanità, Padova, 2008, p. 490.

19 JOSEPH CAPIZZI, Politics, Justice, and War, 2012, pp. 12-13; ANDREA KELLER, Cicero: Just War in

Classical Antiquity, in HEINZ-GERHARD JUSTENHOVEN &WILLIAM A.BARBIERI JR. (eds.), From Just

War to Modern Peace Ethics, 2012, pp. 9, 24; WASEEM AHMAD QURESHI, Examining the Legitimacy and

Reasonableness of the Use of Force: From Just War Doctrine to the Unwilling-or-Unable Test, in Oklahoma City University Law Review, 2018, p. 221 ss., p. 233.

(31)

4

considerations of war and intervention», che, rifiutando una completa separazione tra politica ed etica, propone un approccio all’uso della forza per così dire intermedio tra quello della realpolitik (che sostanzialmente slega il ricorso alla forza da considerazioni morali, basandolo unicamente sull’utilità politica) e il pacifismo (che, quantomeno nella sua forma assoluta, rifiuta radicalmente qualsiasi utilizzo della forza armata)20.

Dopo una prima fase di rifiuto incondizionato della guerra (primi tre secoli d.C.), i principali filosofi e giuristi cristiani iniziarono ad ammettere il ricorso alla forza armata in determinate circostanze21, come male (talvolta) necessario per porre

fine ad un male ancora più grande22. La prima importante formulazione della

dottrina cristiana della guerra giusta precede il medioevo e si deve a Sant’Agostino di Ippona (vescovo e padre della Chiesa, 354-430 d.C.)23, le cui idee

in materia avrebbero influenzato profondamente tutti i pensatori successivi. Nella visione di Sant’Agostino, la guerra è giusta in presenza di una serie di requisiti relativi alle motivazioni, all’esito perseguito e alle modalità. Motivazioni che consentono il ricorso alle armi sono: vendicare o far cessare un’ingiustizia (concetto che può ricomprendere anche l’autodifesa o la difesa di altri popoli24),

punire un popolo o un Paese responsabile di crimini efferati, recuperare ciò che è stato ingiustamente sottratto, o – infine – eseguire la volontà di Dio25. Il conflitto

deve perseguire l’instaurazione di una situazione di pace e ordine nonché la

20 JEAN BETHKE ELSHTAIN, Just War and Humanitarian Intervention, in American University National

Law Review, 2001, p. 1 ss., p. 1. Sul pacifismo, si veda anche ANKE BIEHLER, Pacifism, in RÜDIGER

WOLFRUM (ed.), The Max Planck Encyclopedia of Public International Law, vol. VIII, Oxford, 2012, pp.

11-15.

21 ONDER BAKIRCIOGLU, Islam & Warfare, Context & Compatibility with International Law, 2014, pp.

47-48.

22 Cfr. QURESHI, Examining the Legitimacy and Reasonableness of the Use of Force, cit., p. 232. 23 AGOSTINO DI IPPONA, De Civitate Dei, IV, 6, 413-426 d.C..

24 Come osservato in QURESHI, Examining the Legitimacy and Reasonableness of the Use of Force, cit.,

p. 233.

25 CONFORTI, The Doctrine of “Just War”, cit., p. 4. Per quanto concerne la guerra per ordine di Dio,

va però precisato che secondo la formulazione classica della dottrina cristiana della guerra giusto, l’uso della forza non era ammesso a fini di conversione dei popoli non cristiani, giacché, come affermato da San Tommaso d’Aquino, la conversione doveva essere ottenuta tramite la persuasione, e non mediante la violenza (ibidem, p. 5).

(32)

5

redenzione del nemico26 e, infine, deve essere combattuto solo dai governanti

(«princeps»)27, visti come autorità legittime (l’idea di un potere di far guerra

riservato alle «autorità legittime» resterà una costante delle teorie sulla guerra, sebbene l’idea che essa debba limitarsi a combattimenti tra i soli governanti potesse apparire irrealistica già all’epoca di Agostino).

La concezione agostiniana della guerra giusta sarebbe stata riproposta, talvolta con alcune variazioni ma senza mai un significativo scostamento, da tutti i filosofi cristiani di epoca medievale. Tra essi in particolare San Tommaso d’Aquino (1225-1274)28, che, nella sua Summa Theologiae29, vi aggiunse tuttavia il requisito

del perseguimento del «bene comune» (talvolta menzionato in modo generico, talvolta inteso con esplicito riferimento alla sola cristianità30).

In generale, l’elemento centrale della dottrina cristiana della guerra giusta appare rappresentato dal principio di giusta causa (iusta causa), presente già in epoca romana, e riscontrabile anche nella concezione islamica di guerra giusta31. Si

tratta del principio per il quale per scendere in guerra occorre una ragione valida sul piano etico. Ragione che in genere i pensatori cristiani individuano nella contemporanea sussistenza di una serie di requisiti (in parte già menzionati illustrando il pensiero di Agostino e Tommaso): i) «retta intenzione» (recta intentio), che implica che la guerra può essere fatta solo al fine di ripristinare una situazione di pace (ossia, in sostanza, per promuovere il bene) e nel rispetto di un principio di proporzionalità, per il quale occorre usare solo la forza strettamente necessaria in relazione all’obiettivo perseguito32 (esso costituisce

tutt’oggi uno dei principi cardine del diritto internazionale dei conflitti armati33);

26 Ibidem, p. 4.

27 Ibidem.

28 Ibidem; ROBERT GILL, A Textbook of Christian Ethics, IV ed., 2014, p. 269. 29 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, Magonza, 1467.

30 Cfr. CONFORTI, The Doctrine of “Just War”, cit., p. 5. 31 BAKIRCIOGLU, Islam & Warfare, cit., p. 47.

32 Cfr. DAVID LITTLE, Introduction, in DAVID SMOCK, Religious Perspectives on Wars, 2002, pp. XXC,

XXIX.

33 La sua inclusione all’interno della dottrina della guerra giusta mostra, peraltro, la notevole

(33)

6

ii) dichiarazione formale della guerra34 (requisito che si imporrà in termini molto

ben codificati nell’età moderna, cadendo pero in disuso dopo il secondo conflitto mondiale) iii) da parte di un’autorità legittima35 (identificata nel sovrano: ciò

mirava anche a scongiurare un incontrollato ricorso alle armi da parte di feudatari e vassalli, che prima della nascita dello Stato moderno disponevano di eserciti propri36); iv) ricorso alla guerra come ultima risorsa (cioè solo dopo aver

esaurito le opzioni pacifiche); v) ragionevoli possibilità di successo.

1.2. L’avvento del diritto internazionale moderno e l’assenza di

limiti giuridici al ricorso alla forza: la guerra come elemento

fisiologico delle relazioni internazionali

Le teorie medievali sulla guerra vengono rielaborate, ma senza stravolgimenti netti, dal giurista domenicano spagnolo Francisco De Vitoria (1483-1546), che può essere considerato una sorta di figura «ponte» tra i giuristi medievali e i padri del diritto internazionale moderno (che ne verranno influenzati)37. Il suo

pensiero contiene comunque alcuni rilevanti aspetti innovativi. In primo luogo, egli comunque compie l’importante passo di estendere tale concezione a tutta l’umanità (compresi i popoli pagani), giungendo su queste basi a condannare la sottomissione da parte della Spagna di alcuni popoli nativi americani (egli infatti riprende la posizione di Tommaso d’Aquino contro l’uso della violenza ai fini di

34 J.DARYL CHARLES &TIMOTHY J.DEMY, War, Peace, and Christianity, 2010, p. 100. 35 Cfr. CÉCIL FABRE, Cosmopolitan War, Oxford, 2012, p. 142.

36 JAMES TURNER JOHNSON, Historical Tradition and Moral Judgment: The Case of Just War Tradition,

in The Journal of Religion, p. 299 ss., pp. 307-309.

(34)

7

conversione dei popoli non cristiani)38. Inoltre, egli inizia a proporre una

distinzione ius ad bellum e ius in bello39.

Con il progressivo affermarsi del giusnaturalismo (o dottrina del diritto naturale), viene mantenuta una generale adesione all’impianto fondamentale della teoria cristiana della guerra giusta, pur con alcune modifiche e precisazioni40. Il celebre giurista Alberico Gentili (1552-1608), nel suo De iure belli

(1588), condanna la guerra di aggressione e la guerra a fini religiosi (che ancora caratterizzava lo scenario europeo), ma ammette la guerra difensiva41.

Anche nelle fondamentali opere di Ugo Grozio42 (1583-1645), celebre giurista

olandese e tra i principali padri del diritto internazionale moderno43 (opere tra le

quali spicca per rilevanza De jure belli ac pacis, 1625), si assiste ad una riproposizione delle teorie precedenti (ad esempio con riguardo alla giusta causa – ora però interpretata in modo tale da fornire una giustificazione per la guerra coloniale44 – , alla forza come ultima risorsa45 e al requisito dell’autorità

legittima). Vi sono comunque alcune novità di rilievo, come la presenza di

38 Cfr. CHARLES &DEMY, War, Peace, and Christianity, cit., pp. 32-33; QURESHI, Examining the

Legitimacy and Reasonableness of the Use of Force, cit., p. 236. De Vitoria tratta il tema della guerra

in due delle sue dodici Reflectiones theologicae, nelle quali si occupa direttamente del problema della violenza esercitata dagli spagnoli contro gli indios nelle Americhe (De insis recenter inventis

– Relectio prior e De Indis, sive de jure belli Hispanorum in barbaros – Relectio Posterior). Circa i requisiti

della guerra giusta, egli ribadisce quanto già precedentemente affermato dai giuristi medievali, e in particolare i requisiti della giusta causa (egli però precisa che è possibile che in un conflitto entrambe le parti siano convinte in buona fede di combattere per una «giusta causa»: evidentemente, almeno uno dei belligeranti sarà in errore).

39 Cfr. HOWARD M.HENSEL, Theocentric Natural Law and Just War Doctrine, in HOWARD M.HENSEL

(ed.), The Legitimate Use of Military Force, 2008, p. 11; ROBERT D.SLOANE, The Cost of Conflation:

Preserving the Dualism of Jus ad Bellum and Jus in Bello in the Contemporary Law of War, in Yale Journal of International Law, 2009, p. 47 ss., p. 59.

40 Cfr. CONFORTI, The Doctrine of “Just War”, cit., pp. 6-7.

41 Cfr. NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia. Vol. 2. Il pensiero medievale e rinascimentale: dal

misticismo a Bacone, ed. 2006, pp. 494-502.

42 Italianizzazione dall’olandese Huig de Groot, conosciuto anche nella versione latina Hugo

Grotius.

43 Nelle sue opere Grozio estende la teoria del diritto naturale dagli individui ai sovrani (e, quindi,

agli Stati), contribuendo così alla teorizzazione di quel sistema internazionale che sarà alla base del diritto internazionale classico, caratterizzando i due secoli successivi (cfr. LUKE GLANVILLE,

The Responsibility to Protect in the Law of Nature and Nations, in European Journal of International Law,

2017, No. 4, p. 1069 ss., p. 1081).

44 UGO GROZIO, De jure belli ac pacis libri tres, vol. 2, 1625, ed. by F.W. Kelsey (1925), I.2. 45 CONFORTI, The Doctrine of “Just War”, cit., p. 7.

Riferimenti

Documenti correlati

Impact of a higher radiation dose on local control and survival in breast-conserving therapy of early breast cancer: 10-year results of the random- ized boost versus no boost

Sulla base delle iscrizioni pervenute l'incontro potrà essere in presenza previa esibizione del GREEN PASS, oppure in modalità online su piattaforma Zoom. L'incontro è

progetto “Studenti ambasciatori alle Nazioni Unite” per favorire la partecipazione degli studenti ai Model United Nations... Model

1.Ogni Membro delle Nazioni Unite può sottoporre qualsiasi controversia o situazione della natura indicata nell’art. 34 all’attenzione Col Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea

Al Vertice del Millennio del 2000 gli Stati Membri delle Nazioni Unite hanno stabilito otto obiettivi, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che fanno appello all’azione

La proposta di trasformare la Cdu in un consiglio a composizione ristretta e di eleggere i membri sulla base del rispetto dei “più alti standard dei diritti umani” è stata

Diritti civili e libertà (artt. Il Comitato è preoccupato per le limitazioni legali e pratiche che riguardano il diritto dei bambini di origine straniera di essere registrati.

Obiettivi e temi dell’incontro vengono illustrati in una conferenza stampa prevista venerdì 28 maggio alle ore 13:30 alla fine delle sessioni della mattinata dai due co -