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Le pronunce della Cedu del 2004: i casi Somojyi e Sejdovic e le soluzioni di riforma in tema di processo contumaciale prospettate

LE PRONUNCE DEL 2004 IN SEDE EUROPEA E LE PROSPETTIVE DI RIFORMA INDICATE AL LEGISLATORE

3.1 Le pronunce della Cedu del 2004: i casi Somojyi e Sejdovic e le soluzioni di riforma in tema di processo contumaciale prospettate

legislatore italiano – 3.2 Il dibattito in tema di giudizio in absentia all‟indomani dei pronunciamenti della Corte europea – 3.3 La strada seguita dal legislatore italiano con il d.l. 21 febbraio 2005 n. 17 convertito, con modificazioni, dalla l. 22 aprile 2005 n. 60: la riforma degli artt. 157 e 175 c.p.p. ed il conseguente nuovo assetto delle notificazioni

3.1 Le pronunce della Cedu del 2004: i casi Somojyi e Sejdovice le soluzioni di riforma in tema di processo contumaciale prospettate dall’Europa al legislatore italiano

La mancata riproposizione, già nel codice di rito del 1930, degli istituti della “purgazione” e dell‟”opposizione”, caratterizzati dal comune dato della totale caducazione degli effetti del precedente giudizio contumaciale al fine di rendere possibile lo svolgimento del

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processo nella pienezza del contraddittorio, ha indotto gli interpreti1, in più occasioni, ad interrogarsi su quali fossero i rimedi più idonei a consentire il recupero del contraddittorio che si sia svolto nell‟assenza incolpevole dell‟imputato, in un contesto, quindi, fortemente lesivo del diritto di difesa personale.

Questa tematica ha rappresentato, nella materia processuale, il settore privilegiato attraverso il quale le disposizioni della Cedu, unitamente alla giurisprudenza elaborata dalla Corte di Strasburgo, sono penetrate nell‟ordinamento giuridico italiano, passando dal rango di mero elemento d‟impulso nei riguardi del legislatore a quello di “precetto” vincolante, tale anche da scardinare il principio d‟intangibilità del giudicato. In altri termini, anche se la Convenzione europea non prevede alcun rapporto diretto tra giudici nazionali e la Corte europea dei diritti dell‟uomo (strutturata secondo le caratteristiche di una corte internazionale), diversamente da quanto avviene relativamente alla Corte di giustizia nell‟ambito dell‟ordinamento comunitario attraverso l‟apposito strumento del rinvio pregiudiziale, proprio la giurisprudenza in tema di rimedi a favore del contumace evidenzia un‟iterazione tra diritto interno e norme della Cedu particolarmente intensa.

La parabola evolutiva, come abbiamo visto nel corso della trattazione del primo capitolo, si è compiuta nell‟arco di un periodo che si snoda dal codice di procedura penale del 1930 e precisamente dalla nota

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Vedi Lattanzi G., Spunti critici sulla disciplina del processo contumaciale, in Legisl. pen., 2004, pag. 595 e ss.

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sentenza Colozza2, la quale ha agito da fattore propulsivo per l‟emanazione della <<nuova disciplina sulla contumacia>> di cui alla l. 23 gennaio 1989 n. 22, fino all‟attuale codice di rito. Le sentenze Somojyi e Sejdovic, successivamente, al di là dell‟incidenza che hanno avuto sulla riforma3, anche se solo parziale, dell‟istituto della restituzione in termini, hanno costituito l‟occasione per l‟affermazione, da parte della nostra giurisprudenza di legittimità, di principi dirompenti sul fronte dell‟efficacia da riconoscersi alle pronunce della Corte europea che abbiano accertato la violazione di regole procedurali.

Il fattore che ha consentito questa progressiva penetrazione delle previsioni della Cedu nel diritto interno può individuarsi4 nel disinteresse del legislatore nei riguardi dei rimedi in favore del contumace, giustificato dalla convinzione, avallata dal Giudice delle Leggi, che i previsti strumenti di reintegrazione successiva fossero sufficienti a salvaguardare il diritto di difesa eventualmente leso dal mancato funzionamento dei mezzi d‟informazione preventiva. In particolare, la giustizia costituzionale5 aveva individuato taluni

2

C. eur. Dir. Uomo, 22 gennaio 1985, Colozza c. Italia

3

Vedi d.l. 21 febbraio 2005 n. 17, recante <<disposizioni urgenti in materia d‟impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti penali di condanna>>, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 aprile 2005 n. 60.

4

Di quest‟avviso Mangiaracina A., Garanzie partecipative e giudizio in absentia, Giappichelli, 2010, pag. 231.

5

Vedi Corte Cost., sent. n. 399 del 10 – 12 dicembre 1998, la quale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 160 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 10 e 24 Cost., nella parte in cui, nel disciplinare le notificazioni all‟imputato in caso d‟irreperibilità, consentono l‟instaurazione e la definizione del processo penale nei confronti di un soggetto che non ha avuto notizia del giudizio a suo carico.

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meccanismi di “reintegrazione” applicabili, oltre che all‟imputato contumace, anche all‟irreperibile, purché ricorressero determinate condizioni: si trattava della nullità dell‟ordinanza dichiarativa della contumacia nel corso dell‟udienza preliminare; della restituzione in termini per impugnare ex art. 175 co. 2 c.p.p.; della rinnovazione dell‟istruzione dibattimentale in appello ex art. 603 co. 4 c.p.p.; della possibilita‟ di rendere dichiarazioni spontanee anche nel giudizio in cassazione; nonché, con riferimento al condannato contumace irreperibile, del meccanismo di cui all‟art. 670 c.p.p. che, attribuendo al giudice dell‟esecuzione il potere di controllare anche nel merito che il titolo esecutivo si sia formato nel rispetto delle garanzie previste per l‟imputato irreperibile, consente di poter rimettere in termini l‟imputato per l‟impugnazione.

Neppure il sistema dei rimedi in favore del contumace, come introdotto dal legislatore del codice del 1988, il quale avrebbe dovuto adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall‟Italia ed attuare i caratteri del sistema accusatorio, ha superato immune il “controllo” degli organismi europei. Insoddisfatti dinanzi ai contorni evanescenti del rimedio predisposto dal legislatore, comincia ad evidenziarsi un fronte di perplessità a livello europeo sfociato in due importantissime pronunce che, a distanza di poco tempo, mostrano i difetti strutturali del sistema processuale italiano e

L‟impostazione accolta dalla Corte Costituzionale è stata, peraltro, successivamente ribadita dal medesimo organo con la sentenza n. 117 del 21 marzo – 5 aprile 2007. In argomento, vedi la riflessione di Lazzarone F., Processo in absentia: dall‟Europa una spinta per la riforma?, in Legisl. pen., 2004, pag. 601 e ss.

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“costringono”6

il legislatore interno a modificare la disciplina, ormai in aperto contrasto con la Carta europea dei diritti dell‟uomo7.

La prima sentenza sulla quale è opportuno soffermarsi, anche se non strettamente attinente al tema dei rimedi, del quale però costituisce un

prius sul piano logico-argomentativo, è quella emessa nel caso

Somojyi c. Italia8, relativa ad un procedimento penale per traffico d‟armi, nell‟ambito del quale il giudice per le indagini preliminari aveva fatto notificare l‟avviso di fissazione dell‟udienza preliminare per mezzo di una lettera raccomandata nella quale vi erano alcuni elementi, quali errori nell‟indicazione dell‟indirizzo e apparente diversità delle firme, che potevano ingenerare il dubbio che tale atto non fosse pervenuto al destinatario residente in Ungheria9.

6

Di questo avviso Lattanzi G, Costretti dalla Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2005, pag. 1125 e ss.

7

C. eur. Dir. Uomo, 18 maggio 2004, Somojyi c. Italia e C. eur. Dir. Uomo, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia

8

C. eur. Dir. Uomo, 18 maggio 2004, Somojyi c. Italia

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La vicenda Somojyi può essere così sintetizzata.

Nell‟ambito di un processo per violazione alla normativa sulle armi, il Gip del Tribunale di Rimini aveva disposto la notifica a Tamas Somojyi, cittadino ungherese, dell‟avviso di fissazione dell‟udienza preliminare, tradotto in lingua magiara, a mezzo di lettera raccomandata. La ricevuta di ritorno della raccomandata, recante l‟apparente firma del destinatario, veniva restituita la Tribunale di Rimini.

Somojyi, assistito da un difensore d‟ufficio, non si presentava ne‟ all‟udienza preliminare ne‟ al dibattimento e veniva dichiarato contumace. Il processo di primo grado si concludeva con la sua condanna a otto anni di reclusione. La sentenza del Tribunale di Rimini diventava irrevocabile il 22 giugno 1999 per mancata interposizione d‟appello da parte del difensore d‟ufficio che lo aveva assistito nel corso del procedimento.

Successivamente, Somojyi veniva arrestato in Austria ed estradato poi in Italia per l‟esecuzione della sentenza di condanna definitiva emessa nei suoi confronti.

Somojyi eccepiva reiteratamente, anche tramite un difensore di fiducia nel frattempo nominato, sia in sede d‟incidente d‟esecuzione, volto a far dichiarare l‟invalidità del titolo esecutivo, che in sede di domanda di restituzione nel termine per impugnare la sentenza

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Tutte le istanze venivano respinte dall‟autorità giudiziaria italiana: a fronte delle doglianze mosse dall‟interessato, in sede d‟istanza di restituzione nel termine per impugnare, in ordine alla asserita falsità della firma apposta sulla ricevuta di ritorno, il Tribunale, la Corte d‟Appello e la Corte di Cassazione, nell‟ordine, avevano respinto le richieste, ritenendo che questi eccepisse una nullità della notificazione il cui accertamento era precluso dall‟esistenza di un giudicato.

Peraltro, le imperfezioni nell‟indirizzo sarebbero state minime e, comunque, tali da non creare alcuna incertezza sostanziale quanto al luogo nel quale il plico avrebbe dovuto essere recapitato10.

Esauriti i mezzi d‟impugnazione predisposti nell‟ordinamento italiano, il ricorrente, in base all‟art. 34 Cedu, si rivolgeva alla Corte europea lamentando di essere stato condannato dall‟autorità giudiziaria italiana senza neppure aver avuto conoscenza dell‟esistenza di un procedimento a suo carico, dal momento che non gli era mai stato notificato l‟avviso di fissazione dell‟udienza preliminare; lo stesso evidenziava, altresì, di aver disconosciuto la firma apposta sulla ricevuta di ritorno della raccomandata chiedendo, seppure senza esito positivo, che si procedesse a perizia grafologica. Da ultimo, aveva

contumaciale ex art. 175 c.p.p., la nullità della notifica dell‟avviso di fissazione dell‟udienza preliminare, tradotto in lingua ungherese, disconosceva la firma apposta sulla cartolina di ritorno e l‟esattezza dell‟indirizzo indicato sulla stessa e, infine, deduceva la nullità di tutti gli atti successivi del processo, compresa la notifica dell‟estratto contumaciale della sentenza di primo grado.

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Rileva gli errori commessi dagli organi giudiziari italiani nella procedura seguita Ubertis G., Come rendere giusto il processo senza imputato, in Legisl. pen., 2004, pag. 606 e ss.

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rilevato talune imprecisioni nell‟indicazione dell‟indirizzo cui la notificazione avrebbe dovuto essere effettuata.

Ritenendo che la sua condanna non fosse conforme ai principi del fair

trail, Somojyi adiva la Corte di Strasburgo che, con sentenza del 18

maggio 2004, ravvisava la violazione dell‟art. 6 Cedu.

In particolare, la Corte osservava che la firma apposta sulla ricevuta di ritorno della raccomandata, mezzo con il quale era stata disposta la notifica dell‟avviso di fissazione dell‟udienza preliminare, costituiva il solo elemento suscettibile di provare che l‟imputato fosse stato informato dell‟instaurazione del processo nei suoi confronti. La non manifesta infondatezza delle argomentazioni con le quali il Somojyi contestava l‟autenticità di tale firma, insieme con le inesattezze concernenti l‟indirizzo ed il nome del destinatario, con le divergenze tra il nome di quest‟ultimo e la sottoscrizione presente sulla cartolina di ritorno, non approfondite tramite la richiesta perizia grafologica, rappresentavano altrettanti concreti elementi, idonei ad ingenerare dubbi obiettivi sull‟effettività della conoscenza da parte dell‟imputato delle accuse mosse nei suoi confronti e sulla volontarietà della rinuncia a comparire.

Nella sentenza Somojyi c. Italia, la Corte ha condannato lo Stato italiano rilevando che <<si verifica una negazione di giustizia nel caso in cui un individuo, condannato in absentia, non possa ottenere che una giurisdizione deliberi di nuovo, dopo che egli sia venuto a conoscenza del fondamento dell‟accusa, in fatto ed in diritto>>.

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In linea con la costante giurisprudenza, in questo provvedimento si ribadisce che la rinuncia ad un diritto garantito dalla Convenzione può essere tacita od esplicita, ma deve comunque essere <<non equivoca>>. Nell‟itinerario argomentativo dell‟organo di giustizia convenzionale si sottolinea come la rinuncia a partecipare al processo presupponga che sia stato accertato, <<al di là di ogni ragionevole dubbio>>, che il condannato sia stato effettivamente e ritualmente informato della natura e dei motivi dell‟accusa, nonché del luogo e del giorno nel quale avrà la possibilita‟ di presentare, personalmente o tramite un difensore, le proprie difese11. In particolare, la Corte precisa che l‟art. 6 Cedu implica per ogni giurisdizione nazionale l‟obbligo di verificare se l‟imputato abbia avuto la possibilita‟ di conoscere le imputazioni a suo carico quando, su questo punto, sorge una contestazione che non appare <<immediatamente e manifestamente infondata>>; e, inoltre, che avvisare qualcuno delle imputazioni a suo carico costituisce un atto giuridico d‟importanza tale da dover rispondere a delle condizioni di forma e di sostanza atte a garantire un esercizio effettivo dei diritti dell‟imputato, così che una conoscenza vaga e non ufficiale, quale quella avvenuta mediante informazione da parte della stampa giornalistica, come evidenziato dal ricorrente, non può considerarsi sufficiente a soddisfare i requisiti di cui all‟art. 6 Cedu.

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La Corte ha ritenuto, tuttavia, di non poter constatare che la privazione della libertà personale lamentata dal ricorrente, a seguito dell‟esecuzione del giudicato, abbia costituito violazione della Convenzione, non accordando, pertanto, alcun risarcimento in via equitativa a tale titolo.

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Nel caso di specie nessuna verifica era stata compiuta dalle autorità italiane per accertare che l‟imputato avesse avuto effettiva conoscenza del processo a suo carico, privando così il ricorrente della possibilita‟ di rimediare, all‟occorrenza, ad una situazione contraria ai principi della Convenzione: da qui la violazione dell‟art. 6 Cedu e l‟affermazione, ex art. 41 Cedu, che <<la constatazione della violazione fornisce di per se‟ una sufficiente equa soddisfazione per il danno morale subito dal ricorrente>>. Tuttavia, malgrado la stringatezza del dispositivo, la Corte, anticipando quanto verrà meglio approfondito nella successiva sentenza Sejdovic c. Italia12, non aveva mancato di precisare che, quando la condanna era stata pronunciata malgrado l‟esistenza di un potenziale disconoscimento del diritto dell‟imputato a partecipare al processo, <<il risarcimento più appropriato sarebbe stato quello di far nuovamente giudicare l‟interessato o di riaprire la procedura in tempo utile e nel rispetto delle esigenze dell‟art. 6 Cedu>>.

La sentenza in esame lasciò dei dubbi forti13 circa l‟onestà e la veridicità delle affermazioni del ricorrente, che poteva essere stato tanto una vittima incolpevole di circostanze oggettivamente sfortunate, quanto una persona che, una volta caduta nelle maglie della giustizia, ha tentato di sfruttare alcuni dettagli od errori delle autorità per evitare la carcerazione. Le peculiarità del caso Somojyi hanno,

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C. eur. Dir. Uomo, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia

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E‟ di quest‟avviso Tamietti A., Iniquità della procedura contumaciale ed equa riparazione sotto forma di restitutio in integrum: un passo verso un obbligo giuridico degli Stati membri alla celebrazione di un nuovo processo?, in Cass. pen., 2004, pag. 3801 e ss.

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però, consentito alla Corte di affermare, per la prima volta in materia di processo contumaciale, la massima secondo la quale spetta alle autorità nazionali assicurarsi che l‟imputato abbia avuto conoscenza delle accuse, procedendo alle verifiche necessarie quando sorgano dubbi plausibili in proposito. Poiché ciò non fu fatto nel caso in esame, la Corte di Strasburgo concluse per la violazione dell‟art. 6 Cedu.

Detto questo, la Corte chiarisce che il processo in absentia non è, di per se‟, incompatibile con l‟art. 6 Cedu, ma resta un incontestabile diniego di giustizia laddove l‟imputato contumace non possa ottenere, successivamente, che una giurisdizione statuisca di nuovo, dopo averlo sentito, sul merito dell‟accusa sul fatto e in diritto, nel caso in cui non si sia stabilito, in maniera non equivoca, che ha rinunciato alla facoltà di comparire e difendersi presenziando. In caso di dubbio circa l‟effettiva conoscenza della pendenza penale a suo carico e della data nella quale è fissata l‟udienza, quindi, spetta all‟autorità giudiziaria svolgere con diligenza le verifiche necessarie per assicurarsi che i principi dell‟equo processo siano rispettati14

(precisazione che la Corte riprende anche nella successiva sentenza Sejdovic15).

Tale approccio pare coerente con il carattere sussidiario della tutela offerta dalla Convenzione: i diritti fondamentali devono essere garantiti, in primo luogo ed attraverso idonee procedure, dalle autorità statali, il che giustifica la regola del preventivo esaurimento delle vie

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C. eur. Dir. Uomo, 18 maggio 2004, Somojyi c. Italia

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di ricorso interne (ex art. 35 par. 1 Cedu), basata sulla presunzione dell‟esistenza di un rimedio effettivo davanti ad un‟istanza nazionale. La Sentenza Somojyi sembra, inoltre, introdurre un elemento nuovo nell‟art. 6 Cedu, prospettando la possibilità di una mancanza <<di secondo grado>> alla norma sull‟equo processo. Essa si riferisce ad una violazione procedurale di un diritto anch‟esso eminentemente procedurale. L‟art. 6 è, infatti, disposizione che stabilisce, a favore dell‟imputato, una serie di facoltà e tutele che dovrebbero assicurare l‟equità complessiva della procedura penale. Tra di esse rientrano l‟imparzialità ed indipendenza del tribunale, l‟assistenza di un interprete e di un avvocato, la possibilità di contro – interrogare i testimoni e di essere presenti all‟udienza. Questi elementi di fairness possono essere infranti non solo in maniera diretta (quando, ad esempio, la giurisdizione interna non appare dotata di terzietà sufficiente, ovvero se è accertato che il ricorrente non sia stato ritualmente informato della pendenza a suo carico16), ma anche mediatamente. Ciò avviene, in caso di dubbio e di contestazione, quando le autorità non hanno diligentemente agito a monte per verificare se il ricorrente abbia goduto di tutte le facoltà e garanzie imposte dalla disciplina internazionale.

A distanza di poco tempo dall‟accennata pronuncia, la Corte di Strasburgo è nuovamente intervenuta sul giudizio contumaciale italiano con la decisione resa nel caso Sejdovic c. Italia17, la quale

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Come avvenne, ad esempio, nel caso Colozza c. Italia del 1985.

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Il ricorrente risiedeva ad Amburgo. In data 8 settembre 1992 un uomo fu ucciso da un colpo di arma da fuoco nel campo nomadi di Roma. Secondo le prime testimonianze raccolte dalla polizia, il ricorrente era l‟autore materiale dell‟omicidio.

Il giudice per le indagini preliminari di Roma ordinò che il ricorrente fosse posto in stato di custodia cautelare. Non fu, tuttavia, possibile eseguire l‟ordinanza poiché il ricorrente era divenuto irreperibile. Per tale motivo, le autorità italiane ritennero che egli si fosse volontariamente sottratto alla giustizia e lo dichiararono latitante.

Le autorità italiane, non essendo riuscite a notificare al signor Sejdovic l‟invito a nominare un difensore di fiducia, nominarono un avvocato d‟ufficio, il quale venne informato del rinvio a giudizio del proprio assistito e della data del dibattimento dinanzi la Corte d‟Assise di Roma. Con sentenza del 2 luglio 1996, il processo, celebrato in assenza dell‟imputato, previa dichiarazione di latitanza ex art. 296 c.p.p., si era concluso con la condanna del il ricorrente per omicidio e porto illegale di arma ad una pena di ventuno anni e otto mesi di reclusione.

L‟avvocato d‟ufficio del ricorrente fu informato del deposito in cancelleria della sentenza della Corte d‟Assise stessa e decise di non avvalersi della possibilita‟, a lui riconosciuta dalla legge italiana, d‟interporre appello. La condanna del ricorrente passò, quindi, in giudicato.

Il 22 settembre 1999, il ricorrente fu fermato ad Amburgo dalla polizia tedesca, in esecuzione di un mandato d‟arresto emesso dalla Procura di Roma e, pochi giorni dopo, il Ministro della Giustizia italiano chiese l‟estradizione del Sejdovic, precisando che, una volta estradato, l‟interessato avrebbe potuto chiedere, ai sensi dell‟art. 175 c.p.p., la restituzione nel termine per interporre appello contro la sentenza della Corte d‟Assise di Roma. Dietro richiesta delle autorità tedesche, la Procura di Roma precisò che non si evinceva dal fascicolo che il ricorrente avesse avuto conoscenza effettiva delle imputazioni a lui ascritte; inoltre, la Procura non era in grado di dire se il ricorrente avesse contattato l‟avvocato nominato d‟ufficio. Comunque sia, quest‟ultimo aveva assistito al dibattimento e si era attivamente impegnato nella difesa del suo assistito, chiedendo la convocazione di numerosi testimoni. La colpevolezza del ricorrente, peraltro, il quale era stato indicato da numerosi testimoni come l‟assassino, era stata chiaramente accertata dalla Corte d‟Assise di Roma nel corso del procedimento. Secondo la Procura, il ricorrente si era reso latitante proprio per evitare di essere arrestato e giudicato e precisò, infine, che la persona che deve essere estradata poteva chiedere d‟interporre appello avverso la sentenza contumaciale. Affinché un tribunale accettasse di esaminare nuovamente il caso, però, era indispensabile che venisse accertato il carattere erroneo della dichiarazione secondo la quale l‟imputato era latitante. In sintesi, quindi, un